Il libro fra religione e ricerca di senso: la domanda esplicita
Procediamo nella nostra ricerca intorno alla domanda di senso che avvicina alla religione. Il precedente nostro intervento ha rimarcato come dalle ferite della post-modernità si possano aprire percezioni di orizzonti che stanno oltre l’immanenza della vita. Nel nostro percorso non abbiamo ancora raggiunto una domanda compiuta di senso, ma solo un lento movimento che tende a espandersi. Esaminiamo ora ulteriori sviluppi di questo movimento in due nuovi romanzi.
La “benedizione” della prateria americana
Il testo è un’opera dello scrittore americano Kent Haruf, il cui titolo Benedizione (pubblicato da NNE, 2015) gode di una forza evocativa sostenuta dalle vicende che vengono narrate. Siamo a Dohl, piccolo paese nella grande pianura di Denver. I grandi spazi, siano deserti, pianure o estesi canyon, sono un tema ricorrente nella letteratura americana. È qui che si sviluppano le dinamiche dell’esistenza, quelle più profonde che riguardano il destino e la vita degli uomini. Se dell’America sono note le grandi città, in realtà le grandi tematiche esistenziali si dipanano nei grandi spazi. Dad Lewis è un anziano americano malato di cancro con pochi mesi di vita. Il nostro romanzo racconta gli ultimi mesi di vita del protagonista, trascorsi con la fedele moglie Mary e la figlia Lorraine, accorsa ad assistere i due genitori nel difficile passaggio del padre.
Da giovane Dad ha ritirato il negozio di ferramenta dove lavorava come dipendente. La sua vita è stata difficile, ma l’ha condotta con una pragmatica severità, non preoccupandosi degli altri se andavano a scontrarsi con i suoi interessi. Molti sono gli scheletri che ha nell’armadio: un suo dipendente scoperto a rubare viene allontanato brutalmente e abbandonato a se stesso nel drammatico esito del suicidio.
Nella frazione di tempo che gli rimane, il protagonista tenta una rivisitazione della propria vita alla ricerca di un filtro di lettura diverso da quello ordinario. Dal luogo della ferita “fisica” del cancro le cose appaiono diverse, emergono aspetti che a suo tempo non erano stati oggetto di attenzione. La vita si trasforma.
Lo spazio della ferita si riempie di “benedizione” (che è il titolo del romanzo), della quale si propone un’interpretazione che troviamo nella dedica del romanzo: “atto con cui ci si consacra, invocazione di beatitudine”. La benedizione si presenta con due movimenti. Innanzitutto come “invocazione”: dal filtro della ferita emergono le mancanze, le dissoluzioni, le violenze, le sopraffazioni; tutte queste suscitano il desiderio di “riparazione”, a cui si dedicherà il nostro Dad. Invocazione è la volontà di riparare, rappresenta la volontà di instaurare la beatitudine. Il secondo movimento, invece, è quello della consacrazione: il desiderio non basta, serve una riparazione operativa. La consacrazione è la storia rivisitata e riparata.
Come non riconoscere nello spazio della ferita quella domanda di senso che l’esistenza può certo ignorare, ma mai sopprimere, può dimenticare, ma mai evitare in modo definitivo? La nostra vicenda trasforma il disagio in invocazione di senso e ne fornisce un’interpretazione che riempie di contenuto il senso stesso: invocazione e riparazione.
Certo la post-modernità riscopre la domanda di senso dalle ferite, ma non sarebbe il solo percorso. Esiste anche una strada positiva, quella della bellezza, ancora non indagata in modo esauriente e assiduo. La bellezza è il senso che previene la domanda e offre il suo contributo alla lettura della vita. Nella nostra storia ci sono tre segni di questa “bellezza” che apre al “senso”.
Innanzitutto le donne che stanno vicino a Dohl, che lo curano e lo assistono: la moglie Mary con la figlia Lorraine, le due Johnson (madre e figlia) capaci di vivere un amore molto materno verso la piccola Alice che vive con la nonna Berta May. Tutte queste figure femminili hanno una carica di positività, di cura e di vicinanza. Sono soprattutto capaci di portare luce nel quadro di una provincia assonnata e ripiegata su se stessa.
Va poi ricordato il reverendo Rob Lyle che arriva a Dohl per punizione dopo aver difeso un omosessuale nella precedente parrocchia di Denver. Memorabile è la sua omelia sulla pace che gli costa il ripudio e l’allontanamento definitivo dal suo ruolo ecclesiale. Le sue posizioni appaiono certo molto radicali: richiamano l’ultimo Tolstoj che si ritira in un lontano villaggio e rilegge in forme radicali la lettera del vangelo. Sono ancora le donne che abbiamo ricordato sopra a difenderlo. La luce incontra sempre difficoltà e ostacoli. Come non ricordare il prologo del vangelo di Giovanni dove Gesù proclama: sono venuto a portare la luce, ma questa ha incontrato le tenebre e allora la luce è diventata “giudizio”.
Tuttavia la vera “filosofia” di questa luce che andiamo a liberare dalla storia si trova nell’episodio delle tre donne (Lorraine e le due Johnson) con la piccola Alice, quando trovano refrigerio dalla insopportabile calura in una improvvisato bagno in un abbeveratoio per mucche. Intorno ci sta letame e il fondo dell’abbeveratoio è ricoperto da fango. Tutto sembra invitare a stare lontani da quel luogo. Eppure le nostre donne trovano il coraggio per immergersi e trovano refrigerio. Sono tutte nella condizione della nudità che assurge a elemento di purificazione. Ecco le condizioni della benedizione: refrigerio e sporcizia, piacere e fango, luce e ombre, o forse ancora meglio, la possibilità di un refrigerio anche nel fango. Una luce di “senso” nelle ferite delle zone d’ombra. Nessuna “sporcizia” preclude il “refrigerio”.
Cosa si aggiunge alla nostra ricerca? Che le ferite non sono le ultime parole, che il disagio può aprire spiragli di luce al senso che non rimane un semplice linguaggio di denuncia, ma diventa una invocazione e una consacrazione, una benedizione. Certo la redenzione rimane provvisoria e incompleta, il nostro Dad vive per lo più di rimorsi, ma anche la sua severa pragmaticità si può circondare di luce, rappresentata dalla figure femminili molto positive e cariche appunto di “benedizione”.
Le questioni aperte con Dio
Valeria Parrella ha una grande abilità narrativa nel racconto breve. Questa qualità è confermata anche dall’ultimo romanzo Troppa importanza all’amore (Einaudi 2015). Quello che ci piace maggiormente del suo stile è il suo carattere “testimoniale”: “Scrivo racconti perché mi interessano gli esseri umani: donne e uomini solitari che combattono le loro solitarie guerre”. Nel nostro libro si raccontano otto storie di uomini e donne con i loro silenzi, le loro omissioni, i loro tradimenti e le loro fedeltà. Non possiamo certo dire che si tratti di racconti religiosi, ma molti di questi protagonisti hanno conti in sospeso con Dio. In questo caso le frequenti ricorrenze della parola “Dio” ci sembrano qualcosa di più di un semplice linguaggio e riescono a evocare vissuti interiori e orizzonti sempre più vasti.
Il racconto che riassume con più efficacia la trama umana delle vicende è quello della Abbadessa di un monastero romano delle Clarisse di Assisi. La sua è una vocazione in continua tensione e alla ricerca di un equilibrio fra la clausura e il mondo, fra la perfezione della vita religiosa e le ombre degli uomini che si confidano alle monache. Una sera, un’operatrice della Comunità di Sant’Egidio accompagna una giovane ragazza dell’Est fuggita dai suoi aguzzini con una gravidanza ormai a termine. Va nascosta e protetta da una violenza certa se venisse ritrovata. Le monache accolgono così questa minuta umanità e, dalla sua storia, vengono a conoscere tutto il peggio che può abbruttire la dignità di una donna. Le ferite non sono solo riflessioni accademiche, ma lacerazioni fisiche e morali che abbruttiscono il corpo e privano di tutte le dimensioni interiori cancellate con la violenza. Il coinvolgimento e la compassione sono molto forti e la vocazione monastica ritrova una figura di mondo che sfigura tutti gli altri conflitti.
Il bambino nasce e la madre fugge dal convento. L’Abbadessa rimane con il piccolo e non intende denunciare la sua nascita. Su insistenza del ginecologo, amico di infanzia della monaca, che invita a risolvere il problema della denuncia della nascita, la monaca chiede un giorno di riflessione. Durante la notte, che assurge a figura della “notte oscura” della fede, la nostra Abbadessa si reca nella cappella del monastero, si getta a terra con le braccia aperte, nella stessa posizione che ha assunto durante il rito di professione solenne, e così rimane in un lungo e profondo silenzio. Le braccia aperte sembrano richiamare un aiuto dal cielo o forse solo aspettare che il cielo la raggiunga. Questa lunga veglia si chiude il mattino seguente quando la monaca prende una decisione la cui profonda umanità lasciamo scoprire al lettore.
Le stesse braccia aperte chiudono il primo racconto dove si narra dell’insegnante di mezza età che fa un bilancio della sua vita: un matrimonio ormai finito, una figlia che ha preso la sua strada lontano dalla madre, una serie di relazioni non “impegnate” lasciandosi trasportare dall’attimo fuggente dei sentimenti leggeri, rafforzati solo da una condivisione di tematiche sociali che diremmo “progressiste”. Dopo l’ultima “avventura” si ritrova su una spiaggia a nuotare vicino alla linea di confine della baia oltre la quale si stende l’orizzonte. Anche qui le braccia aperte, a pancia in su, a fare il morto, sembrano attendere qualcosa da quell’oltre delle linea profonda del mare.
Il tema religioso sembra, invece, trovare una sua professione nella storia del marinaio con il figlio disabile, segnato dalla sofferenza per doverlo accompagnare verso un destino sempre incerto. Dopo la morte della moglie, causata dal dolore per il pensiero sul futuro del figlio, il nostro protagonista si ritrova a fare un bilancio della sua vita e ricorda le tante “preghiere laiche” che ha pronunciato nelle tante chiese visitate nei porti dove attraccava. Preghiere dai contenuti duri e violenti verso un dio che lo mette alla prova, ma insieme anche desiderio che quel dio lo possa sostenere (un dio rigidamente “laico” con l’iniziale sempre minuscola).
In questa dinamica non dobbiamo certo forzare una nuova possibilità per la domanda su Dio. In realtà l’orizzonte evocato è quello dell’«amore perfetto» di natura immanente, che contrasta, sempre secondo la nostra Autrice, con «l’amore incompleto e sghembo».
Qui ci interessa sottolineare un passaggio nel racconto che dà il titolo al nostro testo, dove una coppia di genitori, in un viaggio in treno versa una vacanza, passa in rassegna la propria relazione per far emergere quel ripiegarsi su un orizzonte di pura pragmaticità sentimentale, fatto di relazioni infedeli conosciute dall’altro partner e accettate in un gioco di puro affidamento a un amore sessuale. In questo quadro è centrale la figura della figlia che rimprovera i due genitori di miopia verso la realtà.
La prima persona narrante è la madre che, in un passaggio, ammette a riguardo della relazione con l’amante: «Forse non era vero amore. Bisognava dirsi questo. Che era sesso, perché avevamo entrambi bisogno di un corpo nuovo di cui fosse possibile fidarsi. (…) Ma l’amore apre gli spazi, mica li riempie. Il cerchio non si sarebbe mai chiuso, non poteva perché era una relazione che non si costruiva e niente costruiva: procedeva solo, andava avanti. Lui diceva: – Ci prendiamo il meglio, – lei diceva: – Ci perdiamo il meglio. Le lettere sono più o meno le stesse». Se l’orizzonte rimane rigidamente “laico”, a rimanere in gioco c’è la libertà. L’amore perfetto traccia l’orizzonte, ma non lo riempie, solo la libertà può rispondere al suo appello e chiedere al cielo di raggiungerlo.
Una messa a fuoco della domanda di senso
I due romanzi che abbiamo riletto si collocano nel solco di quanto abbiamo sostenuto nel nostro precedente intervento: nelle ferite della post-modernità si apre un orizzonte di senso. Quello che si aggiunge con le nuove storie è che questo senso viene ora invocato: si tratta di un appello alla libertà perché si giochi verso quel senso che va “oltre”, senza ancora la necessità che diventi religioso. C’è ancora molto “linguaggio religioso”, ma sempre più accompagnato da atteggiamenti che si trasformano in domanda: dalle ferite alla domanda, ormai matura, di senso. La domanda di spiritualità si arricchisce della questione del senso che, se non sempre tematizzato e riconosciuto, si impone “de facto” nei vissuti dell’esistenza.
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