Bisogna dirselo chiaramente: la questione da affrontare subito, andando al centro dei problemi, è quella antropologica: solo in seconda battuta è tecnologica. Dunque occorre riposizionare l’attenzione sui soggetti e i loro fini, prima ancora che sui mezzi. Anzi, dissoltisi ormai i dispositivi otto e novecenteschi sin qui chiamati “media”, chi ha studiato la “condizione postmediale” come Ruggero Eugeni non ha dubbi: «Noi stessi siamo media. Ed è per questo che i media non esistono più».
Ecco perché il primo intento di Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online, scritto da Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, si traduce in un appello «a riflettere sull’antropologia mediale e come essa possa esprimersi in piena umanità». Prendendo atto con Papa Francesco che tra «le strade del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e affettivamente» ci sono «anche quelle digitali» egualmente «affollate di umanità, spesso ferita» e perciò in attesa di una segnaletica di accompagnamento reale e di risposte meno virtuali possibili. Senza immaginare scenari sempre lontani, ciò vale nell’esperienza quotidiana di ciascuno.
Come scrive l’autore di queste pagine infatti: «Da una parte siamo consapevoli di avere a disposizione sconfinati territori informativi e relazionali […]; dall’altra sperimentiamo il graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia, a favore di una comunicazione che ci consente di evitare la vicinanza». È così. Un sms o una mail ci aiuta a evitare un’auspicabile conversazione “de visu”, gli occhi negli occhi. Ci aiuta a nasconderci pur essendo apparentemente connessi. Appunto: «connessi e solitari». Con Whatsapp o Instagram ci mettiamo in vetrina, preoccupati tutt’al più di essere visti, osservati, senza fare la fatica di osservare a nostra volta.
E c’è di più. Come aveva intuito Pavel Florenskij già negli anni ’20 con alcune riflessioni sulla tecnica e il corpo, anche gli oggetti di cui ci serviamo sono ormai come “proiezioni” dei nostri organi. Così viviamo lacerati fra l’identità e lo specchio, immersi in ambienti complessi un po’ veri, un po’ simulacri. E il “tecno-umano”, più che l’annichilimento orwelliano, frantuma la dicotomia soggetto/oggetto. Smaterializzando i nostri legami e alterando le nostre percezioni già aggravate dall’isolamento sociale inevitabile in chi si affida solo a relazioni virtuali. Ed esponendosi – detto con papa Francesco – ad una «orfanezza spirituale».
Ma allora come servirsi delle opportunità della rete, riuscendo però anche a capire quando una stretta di mano va preferita ai tasti di un computer,o uno sguardo consapevole e disincantato su un paesaggio dovrebbe prevalere su un’immagine da catturare solo al fine di essere postata in un social? Anche a questi interrogativi prova a dare risposte il libro di Viganò che, sintetizzando argomentazioni dove si avverte l’eco di corsi di Teologia della comunicazione (quelli tenuti alla Pontificia Università Lateranense) e di linguaggi dell’audiovisivo (tenuti alla Luiss), condivide le preoccupazioni del Papa circa quei gravi sintomi della «cultura del provvisorio» che nella rete trovano un habitat naturale.
«Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. […] Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di se stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato» (Amoris laetitia, n. 39). Così Bergoglio, il cui pensiero attraversa questa pagine in filigrana, senza che Viganò rinunci a visualizzarne alcune parti attraverso sequenze filmiche tratte ad esempio da una commedia ironica e amara come Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, o da un film poetico e pungente come Her di Spike Jonze.
Insomma rete o non rete, anche se più d’un mezzo tecnico è ormai davvero una protesi del nostro corpo, spazi e modi di autenticità nella realtà 2.0 ci sono sempre. Purché si sfugga alla seduzione di vivere senza andare incontro fisicamente agli altri Il valore dell’amicizia, parola profanata nel mondo di Facebook, è fondamentale nell’uomo. «Non so come possiamo interpretare il fatto che Dio parla a Mosè faccia a faccia, come un amico parla a un altro amico. Cioè: Dio amico di Mosè! Quella capacità di confidargli tutto, i suoi piani, quello che avrebbe fatto», rispondeva papa Francesco a Marcelo Figueroa in un’intervista. Insomma, prendendo a prestito una battuta della sociologa americana Sherry Turkle, Viganò ci dice: «I am not anti-technology, I am pro-conversation».
Non è tutto. Un altro interrogativo esce da queste pagine: possiamo sia riprogettare la tecnologia sia cambiare il modo in cui la introduciamo nelle nostre vite? Scrive Viganò: «Proprio la rete fa sì che le dinamiche delle relazioni personali si connettano sempre più con le pratiche del mondo economico imprimendo, sempre più facilmente e con maggiore pressione, un carattere fortemente utilitaristico. Da qui scaturisce la necessità di un plus di umanità, di responsabilità e sensibilità etica». E torna ancora il rimando a papa Bergoglio quando ci ricorda che nell’attuale scenario «non basta passare lungo le “strade” digitali, cioè semplicemente essere connessi: occorre che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero […]. Anche il mondo dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità, ed è chiamato ad esprimere tenerezza. La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane. La neutralità dei media è solo apparente: solo chi comunica mettendo in gioco se stesso può rappresentare un punto di riferimento. Il coinvolgimento personale è la radice stessa dell’affidabilità di un comunicatore. Proprio per questo la testimonianza cristiana, grazie alla rete, può raggiungere le periferie esistenziali».
Ecco allora che il potere della comunicazione traduce nella concretezza l’idea astratta di “prossimità”. Ecco che la rete serve non a impigliare, ma a liberare un’antropologia capace di rafforzare legami sociali senza ignorare la dimensione trascendente dell’esistenza: rendendo ogni esperienza più autenticamente umana.
Connessi e solitari | Viganò, Dario E. | EDB | 2017 | pp. 72 | 8,50 euro
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