Sono piccoli urli di carta arrotolati attorno al libro, strilli pubblicitari con ambizioni critiche che quasi sempre la sparano grossa, la sparano enorme.
“Due edizioni in un giorno!”.
“Tra Pippi Calzelunghe e il Diario di Laura Palmer”.
“Il super romanzo sconosciuto!”.
Sono le famigerate fascette, che un po’ attirano il lettore e un po’ lo respingono, un po’ lo invogliano e un po’ lo disturbano «perché magari coprono il titolo o la copertina, e quando le prendi in mano tagliano le dita, si attorcigliano, che scocciatura», dice Sandro Veronesi dando voce alla sua anima lettrice, subito però incalzata da quella di autore: «Beh, se poi una fascetta fa vendere anche solo una copia in più e l’editore ci investe qualche euro, perché no?».
Siamo già in piena orgia da fascetta natalizia, il periodo dell’anno che più incoraggia questo bizzarro e a volte comico doping di parole. Dagli scaffali delle librerie, specialmente quelle di catena, occhieggiano sirene che in due righe, quasi sempre su sfondo giallo, non raramente scritte tutte in maiuscolo, liberano il loro più o meno irresistibile canto. Ci sono le fascette che danno i numeri (di vendita, anche presunti), quelle che riassumono il contenuto o lo accennano per blandire, quelle che elencano un premio vinto da indossare come la fascia di una miss e quelle che riportano la frase-slogan di una voce illustre, quasi mai verificabile. Perfino l’elegante Adelphi ci è cascata per lanciare Višera di Varlam Šalamov, anche se i mastri fascettatori riconosciuti lavorano per Newton Compton: un esempio di rara sobrietà si può rintracciare sulla fascetta di Ho imparato ad amare, autrice Lia Riley, dove si legge: “Divertente, impertinente, spiritoso, sensuale, intenso, fenomenale”. In Italia esiste persino un blog che da qualche anno le raccoglie, si chiama Fascetta Nera e lo dobbiamo all’estro di Alberto Forni: «Ormai le fascette sono un genere letterario con punte di sublime» . Gli esempi sono, loro sì, un libro aperto.
“Il nuovo Fabio Volo che sbarca a Lugano lo raccomanda Mina” (trattavasi del romanzo di uno sconosciuto deejay svizzero).
“Il libro di cui tutti parlano, 893.453 copie vendute”.
“Bestseller del passaparola in Danimarca”.
“1994, il libro che ha ispirato il Grande Fratello”.
“Vincitore premio Amaro Silano 2015”.
“Il più grande scrittore brasiliano dell’Ottocento”.
Fino all’irraggiungibile: “Ha talmente tanto successo che se ne vendono copie pirata ai semafori”.
Senza trascurare informazioni accessorie (“In omaggio il gadget vibrante”, non proprio allegato ai Promessi Sposi).
Ma gli urletti servono a qualcosa? «Se non esagerano, forse sì», risponde Alberto Rollo, editor, traduttore e scrittore di lungo corso, per anni a Feltrinelli, ora a Baldini&Castoldi. «Però non ho mai visto un piccolo libro esaltato nelle vendite da una fascetta». Eppure, all’Associazione Italiana Editori risulta che una buona fascetta possa pesare fino al trenta per cento di copie in più, anche se ormai quasi un libro su due esce di casa con la sciarpa di carta e nell’ammasso ci si confonde, se tutti gridano nessuno ascolta. «A volte le fascette sono un debito nei confronti di un premio, dell’autore, della citazione di un giornalista».
La nascita del gridolino cartaceo è comunque nobile. Pare che il primo ad averne beneficiato sia stato Walt Whitman, il quale nel 1856 mandò il manoscritto di Foglie d’erba al filosofo e scrittore Ralph Waldo Emerson, gentile nel rispondere con una lettera di incoraggiamento dove, tra le altre frasi, si leggeva: “Ti vedo all’inizio di una grande carriera”. Whitman lo disse al suo editore che pensò bene di inventare la fascetta. Eppure, nella lingua inglese non esiste nemmeno la parola per definirla, si usa una frase ben più lunga di una fascetta classica: Advertising paper book band with blurb on it. Ma proprio il termine blurb, alla fine, ha preso a indicare un genere. E ci sono autori come Daniel Pennac o Stephen King che ne hanno scritti apposta, moltissimi. Narra la leggenda che una casa editrice italiana piuttosto scaltra sia arrivata a inventare non poche citazioni di King: il quale ne ha vergate un’invasione e quindi nessuno saprebbe distinguerle, meno che mai lui.
«Non so se la fascetta serva davvero, in questo momento cerco un po’ di frenare anche se alla fine le uso». Paolo Repetti, inventore di Stile Libero con il compianto Severino Cesari (scomparso lo scorso ottobre), ammette di provare verso l’urletto un duplice sentire: «Noi siamo l’anima più pop di Einaudi, dunque le fascette non ce le facciamo mancare. Devo dire che gli autori non smaniano particolarmente per averle. E non bisogna mai usarle per nascondere scarsa fiducia in un titolo o in una copertina. Il lettore italiano è disincantato, smaliziato, non abbocca facilmente: la fascetta all’americana con un solo aggettivo non lo affascina. Parliamo di uno strumento senza regole fisse: del resto, la fascetta è l’ultima cosa del libro che decidiamo».
E attenti all’autore che esalta un collega, spesso è solo cambio merce, restituzione di favori o tattica di scuderia. Vale, in parte, anche per le recensioni fatte da scrittori. Si può davvero credere a un narratore che ne “blurba” un altro? Nel dialogo con un giovane, aspirante collega, sentite cosa ne pensa il memorabile Ernest Hemingway inventato da Woody Allen in Midnight in Paris: “La mia opinione sul tuo libro è che lo odio. Se è brutto lo odio perché odio la brutta prosa, se è buono sono invidioso e lo odio ancora di più”.
E se fossero solo una mossa pubblicitaria travestita? «Da noi le fascette sono definite dagli editori», risponde Graziella Cerutti, direttore commerciale del Gruppo Gems. «Vengono usate per indicare notizie di diversa natura rispetto a quelle esposte in bandella, altrimenti rischierebbero di deludere il lettore e screditare lo strumento».
Fate un gioco: andate in libreria e leggete solo le fascette, tutte di seguito come un unico libro, sarà un’esperienza quasi degna dell’ultimo Italo Calvino. «Nel cassetto ho un archivio di nostre fascette», racconta Antonio Sellerio. «Ebbene, riesco a riconoscere tutti i libri a cui si riferiscono. Questo perché, pur non usandole molto cerchiamo di dare informazioni concrete per identificare meglio le opere. Nella loro veste, i nostri volumi si assomigliano, non hanno strilli in copertina. La fascetta vuol essere un garbato elemento in più da dare al lettore, compagno di lungo corso. Io credo che il miglior modo di vendere un libro sia far sapere com’è». Anche Elvira Sellerio una volta scrisse una fascetta: «La mamma non riusciva a trovare una citazione adatta per un bel romanzo di Penelope Fitzgerald, così ci pensò lei: “Questo libro è un gioiello”» . Come lettore (ogni editore lo è, prima di tutto), l’uomo dei libri blu conserva le fascette: «Le tolgo e poi le uso come segnalibri». Forse perché nessuna parola si butta mai via.
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