Nel cuore della notte un visitatore si affretta inquieto sul Ponte Carlo, che si innalza elegante sul fiume della Moldava. Ad inquietarlo non è il silenzio, né il buio, quanto le statue scure e corrose dall’inesorabile scorrere del tempo. Non hanno niente a che vedere con quelle bianche e curvilinee del Bernini, sono letteralmente nere e spigolose. Forse è l’arenaria, la pietra scura che caratterizza l’architettura praghese, ad emanare quel senso di mistero che sospinge il visitatore a piè sospinto verso la collina di Mala Strana.
Il visitatore guidato dal fioco riverbero dei lampioni incede malfermo sul ponte e il suo sguardo si allunga sino al Castello, lasciandosi alle spalle Stare Mesto, la città vecchia.
Atterrito e al contempo affascinato, il nostro visitatore contempla la fortezza che con le sue guglie, torri e palazzi ha stregato uno dei più grandi scrittori della modernità, Franz Kafka.
Per accostarci all’opera kafkiana, credo che dovremmo seguire l’ignoto visitatore tra le mura del castello, dove scopriremo il pittoresco Vicolo d’Oro, nelle cui casette colorate Franz Kafka trascorse diverso tempo tra il 1916 e il 1917, intento alla stesura di uno dei suoi più celebri romanzi, Il processo.
Il nostro percorso attraverserà i luoghi dello scrittore, per il quale, credo, lo spazio abbia contribuito a delineare non solo la sua esperienza reale, ma anche quella fittizia delle sue creazioni letterarie. Uno degli approdi più interessanti della critica recente è lo studio dello spazio, come elemento fondante e propulsivo dell’opera letteraria; studio che ha assunto una forte rilevanza a partire dagli anni ’60 con il cosiddetto spatial turn. Se prima, di pari passo con lo svilupparsi del modernismo, la dimensione temporale aveva acquisito un posto di primo piano nello studio dell’opera letteraria, con l’inizio dell’era post-moderna l’attenzione si è progressivamente spostata sulla dimensione spaziale.
E quale romanzo se non Il processo di Kafka si offre con tanta generosità ai richiami dello spazio?
Praga offre suggestioni inconfondibili: la stratificazione architettonica dà ragione di una storia complessa, segnata dall’incontro multietnico di tre sofisticate culture: ebraica, ceca e tedesca. La città restituisce in questo senso la condizione contraddittoria in cui visse Franz Kafka: ebreo, ma appartenente alla borghesia di lingua tedesca.
Attraversando il ghetto ebraico con le sue antiche e bellissime sinagoghe, e oltrepassato il cimitero che rievoca un passato di violenza e persecuzioni, ci si imbatte nella statua di Franz Kafka, che nacque nel quartiere Josefov nel luglio del 1883.
Siamo nel cuore del ghetto ebraico e questo viaggio fisico si traduce in un viaggio alla scoperta dell’ebraicità dei personaggi kafkiani. Nessuno dei personaggi kafkiani è ebreo, eppure noi ne sentiamo spesso l’ebraicità, che si manifesta nella loro condizione di derelitti di fronte ad una moltitudine ostile.
Collocare Kafka al centro di una certa tradizione ebraica ci aiuta a misurare la personalità ingarbugliata di un personaggio come Joseph K. K, scrupoloso funzionario di banca, scopre una mattina di essere accusato di un reato che non gli verrà mai rivelato. Il protagonista sarà in seguito processato e, infine, trucemente giustiziato. Nel corso della vicenda, Joseph K viene umiliato ed emarginato, spinto nei recessi di una solitudine totale, dove non trova spazio alcun rapporto solidale, dove persino gli amici e lo zio diventano estranei irreprensibili e attori giudicanti del processo in atto.
Partendo dal presupposto che il rapporto di un ebreo con la divinità è intriso di mistero, colpa e vergogna, vediamo come queste stesse modalità caratterizzino lo scambio tra il protagonista e la realtà circostante. Se, infatti, volessimo provare a rispondere al grande enigma del romanzo, ovvero quale sia la colpa di K, potremmo azzardare che la colpa di Joseph K sia la stessa che egli si attribuisce, o meglio che gli è stata inflitta dalla sua condizione di ebreo.
Un episodio interessante è quando lo zio di K si presenta dal nipote con la dichiarata intenzione di tirarlo fuori da quella penosa situazione, in realtà lo zio, invece che mostrarsi solidale nei confronti della sorte ingiusta in cui si è imbattuto il nipote, non fa altro che colpevolizzarlo, rinfacciandogli costantemente l’imbarazzo che la spinosa questione sta procurando alla famiglia. E’ come se, in una sorta di profezia che si autoadempie, il senso di colpa di Joseph K si trasformasse nella sua colpa, traducendo una colpa presunta in colpa effettiva.
Kafka parla da una prospettiva ebraica, che in questo senso offre una visione molto intransigente. La colpa si configura come una condizione a priori, che il protagonista non può sfuggire, né eludere, bensì solo scontare con la morte, che sancisce, infine, il fatto che la colpa sia sempre esistita.
Affianco alla colpa, l’altro sentimento che domina tutta l’opera kafkiana è la vergogna.
Uno degli episodi più significativi in questo senso è sicuramente la scena finale. Il processo si conclude con la morte di K, raccontata con una vividezza sorprendente. In quell’atto di orrenda brutalità i due aguzzini guardano il condannato con impudicizia violando persino la sacralità della morte: e a K, violato nell’intimità più profonda, non rimane che la vergogna.
Ma intorno alla gola di K. si posarono le mani di uno degli uomini, mentre l’altro gli immergeva il coltello fino al cuore e lo girava due volte. Con gli occhi che si spegnevano, K. vide ancora gli uomini che vicino al suo viso, guancia a guancia, osservavano l’esito. « Come un cane! » disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli.
La vergogna nasce non solo dalla violazione di un momento sacro, bensì in un primo momento dalla violazione di uno spazio. Riavvolgendo la vicenda, ci troviamo al momento dell’arresto di Joseph K, descritto nelle primissime pagine del romanzo. Ora, l’aspetto interessante dell’arresto e delle prime fasi degli inquirenti è che tutto si svolga all’interno della pensione di K. La camera di un’inquilina, infatti, è trasformata in una sorta di tribunale, dove il protagonista è sottoposto ad un primo interrogatorio.
Perché K non viene prelevato e portato in un ambiente più consono alle procedure giudiziarie? Forse, proprio perché lo scrittore vuole farci avvertire tutto il peso della vergogna di K, che viene oltraggiato in casa propria, sotto gli occhi della proprietaria della pensione e degli inquilini. La mortificazione non è palese, è incredibilmente sottile ed è qui che la maestria di Kafka si dispiega mirabilmente. La vergogna non è dichiarata, né confessata, eppure noi la avvertiamo: nelle guardie che trangugiano la colazione di K, nelle osservazioni delle stesse sulla camicia da notte, nella disputa sulla biancheria.
Anche più avanti, quando il processo si sposta nelle aule del tribunale, lo spazio è paradigmatico e merita una riflessione. Il tribunale si trova in un edificio anonimo, di un quartiere anonimo, in cui ci si imbatte quasi per caso. Lo spazio è angusto e il sovraffollamento lo rende asfittico, ai limiti del claustrofobico. La dimensione labirintica in cui Kafka ci immerge dà l’idea di come la macchina processuale sia complessa e irrazionale, dove il pragmatismo e la razionalità di Joseph K non possono trovare un loro spazio, ma soltanto perdersi nel dedalo intricato del no-sense.
Un episodio paradigmatico è quella della prima udienza: Joseph K incontra il giudice istruttore, che mostra di non avere neanche idea di chi sia l’imputato. K pronuncia un’arringa contro la burocrazia giudiziaria, davanti a una sala piena di gente che applaude, ride, come se si trovasse ad assistere ad uno spettacolo. Insomma, la situazione è kafkiana.
Per quanto le situazioni dell’opera kafkiana siano paradossali e spesso immerse nella dimensione dell’assurdo, la scrittura di Franz Kafka si caratterizza per un tono realistico, che restituisce la realtà secondo linee e contorni definiti. È così che lo scrittore cesella nel penultimo capitolo una della cattedrali più belle e riccamente decorate dell’Europa orientale, la Cattedrale di San Vito.
Il nostro visitatore, nel frattempo giunto alla sommità della collina di Mala Strana, sta contemplando la facciata gotica della Cattedrale di San Vito. Varca la soglia ed è subito inondato dai colori provenienti dalle vetrate dipinte da artisti cechi del XX secolo, tra le quali spiccano per colore e bellezza quelle della terza cappella a nord, dipinte da Alfons Mucha. Attraversando la navata, il nostro visitatore ripercorre i passi di Joseph K, quando nel penultimo capitolo del romanzo, tra le suggestioni che la penombra, il silenzio e l’architettura del duomo gli procurano, avviene l’incontro con il cappellano delle carceri.
Non potremmo capire Joseph K senza lo squallore della sua pensione, non potremmo cogliere l’irrazionalità della macchina processuale senza la conformazione labirintica del tribunale, non potremmo capire la portata profetica del cappellano senza le atmosfere rarefatte della Cattedrale di San Vito. Non potremmo capire Kafka senza la città di Praga.
Culla degli alchimisti nel XVII secolo, i quali furono ospitati da Rodolfo II d’Asburgo nello stesso Vicolo d’Oro dove avrebbe vissuto Franz Kafka, Praga ha dato vita a decine di leggende: quella del Golem, ad opera del rabbino Loew, è rimasta una delle più famose nella mitologia ebraica. Soltanto una città così particolare poteva ispirare la dimensione assurda e misteriosa che pervade ogni pagina di Franz Kafka. Questa intensa relazione tra ambiente e scrittore si è tradotta a sua volta in una peculiare modalità creativa: dove le creature della fiction nascono, non tanto dalle descrizioni accurate del narratore, quanto dallo spazio in cui si collocano, diventandone in qualche modo un tutt’uno.
Ecco cosa scrisse l’amico Johannes Urzidil in Di qui passa Kafka:
E tuttavia Kafka era Praga e Praga era Kafka.
Mai era stata così compiutamente e tipicamente Praga , e mai più lo sarebbe stata come durante la vita di Kafka.
E noi, i suoi amici … sapevamo che quella Praga era contenuta ovunque nell’opera di Kafka, in finissime particelle. In ogni sua riga noi potevamo e possiamo ancora assaporarla.
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