Verrebbe quasi da dire che l’occasione di incontro tra Natalia Ginzburg e Sandro Penna sia stata una delle più classiche occasioni mancate. È una storia romanzata, questa, perciò aleggia legittimo il dubbio che le cose siano andate diversamente da come le raccontò la Ginzburg nel suo primo scritto dedicato al poeta perugino, a quel «pederasta» che all’epoca «viveva vendendo alla borsa nera saponette e marmellate.» L’anno è il 1945: Penna, privo di un lavoro stabile, da anni si arrangiava con il mercato nero, vendendo quel che gli capitava di vendere, forse pure contento di vivere un’anomala libertà anche nel modo di procacciarsi di che sostentare lui e la madre. Aveva, del resto, per primo alimentato questa immagine di sé, generando un vero e proprio cliché al quale nemmeno la Ginzburg si sottrae.
Nel 1945 Penna non era più un esordiente; anzi!, direi che fosse già un caso letterario dato che, come ben sappiamo, aveva mosso a curiosità prima Saba e poi Solmi e infine anche Montale (salvo poi assistere a una sorta di vera e propria ritrattazione da parte del ligure). Nel 1939 Parenti aveva pubblicato quello smilzo libercolo intitolato Poesie, pronto da almeno 6 anni e più volte rinviato, a ridosso del ben più roboante Le occasioni di Montale. Ora, nel ’45, la Ginzburg ci descrive Sandro Penna gironzolare per la sede romana dell’Einaudi, che allora si trovava in via Uffici del Vicario, con le bozze di un nuovo libro che, stando a quel che scrive, avrebbe visto la luce solo anni dopo e per un altro editore. Ora, a Poesie del ’39 seguì soltanto nel 1950 Appunti, pubblicato per le Edizioni della Meridiana e costituito da poesie composte dal 1938 al 1949. Certo, Penna poteva davvero nel ’45 avere pronta una nuova raccolta, e non si può escludere che fosse una prima forma di Appunti. Di poesie, come mostrano le varie appendici pubblicate a partire da Poesie, e riprese e implementate nei successivi volumi Tutte le poesie e Poesie, Penna dal ’27 al ’45 dovette averne composte parecchie. Ma tutta la ricostruzione dell’aneddoto, a mio avviso, serve solo a ribadire l’immagine lazy di Penna e l’assenza di un’idea minima dell’urgenza del tempo:
benché venisse là con quelle bozze non mostrava d’avere un vero ansioso desiderio che il suo libro fosse presto pubblicato. Questo non perché non volesse pubblicarlo, ma perché il tempo, come presto compresi, non esisteva o non valeva nulla per lui. […] Seduto sul divano azzurro, parlava delle sue poesie. Ma poiché non mostrava nessuna ansia di veder pubblicato quel libro, e poiché c’erano là folle di altri libri in stampa e persone ansiose di pubblicare, quelle sue visite erano del tutto prive di scopo.[1]
Lo scritto poi prosegue con un salto temporale che ci consegna il Penna degli ultimi anni, quello del lungometraggio di Mario Schifano per intenderci; e qui i cliché si moltiplicano a dismisura, sicché pare a me che a un certo punto sia accaduto qualcosa tra i critici e i lettori di Sandro Penna; qualcosa di irreparabile; qualcosa che nemmeno Pasolini riuscì a superare, malgrado il suo culto; qualcosa che solo Garboli riuscì a combattere: l’essere assaliti da un senso di impotenza davanti alla poesia di Sandro Penna. Più facile è liquidare poesia e poeta ripetendo fino alla noia sempre le solite cose: cataste di carte e libri ai lati del letto, vasi da notte con urine azzurrognole, voce impastata al telefono, telefonate a ore improbabili, melenso e maligno, e via di seguito. Salvo poi accorgersi d’avere compreso tardi ogni cosa:
non sapevo e non pensavo, quando lo conobbi, che egli fosse un grande poeta; l’idea della grandezza non la univo allora ai suoi versi, così come non univo allora alla sua persona l’idea della libertà. Lo trovavo, allora, soltanto strano e singolare; e mi stupiva che la sua poesia, che ammiravano e amavo, nascesse da quella persona singolare e strana che non mi sembrava dare grandi ricchezze di esperienza umana ma solo un amore maniaco per i suoi versi. Molto più tardi, compresi però che la grandezza della sua poesia, ignara e involontaria, aveva radici nella sua grande innocenza e nel suo modo candido e libero di esistere al mondo.[2]
Perdonatemi questa lunga e articolata premessa, ma era necessaria: necessaria perché nelle ripetizioni della Ginzburg si capisce lo sconcerto destato dal caso Penna. E di vera e propria epifania si potrebbe parlare quando, poche righe oltre, scrive che nella poesia di Penna «si riflette insieme l’infinità dell’universo e il tempo in cui viviamo, rotto e discorde e incoerente.» Ecco allora che si fa percepita la grandezza del poeta perugino, estraneo forse a idee ‘ordinarie’ di tempo e di storia, ma affatto estraneo al tempo, come da sempre sostengo.
Questo primo scritto di Natalia Ginzburg è datato «1 Dicembre 1976», e tutti sanno che compare come prima delle due Presentazioni alla raccolta postuma di Penna, Il viaggiatore insonne.[3] Penna sarebbe morto il 21 gennaio 1977. Ovviamente l’autrice non poteva immaginare che le sue righe avrebbero assunto una valenza del tutto nuovo, un colore postumo involontario; eppure è innegabile che queste pagine non guardino al futuro, non proiettino il poeta di cui trattano in avanti: hanno lo sguardo rivolto al passato, perché ripercorrono esattamente, senza aggiungere nulla, tutto ciò che di Penna già era noto.
Diversamente, la seconda Presentazione, firmata da Giovanni Raboni, si rivolge a Penna ancora vivo e soprattutto ‘sentito’ vivo, palpitante, ossia un poeta che ancora ha qualcosa da dire e qualcosa che deve essere svelato. L’attacco di Raboni non lascia dubbi al riguardo:
Penso alla difficile, impossibile impresa che sarà, un giorno o l’altro, raccogliere tutto Penna (e sarà – di questo possiamo esserne certi – uno dei libri più belli di questo nostro secolo) in un’edizione critica ne varietur e, soprattutto, corredata delle usuali indicazioni cronologiche. […] Con le debite eccezioni […] i testi di Penna sembrano fluttuare – agli occhi dell’autore, forse, non meno che agli occhi dei lettori – in una sorta di atemporalità estatica, in un presente continuo che assomma in sé le dolcissime perfidie del passato e l’assillante letizia del futuro…[4]
Raboni usa sia il futuro semplice sia il sostantivo ‘futuro’ per proiettare in avanti l’intera poesia di Penna come una delle pietre fondanti del Novecento poetico italiano. Se si volta a guardare indietro, lo fa per raccogliere l’intero percorso e testarne la tenuta nel tempo. Si fa strada, nell’idea raboniana, quell’altrove che vent’anni dopo verrà ripreso da Alfonso Berardinelli; si fanno strada una coscienza e una conoscenza della poesia di Penna del tutto assenti nella presentazione della Ginzburg. Si viene a tracciare così una linea precisa di demarcazione tra un prima e un dopo nella critica penniana: un prima che va da Solmi e Bigongiari fino alla frattura pasoliniana; un dopo che muove da Raboni fino a Berardinelli e che ha ovviamente il suo apice in Garboli. Gli ultimi vent’anni di critica penniana prendono le mosse da questa seconda fase critica, quella che ha interrogato tutto il corpo penniano – penso a Roberto Deidier e a Giuseppe Leonelli – non guardandolo più come un caso a sé, bensì confrontandolo con i poeti a lui coevi o precedenti, per comprendere quel di più che questa poesia ha sempre presentato agli occhi del lettore che, alzata la pagina in controluce, ne interrogava la “oscura trasparenza”.
Con Raboni la poesia di Penna si attesta come classica, e come tale va letta e interrogata: nell’intimo delle sue strutture, nelle cesure, nella misura dei versi quasi sempre perfetti e nella misura imperfetta di quelli che volutamente rinunciano all’esattezza. Raboni capta ogni segnale, ogni variazione del moto penniano, così come, e il paragone è suo, avrebbe fatto si fosse trovato innanzi a una partitura mozartiana. Raboni avverte pure dei limiti di un tale approccio, limiti che si riconoscono nel sentimento di ‘inadeguatezza’ che è una costante nel lettore penniano: Penna rimane comunque sfuggente. Se Pasolini di Penna aveva fatto un culto, Raboni ne fa un classico; e lo fa nel capitolo conclusivo della parabola penniana, nell’ultimo sparuto gruppo di versi mai raccolti in una plaquette, per lo più inediti (edite risultano essere La sera verso l’imbrunire vado e Quanto più mi sentivo a te legato, poesie pubblicate entrambe in «Tempo presente», la prima nel 1957, la seconda nel 1959).[5]
Va fatto notare che l’insistenza con la quale Raboni ritorna sulla necessità di datare le poesie non va letta solo nella direzione filologica; pochi mesi prima della pubblicazione del Viaggiatore insonne era uscito per Garzanti Stranezze. Penna lavorò alle due raccolte contemporaneamente, escludendo da Stranezze quelle poesie che avrebbero dovuto costituire un volumetto, che non vide mai la luce, dedicato allo scultore Manzù. La data di pubblicazione di ogni raccolta di poesie di Sandro Penna costituisce sempre e soltanto il termine ante quem, ma mai quello post quem; come dimostrano da sempre le varie appendici pubblicate, sempre per Garzanti, prima in Poesie (1957), poi in Tutte le poesie (1970), e infine in Poesie (1989), le poesie del perugino si dividono in archi temporali ampi entro i quali però non è dato distinguere quale appartenga a un anno e quale a un altro, se non per quelle poesie, per esempio, riemerse tra le “carte ritrovate” e riportate da Roberto Deidier in Le parole nascoste (Sellerio, 2008). Ciò che la data può fornire, ed è questo che Raboni suggerisce, è un termine temporale che permetta di collocare la poesia in un dato momento dell’esperienza poetica penniana, salvo poi riporla immediatamente in quell’altrove che è eterno presente, se non addirittura un “presente storico poetico” del Penna-poeta, diverso da Penna-uomo che col passar degli anni guarda con sempre maggiore malinconia al tempo che lo allontana da ciò che ha reso viva la sua vita. Infine, Raboni coglie perfettamente il doppio moto dell’universo poetico penniano, che se con un componimento conferma la propria continua epifania dell’amore ponendo il proprio io al centro dell’universo stesso, con un altro modifica tale condizione per proporre quella antitetica dell’isolamento; e La sera verso l’imbrunire vado appartiene a questo secondo modo, poesia che sintomaticamente quanto involontariamente si trova a chiudere tutta la poesia di Sandro Penna.
[1] Natalia Ginzburg, Sandro Penna (I), in Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi 2001, p. 55.
[2] Ivi, p. 57.
[3] Sandro Penna, Il viaggiatore insonne, Edizioni San Marco dei Giustiniani 1977, pp. 7-15; ora in Sandro Penna, Il viaggiatore insonne. Edizione critica a cura di Roberto Deidier, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2002, pp. 7-13.
[4] Giovanni Raboni, Penna: l’oscura trasparenza, in Sandro Penna, Il viaggiatore insonne, 1977, cit., p. 17 (ora in Il viaggiatore insonne, 2002, cit., p. 15). Il contributo raboniano rielabora un precedente scritto.
[5] Cfr., per tutto ciò che concerne i documenti, i materiali, le datazioni e le pubblicazioni delle poesie incluse nel Viaggiatore insonne, la Nota di Roberto Deidier alle pp. 49-71.
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