Non amo la Francia. O meglio. Non la prenderei in blocco, ecco. Neppure Parigi, ad esempio. Ci sono stata ma qualcuno si mise di traverso, abbastanza per lasciarmi un ricordo fastidioso della città. Non mi sono perciò identificata in Rosalie, protagonista di Parigi è sempre una buona idea, che nella Ville Lumiere trova l’amore. Il libro l’ho letto durante un viaggio in treno, 2 ore tra andata e ritorno, per annullare la distanza tra me e il mio consorte in trasferta a Parigi. Questo per dire che non è un capolavoro, l’equivalente ferroviario del libro da ombrellone, ma offre spunti interessanti per la visita della città, soprattutto indirizzi di Saint Germain des Pres. Ad esempio l’Hotel des Marroniers, ideale per una fuga romantica, che ha un delizioso giardino interno con un roseto e un castagno, dove trovare rifugio dal rumore incessante del traffico o dal calore, in estate, e “lire, avec vous, à l’ombre, sous le marronnier, un roman d’autrefois, ou « Clara d’Ellébeuse » “ . (À travers les étés, Henry Alain-Fournier).
L’autore è Nicolas Barreau, di cui non si conosce la vera identità, secondo alcuni nato a Parigi da madre tedesca e padre francese, commesso in una libreria della Rive Gauche, autore di romanzi di grande successo ambientati a Parigi (in un’intervista ha confessato di aver fatto suo il motto lanciato da Humphrey Bogart in Casablanca “Avremo sempre Parigi”) e creato dalla casa editrice Thiele & Brandstätter per sfruttare la notorietà degli autori francesi in Germania. La sua editrice francese è Héloïse Lefèvre d’Ormesson, figlia di Jean, scrittore e giornalista, di cui recentemente l’editore Clichy ha pubblicato alcuni titoli, che di sé e della scrittura ha detto “Non ho mai creduto che sarei diventato uno scrittore. Ci sono autori che hanno scritto romanzi e grandi classici a quindici, vent’anni. Io a venticinque non avevo la minima idea di mettermi a scrivere. Non perché non conoscessi la letteratura, la conoscevo bene, ho fatto una scuola Normale. È che non vedevo nessuna utilità nell’aggiungere qualcosa a Flaubert, per intenderci”. Touché.
L’altro indirizzo interessante, questa volta proprio dal punto di vista editoriale è L’Editeurs, ristobiblioteca o biblioristorante, con i suoi 5000 titoli messi a disposizione dalle case editrici che vi organizzano eventi, presentazioni e premi anche se lo spirito del quartiere non è più quello degli anni Venti, della Parigi descritta da Hemingway in Festa mobile per intenderci. Spirito che a detta di molti è rimasto invece intatto da Shakespeare & Company, l’arcinota libreria dove non sono stata, visto l’umore, per non rovinarmene il ricordo per sempre.
Di Parigi mi è piaciuto molto il Marais, o il Pletzl (piccolo luogo in yiddish) come lo chiamarono gli ebrei aschenaziti che vi si stabilirono a fine ‘800, dove è nato e ha vissuto da bambino Haim Baharier, psicoanalista studioso di ermeneutica biblica e del pensiero ebraico. Nella sua casa visse per un certo periodo Monsieur Chouchani, enigma vivente e clochard, protagonista del suo La valigia quasi vuota. Un libro difficile da classificare, “semplicemente è”, come dice l’Autore, da cui si traggono profonde riflessioni sulla claudicanza, non in senso fisico, ma la consapevolezza della finitezza umana, il rimpicciolirsi senza diminuirsi, il farsi indietro per accogliere l’altro.
Sono stata in pellegrinaggio da Hermes che, oltre alle iconiche e très cher borse, messe in bella mostra da Christine Lagarde alle riunioni del Fondo Monetario Internazionale, produce una carta da parati dal nome Biblioteque ispirata alla collezione di libri di equitazione di Emile-Maurice Hermes che lanciò la prima collezione di abiti della Maison. Ha prodotto Litterature, il carré disegnato dal grafico Cassandre, famoso per i suoi affiches degli anni ’20 e il carré Ex libris, al centro del quale è riprodotto proprio l’ex-libris che lo stesso Emile disegnò per la propria biblioteca personale. Proprio questo fu il foulard portato come un papillon da Colette, che a proposito delle borse scrisse “per Hermes il dentro deve essere bello come il sopra, e l’interno come l’esterno”. Colette per un certo periodo scrisse di moda. Lo fece per Vogue e nel 1932 aprì un salone di bellezza. La sua Claudine divenne il primo vero fenomeno di costume della storia; le donne vestivano alla Claudine, portavano i capelli alla Claudine, si vendevano profumi, grembiuli e cravatte in stile Claudine. Ho riposato su una panchina in grandi e piccoli giardini, parchi, ispirata da Giardini di Carta di Evelyne Bloch-Dano in cui l’autrice ripercorre la storia dei giardini e della loro presenza nella vita dei più importanti autori francesi (su tutti Jean-Jacques Rousseau che “nella letteratura francese è stato il primo a trasformare il giardino in un rifugio e in uno specchio dei sentimenti privati”) sino ad arrivare a Modiano, il più cittadino tra gli autori citati, per il quale è invece il giardino pubblico a essere fonte di ispirazione: “Mille anni e poi mille/non possono bastare/per dire/la microeternità/di quando m’hai baciato/di quando t’ho baciata…al Parc Montsouris a Parigi/a Parigi/sulla terra/la terra che è un astro” (Fiori di rovina). E a proposito di poesia non ho mai imparato a memoria Les enfants qui s’aiment di Prevert ma riascolto spesso Tous Les Garçons Et Les Filles di Françoise Hardy. E credo di essere tra le poche a cui piacciono le canzoni fragili e sentimentali di Carla Bruni (forse perché ricordano quelle di Françoise) che non ho mai considerato italiana, neppure quando divenne Première Dame.
Ho passeggiato lungo la Senna, non sono stata sulla Torre Eiffel che compare sempre sulle copertine dei libri del succitato Barreau ma sono stata al Tunnel dell’Alma ad omaggiare la vittima delle vittime dei triangoli. Un pensiero alla Ville Lumiere però lo rivolgo sempre, e mi fermo ammirata davanti alle vetrine di L’ultima volta che vidi Parigi, ispirate alla Parigi degli anni ’50 (quella del film) che originò mostri sacri, icone e perdigiorno, ricchi e squattrinati, appartamenti lussuosi e tappezzerie sbrecciate, ombre vivaci su sfondi fané. “Più che gente sembrano foulard”, per dirla alla Paolo Conte citando Madeleine. Del resto proprio Proust scrisse che “l’essenza della musica è di svegliare in noi quel fondo misterioso della nostra anima, che comincia là dove il finito e tutte le arti che hanno per oggetto il finito si fermano”.
Mi dico sempre che le darò un’altra chance ma il momento non è ancora arrivato. Per ora, da casa, perdo tempo con i video che Roger Vivier mi recapita gentilmente nella mail. Ines de la Fressange, it girl per quelle della mia età, vagabonda per gli arrondissement e mi mostra i suoi oh so-Ines! indirizzi segreti, anche se Come mi vesto oggi? Il suo ultimo libro- guida per vestirsi alla parigina sinceramente non è tra quelli che comprerò. Non amo la moda, che dai tempi del Re Sole vuol dire Parigi e “muore giovane”, come scrisse Cocteau: prediligo di gran lunga lo stile. E poi non ho il fisico per vestirmi alla francese: su di me gli abiti morbidi fanno portinaia. Mi cade meglio il rigido e ruvido harris tweed. Mi manca anche quel briciolo di stoicismo che fa affrontare l’inverno in camicie di seta e ballerine. Ma adoro le infradito che Colette, ispirandosi a un sandalo greco, fece realizzare al suo ciabattino di Saint Tropez dando così il via al mito delle tropéziennes, i “sandali alla Spartaco” come li definì la stampa newyorkese, scandalizzata dai suoi piedi nudi e dalle unghie smaltate.
Non amo le smancerie, mi viene meglio lo stiff upper lip. Allo stesso modo non amo lo shabby chic e la Provenza in estate ma ho un bellissimo ricordo di Isle-sur-La-Sorgue in un dicembre di qualche anno fa. Ci siamo arrivati nel tardo pomeriggio, soffiava un forte vento di maestrale, “un vento tracotante” come lo definisce Frédéric Mistral, poeta occitano e Nobel per la Letteratura nel 1904. Le strade erano deserte, ci siamo rifugiati in un bistrot. Nessun turista, solo habitué, l’atmosfera era la stessa descritta da Simenon in Lettera al mio giudice: “…C’è la luce calda dell’interno. Ci sono le famiglie e gli habitué con i visi rossi, che giocano le loro partite a domino e a carte, sempre sullo stesso tavolo e che chiamano i camerieri per nome. È un mondo, capite, un mondo quasi completo che basta a sé stesso, un mondo in cui mi immergevo con voluttà e che sognavo di non lasciare mai…”. Da lì osservavamo i rari passanti e ci godevamo quel momento, come in Risveglio di Jean Giono: “Ho visitato i musei, come fanno tutti, sono andato a zonzo in gondola sul Canal Grande. Me ne sono stancato presto (…) Se ci si accalca per qualcosa, qualunque cosa sia, me ne vado, a costo di non acchiappare ciò che gli altri acchiappano (…). La vita non è in marmo di Carrara. Non vi è nulla di straordinario sul Prato della Valle, se non per me oggi, alle cinque della sera, una luce e un’aria, certi rumori, colori, forme che mi colmano di una felicità che sono il solo ad assaporare.” Non volevamo “camminare fianco a fianco su una strada di lavanda e vino” (Renè Char), volevamo piuttosto perderci tra le botteghe antiquarie, consapevoli che “insieme agli oggetti acquistiamo dei piccoli universi di senso” (Roland Barthes). Le giornate erano bellissime e il sole non faceva che rendere ancora più evidente anche il fascino delle piccole cose conservate con convincimento: persiane in legno dai colori sbiaditi, a volte sbrecciate, casolari in pietra, ulivi dai tronchi contorti, e molto altro che contribuisce a costruire un paesaggio di indiscutibile attrattiva. Come fosse questo un esercizio di morale, un tentativo di tenere a freno il progresso che secondo Cezanne “è soltanto l’invasione dei bipedi che non hanno tregua fino a che non hanno trasformato tutto in odiosi marciapiedi con lampioni a gas e, peggio ancora, con l’illuminazione elettrica”. Perché in fondo L’important c’est la rose (Gilbert Becaud).
Ho fatto cure thalasso che non dimenticherò a Saint Malo “corona di pietra posata sui marosi”, come diceva Flaubert, che mi hanno restituito l’energia prosciugata e assediata dalle nostre vite cittadine. Ho passeggiato a lungo sulla Grand Plage costellata di pali dove si infrangono le onde fragorose che affollarono come ombre oscure i sogni di Chateaubriand. Su molte altre spiagge della Bretagna mi sono lasciata pervadere dalla malinconia, influenzata forse anche dalle atmosfere di Un uomo e una donna di Lelouch. Concordo con Proust nel dire che “il paté de foie gras non ha niente a che vedere con la scipita mousse che solitamente viene servita sotto questo nome” (Il tempo ritrovato). Mi piacciono la zuppa di cipolle gratinate e le galette de sarracin più volte citate da Simenon, la bouillabaisse come l’ho mangiata a Marsiglia che piace tanto anche a Fabio Montale di Izzo, alcune quiche, molta patisserie ma non la tristissima madeleine. Lo champagne, ça va sans dire, compagno di chiaccherate con un’amica anziana scrittrice maestra di stile perché lo champagne richiede eleganza, come spiega Amelié Nothomb in Petronille “L’ebbrezza non si improvvisa. Rientra nel campo dell’arte, che esige talento e cura. Bere a caso non porta da nessuna parte.”.
Ora voi vi domanderete il perché di questa mia flanerie (per citare Il pittore della vita moderna di Baudelaire) nella letteratura francese, piuttosto che un elenco ragionato e sistematico di libri letti. Perché mi serviva un pretesto per parlarvi di Charles Dantzig, scrittore ed editore francese con un curriculum di tutto rispetto in entrambi i settori, ed in particolare di due suoi libri, entrambi pubblicati in Italia da Archinto. Il primo è Enciclopedia capricciosa di tutto e di niente, a cui mi sono ispirata, ormai è chiaro, per scrivere questo saggio. E’ un libro che tengo sul comodino, che ho letto e riletto, che apro e chiudo anche a caso perché contiene non un racconto ma una serie di liste, “la forma di scrittura più naturale per gli uomini”, dice l’Autore. Una forma alternativa di autobiografia, dico io. Sin da piccoli si compila la lista dei regali per Babbo Natale. Da grandi la lista della spesa. Da Narcisi la lista delle amanti. Sono escluse le liste che raccolgono dati statistici: non dicono di più di quello che dicono. Per questo ci vogliono i romanzi. Le liste si compilano secondo la propria sensibilità, e l’interesse sta nella loro incompletezza che consente, a chi legge, di integrarla o concluderla. Ma chi la proseguirà? “Nel vago, in un soffio di vento è possibile sorprendere una polvere incantata che ci condurrà dove mai avremmo pensato di andare”. Le liste stimolano la fantasia pur essendo soggettive. Le liste proposte da Dantzig sono più di duecento e le più improbabili: le strade più belle del mondo, gli aeroporti affascinanti, i luoghi di perdizione, le macchie sulle pareti, la lista di luoghi terribilmente dozzinali, la lista dei popoli, dell’eventuale dolcezza del vivere, delle parole nazionali, la lista dei francesi (popolo senza cuore, senza humor, del gallo che si crede aquila, che non sa di essere odiato) e così via… Nella lista Francia, di Parigi scrive: “amo tutto, pietra e gesso, il diamante splende di più accanto al fango, e la magia accanto alla realtà. L’arte di Parigi consiste nel mantenere un certo disordine per non far vaporare la vitalità e non diventare una vecchia fata sdentata che crede di essere Angelina Jolie”. Spesso sono liste punto, altre volte contengono commenti, spiegazioni, citazioni. A proposito di letteratura esiste la lista dei libri che avrebbe voluto scrivere, di quelli che salverebbe dalle fiamme, una lista delle frasi o delle parti di frasi di cui ha pensato di fare o fatto dei libri: Marmellate di crimini da Cartes postales di Revet, I bordi dei precipizi da Atala di Racine, Nel caos delle sue carte da Commento storico alle opere… di Voltaire. La lista delle frasi che gli scrittori si sentono dire: Conosce Marc Levy? La lista degli scrittori che non piacciono ad altri scrittori: a Celine non piaceva Proust, a Claudel non piaceva Proust, a Flaubert non piaceva De Musset, a Hugo non piaceva Merimée, e così via. Insomma, da un libro ne vengono fuori un’infinità, a voler seguire i suoi ragionamenti. Tutti capolavori? Mah… In A proposito di capolavori, spiega che il capolavoro nasce soprattutto per rispondere all’esigenza dell’uomo di avere certezze. Anche se nasce da una rottura: della mediocrità. In quanto capolavoro è universale ma secondo Dantzig l’universalità è una nozione terroristica, inventata da una maggioranza che vuole far credere di essere la totalità. E la popolarità? Un capolavoro diventa popolare per ragioni estranee alle sue qualità: equivoco e propaganda, spesso. Il capolavoro non ha modelli, e non si può riprodurre: sarebbe come la Venezia dei parchi di divertimento. I capolavori del tipo capolavoro che il pubblico riconosce sono imitazioni, come un giro domenicale al mercato delle pulci: oh guarda, il divano su cui zia Rosa faceva la siesta. Per farla breve, alla fine del libro di una cosa si è certi: definire un capolavoro è un paradosso perché nella sua natura è il sottrarsi a ogni definizione. E mi consola, nella mia ignoranza, l’esistenza di Dictionnaire égoïste de la littérature française, sempre di Dantzig, che riunisce autori noti e meno noti, da cui apprendiamo che la lattuga romana venne introdotta in Francia da Rabelais, o quali scrittori morirono schiacciati da un veicolo. Un saggio d’estetica, un’autobiografia involontaria, un dizionario in cui si sceglie quello che più piace, quando si vuole, disordinato e piacevole. Questo per dire che pazienza se non ho letto tutto il meglio della letteratura francese, del resto, tornando ai capolavori, ho sempre preferito di gran lunga le provocazioni alle conferme. Se ne ho fatto qui una lista molto soggettiva ed egoistica è perché, come ha scritto Dantzig nella sua Enciclopedia a proposito degli Italiani “gli Italiani hanno dei difetti ma non li nascondono, li mettono in mostra”.
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