Conversazione con Giuseppe Garrera: collezionista e bibliofilo
Non colleziono tutto quello che compro. Alcuni oggetti sono un investimento, dopo un po’ me ne disfo e ci finanzio futuri acquisti che mi interessano. Guarda per esempio questi quattro libri di D’Annunzio in prima edizione, perfettamente tenuti, che ho recuperato da poco. D’Annunzio non lo seguo, quindi a breve li rivenderò. E siccome recano tutti, sul frontespizio, una dedica autografa dell’autore, ci si potrebbe ricavare 700-800 euro al pezzo. Li ho trovati a Porta Portese. Quanto li ho pagati? Due euro e cinquanta l’uno.
Per chi coltivi la bibliofilia, e in generale ami la pratica del collezionismo di opere intellettuali, Giuseppe Garrera suscita un misto di ammirazione e di invidia. L’ammirazione è dovuta alla sterminata raccolta di rarità libresche, manoscritti, epistolari, quadri e installazioni che, in circa trentacinque anni di febbrile attività, è riuscito a mettere assieme; ma anche a una formidabile erudizione che gli consente di muoversi con agio tra la filologia e la poesia, tra la storia dell’arte e la musicologia. L’invidia, lo si sarà capito, è per la sua capacità quasi sovrumana di intercettare in mercati e mercatini, in particolare in quell’Eldorado romano che è – per chi sa cercare e sa cosa cercare – Porta Portese, tesori di inestimabile valore pagandoli pochi spiccioli.
Nato nella Capitale nel 1962, insegnante alla Business School del Sole 24 Ore, Garrera condivide il demone del collezionismo con suo fratello gemello, Gianni. Entrambi hanno costruito degli archivi di tale vastità e importanza («Siamo in competizione sfrenata, ma alla fine è come se la nostra fosse una sola collezione e ciò produce un “raddoppio di potenza”») che sempre più spesso enti e associazioni vi attingono per allestire mostre espositive.
Amo molto la fragilità di ciò che colleziono, dunque vivo nel costante timore di qualche disastro che possa abbattere il castello di sogni che mi sono costruito. Tuttavia mi piace che gli altri partecipino della bellezza di questo castello, che ne siano toccati. In ciò, naturalmente, vi è una quota di vanità, ma non è infrequente che il vizio divenga virtuoso.
Che definizione dai del collezionismo?
«Credo che nel collezionismo si cristallizzino alcuni elementi dell’inconscio collettivo di una società. È come se il collezionismo fosse chiamato a dare un ordine a un impulso subcosciente della propria epoca: un collezionista ricostruisce la storia sociale, politica ed economica della sua famiglia e del suo Paese, ma quest’operazione apparentemente razionale viene solitamente svolta in virtù di un nucleo irrazionale, idolatrico».
Qual è per te questo nucleo?
«Un nucleo fondamentale è per me rappresentato dalla figura di Pier Paolo Pasolini. Da anni raccolgo immagini che ritraggono il suo volto e il suo corpo. Perché? Ammiro tanti poeti e scrittori, Gadda per esempio, ma non colleziono loro foto. La risposta che mi sono dato, che credo giusta, è che il mio sia un atto riparatorio: voglio ripristinare il corpo martoriato di Pasolini, risarcirlo, desidero che il suo cadavere risorga».
Quando ha avuto inizio quest’ossessione?
«Alla fine del 1975 frequentavo la seconda media in seminario, a Gualdo Tadino, dai frati minori cappuccini. Stavamo preparando il pranzo quando dalla tv apprendo dell’assassinio di Pasolini, che conoscevo di fama ma di cui all’epoca non avevo ancora letto nulla. Comunico la notizia al mio padre spirituale, persona per il resto ottima, e lui inizia a urlare in direzione del televisore: “Hanno fatto bene, se lo meritava!”. Tutto è cominciato in quel momento. Sono convinto che l’Italia, o comunque una sua parte consistente, volesse nel profondo quella morte. Non importano le ragioni effettive dell’omicidio, e se Pino Pelosi fosse da solo o con altri: conta che si sia trattato di un sacrificio rituale, seguito da vilipendio di cadavere e consumato da un’intera società nei riguardi di un suo elemento scomodo. Se tutto un popolo brama qualcosa, di solito quel qualcosa cosa avviene. Se si delira l’impero, diceva Hölderlin, prima o poi l’impero sorgerà. Anche se poi il sogno si rivelerà un incubo».
Quale nervo scoperto degli italiani aveva toccato, Pasolini?
«Lui è stato come uno specchio nel quale ha obbligato il Paese a riflettersi. Uno specchio fatto di libertà di pensiero, di carisma, di una forza intellettuale e fisica che, se venisse recepita per ciò che effettivamente è, rappresenterebbe anche un argine alla tendenza a fare di lui un santino».
Come si è conclusa l’esperienza in seminario?
«I miei genitori, dopo essere emigrati a Roma provenendo rispettivamente dalla Calabria (mio padre) e dall’Abruzzo (mia madre), si erano trasferiti nei pressi di Torino perché papà aveva trovato lavoro alla Fiat. A mia volta, uscito dal seminario, sono stato impiegato sei mesi in un ufficio della Fiat e ricordo quel breve periodo come uno strazio. Ho quindi fatto il guardiano di notte in un albergo, pagandomi gli studi universitari in Musicologia, svolti anche grazie al sostegno di un professore cremonese, Raffaello Monterosso, grande musicologo specializzato in musica medievale e rinascimentale, il quale mi fece ottenere una borsa di studio extra. Dopo la laurea in musicologia ho conseguito anche quella in Lettere».
Perché sei diventato un collezionista?
«Essendo di origini umili, ho un’immensa nostalgia di un tesoro mai posseduto. Non ho un grande desiderio di avere denaro ma un grande desiderio di spenderlo, perché nella mia famiglia c’era un autentico culto del risparmio. Certo, ciò che raccolgo finisce per costituire anche un patrimonio economico e questo contribuisce a compensare quella mancanza originaria, lenisce il pensiero che da bambino mi sia stata sottratta una fortuna. La consolazione maggiore garantitami dalla mia attività collezionistica è la consapevolezza che lascerò a mia figlia dei beni. Sono consapevole che, quando sarò morto, tutto ciò che ho accumulato, poco per volta, andrà incontro a un’inesorabile dispersione, ma è motivo di conforto sapere che compirò nei confronti di mia figlia qualcosa di analogo a ciò che i miei genitori, al prezzo di grandi sacrifici, hanno fatto per me e mio fratello».
C’è qualche altra motivazione all’origine del tuo furore collezionistico?
«Il mio collezionare nasce anche da un bisogno di conforto. C’è in me un nucleo disperato, un deserto che ha trovato in Roma la sua cura. Grazie a Roma il collezionismo si è trasformato in splendore, in pompa, in eccesso faraonico. Quando sono ritornato nella Capitale, ormai giovane adulto, l’ho fatto con lo stesso spirito di Julien Sorel a Verrières: “Chissà se la conquisterò, se mi procurerò dello splendore”, mi domandavo».
Cos’è per te Roma?
«È un veleno, è il barocco, è lo sfolgorio, è i colori. Sono un feticista delle immagini e Roma è piena di immagini che consolano. Le statue di Ponte Sant’Angelo mi accompagnano. Da ragazzo trascorrevo ore nelle chiese e nei musei, e capita che lo faccia ancora. Ma amo il mio tempo e guardo a Roma con occhio contemporaneo: quella che mi attrae di più è la Roma dagli anni Sessanta a oggi. Il mio personale mito della Città Eterna amo accostarlo a quello di Walter Benjamin per Parigi».
Roma è anche Porta Portese.
«Roma è un enorme magazzino, un infinito deposito di cose. Essendo il luogo in cui confluiscono molti rivoli di questa specie di fiume nascosto, Porta Portese soddisfa altre due mie attitudini: quella per l’avventura intellettuale e quella per la flânerie, per il girovagare, meglio ancora se notturno».
Su Porta Portese avrai diversi aneddoti.
«Una volta un rivenditore mi telefona per avvertirmi che una signora vuole vendere l’intera biblioteca della madre. Mi reco nell’abitazione della donna, in periferia, in zona Conca d’Oro, e mi trovo davanti a vari scaffali contenenti fra i tre e i quattrocento libri. La signora mi spiega che la madre è morta da poco e che lei di tutti quei volumi non sa che farsene. È disposta a cedermeli a patto che le paghi le bollette che la madre ha lasciato in arretrato. Me le faccio portare: l’ammontare complessivo sarà sui duecento euro, forse meno. Mi metto quindi a esaminare i libri, tutti in condizioni ottime. Ne apro uno di Ungaretti e dentro c’è una dedica autografa del poeta. Poi uno di Praz: all’interno, dedica di Praz. Uno di Quasimodo: dedica di Quasimodo. Uno di Silone: dedica di Silone. Sono libri dei più grandi autori del Novecento italiano e sono praticamente tutti dedicati, anzi alcuni custodiscono anche delle missive manoscritte! Mi giro verso la donna e le dico: “Signora, li prendo tutti”. Per recuperarli ho fatto con mia moglie tre o quattro viaggi in macchina da Testaccio, dove abito. I libri appartenevano alla segretaria del Sindacato Nazionale Scrittori, la quale gestiva le pratiche per l’assistenza medica agli autori, il rimborso dei medicinali e via dicendo. Dunque gli scrittori avevano interesse a essere gentili con lei».
Episodi recenti?
«Ultimamente ho trovato una copia di “Alibi”, antologia poetica di Elsa Morante del 1958, anche questa con una dedica dell’autrice. Ero disposto ad arrivare a 150 euro, ma il venditore, dopo avere a lungo esaminato e soppesato il volume, con un’espressione meravigliosa mi fa: “Professore, va bene un euro?”».
Le tue ricerche a Porta Portese richiedono un’applicazione e una costanza che hanno qualcosa di mistico.
«Quasi ogni domenica, verso le tre di notte (perché ogni forma di collezionismo si muove nel dominio delle tenebre), esco di casa e raggiungo il mercato per individuare per primo, e prima che giungano sulle bancarelle, i possibili gioielli serbati nei furgoni degli svuotatori di soffitte e scantinati, ormai per lo più cingalesi. Una volta uno di loro mi ha detto: “Lo sa perché avverto lei quando recupero una biblioteca o una collezione d’arte? Perché lei è l’unico in tutta Porta Portese che ogni volta che le ho chiesto due euro mi ha dato due euro, senza fare storie”. Già, c’è chi tira sul prezzo pure quando la cifra da pagare è di un euro o due. Ma se si fa così non mi sta più bene, perché non si rispettano le regole di questa sorta di magnifico gioco che, azzerando l’economia, consente a noi collezionisti di regredire soavemente all’infanzia».
Oltre a Porta Portese?
«Ogni città ha una sua quota di fascino e offre le sue possibilità di caccia in base alle bancarelle di libri che ha per le proprie vie. È anche da queste che si misura il valore delle biblioteche e dei lettori di un Paese e dunque, in ultima analisi, il suo tasso di civiltà. Purtroppo negli ultimi anni, un po’ per la crisi economica generalizzata e un po’ perché nel mondo del collezionismo, per la prima volta, sembra essere venuto meno in modo significativo un ricambio generazionale, ennesimo indizio di una vera e propria trasformazione antropologica della borghesia italiana, i luoghi in cui approvvigionarsi a buon mercato di volumi di pregio sono sensibilmente diminuiti. A Roma, fino a qualche anno fa, c’erano le bancarelle ricchissime di Piazza Esedra. Poi quelle di Via del Corso e di Piazzale Flaminio, e quelle situate presso la Piramide Cestia. Adesso o sono state tolte oppure si sono tremendamente degradate. E pensare che vi hanno attinto tutti i collezionisti e tutti i grandi lettori squattrinati, cioè studenti e poeti…».
Fuori da Roma?
«A Torino esiste ancora il Balon, storico mercato delle pulci, ma in particolare ricordo con piacere le bancarelle di Via Garibaldi e di Via Po. A Bologna sopravvive la memoria delle bancarelle del Portico della Morte, dove Pasolini acquistò i libri che gli consentirono le letture più folgoranti della vita, perché “non si legge mai più con la gioia con cui si leggeva a quindici anni”. Tutte le volte che per lavoro o per piacere dobbiamo recarci in una città, noi appassionati telefoniamo prima all’amico collezionista per farci dare la topografia delle bancarelle e dei mercatini. Una mappatura delle bancarelle di libri rappresenterebbe una storia della passione per la lettura in Italia. E una storia del collezionismo. Penso alle bancarelle di Trieste, dove Bobi Bazlen rinveniva i romanzi di Italo Svevo o di Musil. E fino ai primi anni Sessanta alle bancarelle di Piazza Esedra, a Roma, si trovavano volumi provenienti dalla dispersa biblioteca di Stendhal, mentre a Porta Portese giungevano archivi e biblioteche dei futuristi che nessuno voleva e che oggi valgono un occhio della testa. Per i collezionisti come me, ogni città, italiana ma anche straniera, possiede una trama segreta ed emozionante, parallela a quella turistica o artistica, di bancarelle, mercatini, rivenditori di libri: a Firenze ce ne sono un paio ancora sorprendenti in zona Santa Croce e presso il Teatro della Pergola. E poi c’è Napoli, in cui sono meravigliose le bancarelle di Piazza Dante. I libri per strada costituiscono un legame profondo tra il lettore e la città in cui studia o vive, o che semplicemente visita. Non so perché a Roma l’ex sindaco Marino le abbia smantellate quasi tutte. Forse per un controllo fiscale o cose del genere; il che va bene, ma poi non sono state ripristinate. Roma è piena di bancarelle pullulanti di souvenir turistici orribili e non ha più bancarelle di libri: è il segno chiaro della condizione attuale della città. Si pensi a cosa è ancora Parigi sotto questo aspetto: il confronto è imbarazzante».
Tra le iniziative con cui valorizzi alcuni dei materiali che collezioni c’è la Vetrina.
«Sì, nella Vetrina di Via del Consolato, una vera e propria vetrina di negozio su strada in fondo a Via Giulia, aperta e illuminata giorno e notte, metto in mostra alcuni materiali o anche opere che acquisto o autori nuovi che mi piacciono: è come un’edicola sacra, un sacello, in cui aggiungo, insieme a mio fratello e a Carlo Pratis, icone che amo, un tassello nell’infinita e meravigliosa processione di immagini che abitano Roma. Spesso esponiamo proclami, versi, disegni, omaggi di amici poeti o artisti che ammiriamo, sia contemporanei sia del passato, senza distinzione, tutti nella contemporaneità della devozione o nel ricordo di letture e visioni e chiacchierate insieme».
Che rapporti hai con i cosiddetti “libri proibiti”?
«L’ambito del sesso non lo tratto in maniera sistematica, ma mi piace se un artista affronta il tema della pornografia. Apprezzo quando l’osceno diventa arte. O quando l’arte diventa oscena, se preferisci. M’interessa l’impatto potente che un’immagine può avere sul nostro occhio, una stupefazione che abbiamo in gran parte perduto a causa dell’eccesso di immagini in cui siamo immersi. Una galleria d’arte moderna fatta solo di opere pornografiche sarebbe magnifica, perché lì il pubblico non guarderebbe mai in modo superficiale ciò che è esposto».
Hai mai dovuto fare i conti, come collezionista, con perdite o danni gravi?
«No, per fortuna. Ho solo avuto dei momenti di rabbia quando, a Porta Portese, è capitato che mi imbattessi in libri e cose danneggiatisi irreparabilmente dopo un diluvio. E ho vissuto, quello sì, il rammarico derivante dall’apprendere che degli oggetti di valore erano stati gettati via».
Collezioni di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sono davvero tante, mi limiterò a citarne un paio. L’archivio di un infiltrato delle Brigate rosse, composto da volantini, proclami e comunicati dal 1966 al 1972, compresi i ciclostilati prodotti a ritmo quasi quotidiano anche da gruppi di provincia. Saranno tra i dieci e i quindicimila pezzi. Poi una collezione che definisco femminista. Il rapporto con mia madre, e con tante donne e ragazze in cerca di emancipazione, è stato un momento eccezionale della mia vita che ha generato in me un innamoramento profondo per la femminilità. Sarà per questo che preferisco le poetesse ai poeti. Possiedo, tra l’altro, venti lettere inedite, mai divulgate e importantissime per il loro contenuto, di Anna Maria Ortese, in una delle quali vi è una recensione di “Ara Coeli” di Elsa Morante. Per ora le tengo gelosamente custodite, benché mi renda conto che in ciò vi è un godimento un po’ ottuso, un piacere infantile perché quasi sadico».
C’è del sadismo anche nelle relazioni tra collezionisti?
«Senza dubbio. Con il mio vecchio amico Giorgio Maffei abbiamo iniziato a usare WhatsApp solo per poterci mostrare a vicenda le rispettive conquiste collezionistiche. Nel collezionismo non si deve fare i buoni samaritani, conta solo essere abili. Una volta mi era finito tra le mani, insieme a tanti altri, un libro di Guy Debord Guy e Asger Jorn, “Memoires. Structures portantes”, edito a Parigi nel 1959 sotto la dicitura “Internazionale Situazionista” ma stampato a Copenhagen da Permild e Rosengreen, maestri della tipografia d’arte. Era l’edizione originale, un esemplare perfetto con testo e immagini in bianco e nero ma con sovraccoperta a colori in carta vetrata, per sottolineare l’aggressività del contenuto di questo straordinario libro d’artista (come oggi lo definiremmo in barba proprio a Debord). Maffei, celandomi il suo effettivo valore, mi convinse a darglielo inserendolo tra vari altri volumi che mi aveva preso. Qualche tempo dopo l’ho visto in vendita a 5000 euro. Maffei ha fatto bene e la colpa è mia: non ho saputo cogliere la luce emanata da quel libro».
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