In questi giorni di preoccupante instabilità politica, segnati anche da casi di grave corruzione che minano alla radice la fiducia nelle istituzioni, potrebbe essere utile leggere il libro di Brunetto Salvarani, Un tempo per tacere e un tempo per parlare (Città Nuova 2016, pp. 264, 18.00 euro).
Il libro è scritto da un teologo e saggista, docente di Teologia della Missione e del Dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna che dimostra di aver maturato grazie alle esperienze sociali, religiose, politiche e d’insegnamento grande esperienza delle cose terrene e che riesce in questo testo, intenso e autobiografico, a trasmettere sia le gioie che le preoccupazioni di chi da anni si dedica al dialogo tra le religioni nel nostro Paese. Il libro è autobiografico ma le tappe della narrazione non servono, in questo caso, a creare una mitobiografia che sostenga il narcisismo illimitato dell’autore (come spesso accade in opere di questo tipo) ma a segnare il cammino di un percorso che è soprattutto pubblico, sociale, condiviso.
La ricostruzione biografica, dunque, non impedisce di accedere a un orizzonte più ampio. Un orizzonte che è necessario conoscere. Secondo l’autore, infatti: «in Italia si parla e si scrive troppo poco di religioni: l’informazione religiosa è ancora un’informazione largamente vaticana, così come il sistema dei media presenta un’unica forma della religiosità degli italiani. Ne esce un quadro sì rassicurante ma, al contempo, parziale incapace di cogliere la crescente complessità di un fenomeno – il pluralismo religioso, appunto – che s’inscrive nel processo di sviluppo di una società multietnica e multiculturale» (p. 191).
Il dialogo come legame di vita
In Italia manca «una politica del pluralismo religioso riconosciuta e condivisa come primario argomento democratico» (p. 195) e per questo motivo le iniziative locali pur di grande respiro e lodevoli intenzioni, spesso si fermano proprio perché manca una visione d’insieme in cui fare operare in un progetto comune sia le comunità di fede che gli attori politici e sociali. Infatti: «la questione di come dire Dio oggi, lungi dall’essere risolta (se potrà mai esserlo…), appare piuttosto drammaticamente aggravata, e resa ancor più compressa dalle molteplici lingue in cui il nome di Dio viene pronunciato sotto il cielo d’Italia. Fino a essere messa in discussione addirittura la possibilità di dire tale nome in un ambito di sensatezza e di credibilità agli occhi dell’umanità attuale» (p. 70).
Salvarani è consapevole che in un Paese come il nostro che fa fatica ad accettare e ad accettarsi come un Paese multietnico e multireligioso, dovrebbe essere favorita la possibilità ai molti nuovi cittadini stranieri che ci vivono accanto di raccontare la propria storia, moltiplicando gli spazi e i momenti per fa si che il racconto della differenza evangelica possa incrociarsi con il loro, creando in tal modo, un racconto nuovo, una narrazione autentica, capace di effetti critici e di dare avvio a visioni più integrate e complesse (p.67).
Pedagogia interculturale e pedagogia narrativa s’innestano l’una nell’altra, generando nuove narrazioni. Salavarani sostiene che il dialogo oggi non funziona perché nello spazio pubblico si assiste a un vero e proprio affastellamento di parole a vanvera, mentre chi tenta di dialogare non compie la prima operazione fondamentale, che di fare il vuoto dentro di sé per permettere l’ascolto dell’altro (p.14).
In un Paese transitato, quasi senza accorgersene, da essere luogo per eccellenza in cui non ci si poteva non dire Cristiani, almeno crocianamente, culturalmente, sociologicamente, anagraficamente, tradizionalmente, a spazio multiculturale e multi religioso (p.12), se si vuole aprirsi a un profondo ascolto delle pluralità e delle esperienze religiose, sarà necessario imparare a dialogare, coniugando: «libertà individuali e interessi collettivi, distinguendo tra valori spirituali e doveri civili; costruendo un ethos del pluralismo e della coscienza della diversità delle identità che compongono la comunità politica. In tale strada, che è stata tracciata in occidente, non c’è spazio per identità chiuse e assolutiste, brandite come clave nel campo di battaglia di un presunto scontro di civiltà (p.225)».
Ethos per generare nuove narrazioni
Salvarani, cosciente di vivere in una realtà completamente scristianizzata – intendendo con il termine scristianizzata una vita incapace di tradursi in una testimonianza trasformativa della vita quotidiana alla luce del messaggio di Gesù – propone un decalogo capace di farci anteporre il potere dei segni ai segni del potere:
- Il dialogo si fa tra persone;
- Il dialogo si fa a partire dalle cose concrete;
- Il dialogo si fa a partire dalle nostre identità;
- Il dialogo si fa a partire dalle cose che abbiamo in comune;
- Il dialogo si fa senza nascondere le cose che ci rendono diversi;
- Il dialogo si fa, in primo luogo, a partire da qualcuno che racconta;
- Il dialogo però, è fatto, anche da qualcuno che ascolta;
- Il dialogo non è fatto solo di parole;
- Il dialogo come fenomeno glocale;
- Il dialogo è qualcosa che, mentre lo facciamo, ci arricchisce a vicenda e ci lascia migliori di come eravamo prima.
Questo decalogo è tutto da mettere alla prova, tutto da sperimentare, fuori e dentro le realtà religiose e non, perché «bisogna smetterla di rincorrere il passato, e decidersi a corteggiare il futuro» (p.257).
L’Italia sarà pronta ad affrontare la sfida decisiva del pluralismo religioso senza farsi perdere la grande occasione di costruire un paese più aperto e accogliente? Di certo, attualmente, pare che più di dialogo si debba parlare di una babele di segni, spesso scomposti, irrazionali, caotici, illimitati. Segni del potere vuoto che ci controlla e che ci governa come servi inutili.
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