Rebecca libri

Italiano addio!

di Elvira Seminara

Scusate se inizio così, ma c’è una parola che muore mentre leggete questo pezzo. Ogni mattina, in qualche parte del mondo, c’è uno scrittore che insegue una parola, l’ha solo intravista ma ne possiede il suono, la fiuta, la bracca e infine l’afferra. Mentre la scrive, come faceva la Dickinson, la guarda brillare.

Ma ogni mattina, nel mondo c’è un editor che la spazza via. È una parola poco ordinaria – ti spiega – inconsueta (stavo per dire desueta, ma anche questa è da evitare), astrusa (forse anche astratta, se non astrale) insomma poco riconoscibile, poco reale, non familiare, addirittura poetica. A questo punto, a fugare qualche risibile resistenza, se non sei Borges o Saramago e nemmeno una prolifica-provvida penna di milioni di copie, l’editor sgomento accusa: è una scrittura letteraria! Sottotesto: non si venderà. Postilla: occorre tradurla in una lingua basica. E non si tratta di un manuale di istruzioni per lavatrice. Credevate forse che in letteratura sia praticabile una lingua letteraria? Siete fermi a Croce, voi autori in cerca di farfalle?

Ogni giorno c’è un autore o un’autrice che fa le esequie a una parola “diversa” – che dopo quest’ultima espulsione sarà ancor più irrecuperabile ed estranea al lessico comune – perché non omologata, eccentrica, scardinata, fuori dai registri, troppo nuova o troppo antica, perché inventata o abbinata a un termine in modo bizzarro, persino inquietante – sì, anche. Il lettore non va turbato, ma confortato (tranne in caso di thriller, massimo genere di conforto per l’editoria). Ogni infrazione alla lingua minima è consentita (anzi incoraggiata) dall’industria editoriale se fa ridere, sorridere, distrarre, digerire – cose a tutti gradite peraltro, purché ci sia varietà di scelta.

Ogni giorno, come la collina di pattume a Leonia, una delle “Città invisibili” di Calvino, ai confini dei nostri bisbigli cresce e si allarga la discarica delle parole reiette, quelle bandite dai testi, disabilitate, perché non rientrano fra le 2000 parole del lessico fondamentale raccolto dai linguisti, quelle che gli italiani usano e riconoscono. (Forse persino una stima generosa, se il wikizionario, il dizionario libero e multilingue, conta 1000 parole sufficienti nella lista italiana). Un gruzzolo davvero ingrato e striminzito, appena l’1,6 per cento delle parole disponibili nella nostra lingua, visto che i vocabolari più noti ne contengono 120 mila.

Ed è nella stessa urlante discarica che languono i congiuntivi (forse colpevoli di esprimere ipotesi e dubbi, cioè roba molesta e destabilizzante), sotto nugoli di figure retoriche, visto che metafore e similitudini allentano l’azione e possono dilatarla oltre la pagina e i muri di casa: volete forse sfiancare quel povero lettore sopravvissuto allo sterminio di parole e all’invasione di titoli – quest’anno persino il 3,7 per cento più dell’anno scorso, a (confortante) dispetto della crisi del libro? Volete voi, cacciatori di farfalle, che quel temerario misterioso lettore (perduto tra il 40 per cento degli italiani che leggono, ultimi dati Istat) che ha preso in mano l’unico testo che leggerà quest’anno, si imbatta in una parola o un’immagine non familiare, o in un indugio narrativo, una digressione che gli facciano chiudere il libro? Siete Proust, che impiega 30 pagine a rigirarsi nel letto prima di entrare nel vivo?

Ecco il punto. Nessun editore oggi pubblicherebbe un Proust, se non a prezzo di un sanguinoso editing, ma neanche, temo, Perec Cortázar Gadda o Manganelli, né lo stesso Calvino, il più acuto preconizzatore, essendo anche editore, di questa epocalisse – giacché tutti in odore di cerebralità e difficoltà di accesso. Cioè troppo letterari. E coscienti – peggio, orgogliosi – di esserlo.

La glaciazione della lingua è qui, oggi. Ma quale lingua produciamo noi scrittori, più o meno consapevoli, ribelli, complici o asserviti? Siamo davvero senza colpa? Quanto siamo condizionati, già al momento della scrittura, dal terrore di essere letterari, distanti, impegnativi? Quante volte leggiamo libri instupiditi, di autrici e autori molto più intelligenti e arguti dei loro libri? Quanto crediamo in una lingua personale e non addomesticata, che contravvenga e sorprenda, anziché rassicurare, che incontri il lettore non nei suoi luoghi comuni ma in quelli inesplorati, dove di rado ti porta la vita o la tv? Una lingua immaginifica, non plastificabile, portatrice di biodiversità, riserva genetica del pensiero, bosco lussureggiante, per dirla con Umberto Eco?
«Non si era mai visto, a casa mia, un autunno così smodato».

Era l’inizio del mio primo romanzo, “L’indecenza”, pubblicato con Mondadori nel 2008, una frase che generò un furioso dibattito. L’editor mi chiese di sostituire l’aggettivo “smodato”, effettivamente mai associato a una stagione, con “particolare”. L’incipit sarebbe stato dunque «Non si era mai visto a casa mia un autunno così particolare», francamente grossolano e per me inaccettabile. “Smodato” rendeva esattamente la mia idea di un autunno irregolare, imprevisto, perturbato, e direi sgraziato nelle sue esternazioni. Concetti peraltro manifesti nelle due pagine successive. Non avevo proprio intenzione di correggerlo.
Io allora lavoravo ancora in redazione (ho scritto di cronaca per vent’anni nel quotidiano La Sicilia, ottimo laboratorio espressivo) e sapevo cosa si intendeva per linguaggio diretto e denotativo, specialmente quando il morto ammazzato cadeva a mezzanotte, c’erano due morti a settimana, e la tipografia chiudeva all’una. Pochissimo tempo per andare a vederlo (solitamente in periferia), informarsi, tornare e scrivere il pezzo. Guai a perdere tempo e spazio per un aggettivo superfluo, o un vezzo verbale. Dovevi essere esatta, e insieme rapida. Linguaggio tecnico, anche, ma comprensibile a tutti.

Per questo sapevo bene cosa facevo in quel romanzo, trasferendo aggettivi e parole da un ambito all’altro – delocalizzandoli diremmo oggi – per reinverginarli e dargli un nuovo territorio, altro senso. Non era una lingua di informazione, ma una lingua di deformazione, visionaria, per raccontare una relazione ossificata. Una lingua ridondante e scorticata, come i capitelli barocchi e neri di Catania divorati dalla salsedine e dal tempo.
Mi fu assegnato un altro editor. Il dibattito fu ricco e bello, e senza amputazioni. Senza saperlo, avevo fatto come prescrive Deleuze: accostarsi alla lingua madre da straniero, come se tutto il mondo fosse nuovo. O come un matto.

Cito sempre quell’autunno smodato, nei corsi di scrittura, a ribadire la soglia tra i linguaggi. Ma gli allievi mi guardano straniti e diffidenti, come avessi in mano una farfalla agonizzante: dov’è quella soglia? Che differenza resiste tra la lingua dei social e quella dei romanzi? Nessuna. Anzi in tutto il mondo gli youtuber più seguiti sono inseguiti dagli editori. Proprio perché si esprimono in una lingua comoda e senza pretese come una felpa nera, universale e neutra. E spesso involuta e automatica come le loro storie. D’altro canto, come diceva il sovversivo Wittgenstein, i confini della nostra lingua creano quelli del nostro mondo personale, e se le parole sono poche e grezze lo saranno anche i nostri contenuti. Possiamo esprimere solo i sentimenti che sappiamo nominare.
Ridurre o inquinare il parco linguistico di un paese, sottraendogli l’irrorazione della lingua letteraria, cioè la lingua dell’immaginazione, è anche per questo un sopruso, oltre che una deplorevole e offensiva sottovalutazione dei gusti del pubblico e dei suoi diritti di “sconfinamento”.

Ma siamo coscienti – autori lettori editori librai bibliotecari studiosi – di questo scempio inflitto in nome del mercato alla lingua romanzesca, ormai ridotta a lingua basica, una lingua omologata e standard, poverissima sul piano lessicale ed elementare nella struttura, una lingua paratattica e sostanzialmente modellata su quella televisiva di basso intrattenimento? Una lingua di scambio, insomma, funzionale e mimetica, assimilata a una struttura che punta sul ritmo per legarti al divano, sulla riconoscibilità di situazioni per fidelizzare, su fraseggi per farne tormentoni, su personaggi- tipo per serializzare. Per farne storie simili e riproducibili, farcite di stereotipi e luoghi comuni/accomunanti, da identificare facilmente sul banco.

Quanti romanzi italiani degli ultimi anni, e quanti fra quelli premiati da pubblico o riconoscimenti – presentano una lingua altra, e un costrutto diverso, autoriale?

Perché non parlano, si fanno avanti, i critici e gli storici della letteratura? La gran parte dichiara di non leggere i romanzi contemporanei, per mancanza di tempo e di interesse – come del resto i loro allievi nelle facoltà di Lettere del Paese. E non hanno più spazio nelle pagine culturali nei giornali, peraltro vistosamente ridotte. Forse perché coi critici e studiosi si rischia una vera critica, e dunque di non far vendere il libro? Forse perché spesso essendo amici o colleghi degli autori risultano troppo clementi, dunque inattendibili per i lettori? Scrivono in modo ostico e criptico? Lo spazio di commento e analisi si raddensa nei terreni più friabili dei blog, più democratici, dove chiunque può dare giudizi senza bisogno di aver letto Tolstoj e Musil, e coinvolgere i lettori in un clima disteso e divertente, fluido.

C’è più qualcuno che ha in cuore una stella danzante? Che parli ancora, da quella valle degli scarti, di canoni e correnti, di ascendenze e rimandi, di filoni e dialogo fra autori lontani? Qualcuno che indaghi in modo non solitario sulle forme dell’io narrante? Non ce ne siamo accorti, eravamo distratti, ma di letteratura non parliamo più. Parliamo di libri, dappertutto, fra saloni e fiere, saghe e premi – è tutto un festival. Ma non parliamo di letteratura, di lingua. Ci imbarazza. Non è divertente, non raccoglie masse. Temiamo di essere bolsi, malmostosi, fuori dal mercato.

In realtà, abbandonati su quella discarica di parole, stralunati e soli come le marionette in quel film di Pasolini, forse ci siamo anche noi autori. Cosa sono le nuvole – era il film.

Nuvole o farfalle, è così. La soppressione di noi scrittori, narcisi, ciarlieri e presuntuosi nonché spesso improduttivi sul mercato, è già in atto. Basterà sostituirci con lo Script Generator, un dispositivo automatico per produrre testi, come ha previsto quindici anni fa nel suo bel fantasy Philippe Vasset, scrittore poco noto che a me ricorda Arthur Clarke. Se il campo delle storie è sempre quello, riproducibile con infinite variazioni, vuol dire che il racconto è ormai diventato materia prima. E che dunque la sua raffinazione può essere meccanizzata, miscelando e assemblando le strutture essenziali delle trame prodotte in Duemila anni (e immesse nella banca dati del congegno) per generare testi, capaci anche di autoriprodursi in forma di film, serie, romanzi, cartoni, videogiochi e programmi tv, tutti intercambiabili.

«È assurdo destinare soldi e tempo alla creazione, quando questo segmento produttivo può essere vantaggiosamente rimpiazzato da un riciclaggio intelligente e sistematico. Il fattore umano è sopravvalutato e anacronistico. Il prodotto base utilizzato dal dispositivo non è naturalmente il linguaggio», cito Vasset, «ma la storia». Appunto.

Gli autori, prosegue, saranno impersonati da attori fotogenici capaci di identificarsi col loro personaggio, e di portarlo in scena o sul set, con salutari guadagni e giubilo dei lettori.

Ma non mi piace chiudere in modo sinistro. Mentre leggevate questo pezzo, un paio di termini dismessi sono tornati in vita. E ci sono 9 miliardi, scriveva Clarke in un prodigioso racconto, di nomi di Dio. Eppure non l’abbiamo mai visto.

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