Rebecca libri

“Sempre pieno di collera e avvolto di miseria”

di Louis Pauwels e André Brissaud (tr. Andrea Lombardi)

Quando si arriva davanti alla casa di Louis Ferdinand Céline a Meudon, la prima cosa che si nota è questa insegna [Lucette Almansor, Danza Classica, NdC]. Lucette Almansor è la moglie di Louis Ferdinand Celine. Ha attraversato con lui una serie di sofferenze. Lei sa che è difficile vivere con un genio. Nascosta tra le foglie, c’è la targhetta del Dr. Destouches. Louis Ferdinand Céline si chiama in realtà Destouches. Lui è un dottore, è il dottore dei poveri. Sempre pieno di collera e avvolto di miseria. Eccolo − i suoi unici amici sinceri sono dei cani bastardi e rabbiosi. Chiama teneramente ognuno di loro “il mio piccolo papà”. Il suo migliore amico è il pappagallo che sentirete fischiare durante la conversazione. Perché, in effetti, Céline vive, lavora e sogna in mezzo all’abbaiare furioso dei cani e ai fischi ironici di questo uccello. Il suo studio, che è anche il suo ufficio, si trova al pianterreno. Che strano ufficio! Sulla sua scrivania scrive, dall’alba al tramonto, un libro che sarà composto di 2.500 pagine manoscritte. Copre con la sua scrittura 80.000 fogli, che poi attacca con mollette da biancheria. Quasi non mangia e beve, non fuma, dorme pochissimo. Lavora.

 

I: Louis-Ferdinand Céline, siete uno strano personaggio. Stimolate gli animi delle persone con le vostre opere, le vostre idee ed attitudini. Spesso affermate di essere malcompreso. Ora avete una possibilità per essere meglio compreso. Se doveste autodefinirvi con una parola, quale usereste?

C: Bene. Io lavoro e gli altri non fanno niente. È esattamente quello che penso. Giustamente la divergenza d’opinione o il disaccordo  totale può esserci. Il fatto è che siamo nell’epoca della pubblicità. Perché è l’orrore del mondo moderno che produce la pubblicità. Dunque, io sono un partigiano della modestia. Quello che conta è l’oggetto. Questo conta: voi avete un apparecchio davanti a voi. Spero che sia magnifico. Ma, dopo tutto, l’uomo che l’ha inventato potrebbe aver avuto dei problemi. Magari era cornuto, o pederasta. Magari era un biondino (uno che si mette le parrucche NdT). O un androgino. Magari aveva il mal di gola, non so. Ma l’apparecchio funziona. È resistente, non è vero? È l’apparecchio che mi interessa. Ma a me, dell’uomo che l’ha fatto, non mi interessa mica. I cambiamenti d’opinione, questo mi infastidisce.

I: Nonostante il  numero di stranezze, voi siete un parigino. Il vostro tono, le vostre maniere, le vostre reazioni, financo il vostro accento sono di un parigino, anzi, meglio ancora, di un abitante dei sobborghi. Dove siete nato? 

C: Sono nato a Courbevoie (Seine), Rampe du Pont, il 27 maggio 1894.

I: Ci siete restato a lungo?

C: Due anni

I: Due anni?

C: Due anni. Due anni. Me lo hanno detto perché, in fin dei conti, all’età di due anni non si hanno precisi ricordi.

I: Cosa facevano i vostri genitori?

C: Mia madre lavorava nell’abbigliamento e rammendava merletti. Ma non era molto redditizio a Courbevoie e così dovette chiudere il suo negozio. Poi partì e andò a vivere con la madre impiegandosi come commessa a rue de Provence.

I: E vostro padre?

C: Mio padre era stato un impiegato. Perché lo licenziarono, al mio papà! E allora lui aveva delle aspirazioni letterarie. Le aveva. Da allora divenne un letterato e sbrigò la corrispondenza della sezione incendi della compagnia assicurativa “Phoenix” on rue La Favette.

I: E dopo Courbevoie dove siete stato?

C: Al passage Choiseul. Era il posto più bello, il passagge Choiseul, a quel tempo, anche se c’era troppo gas, c’erano 360 lampioni accesi dalle 4 di sera. Con tutti quei lampioni Auer in funzione,  eravamo in mezzo al gas. Sono stato allevato in una campana di vetro di lampioni a gas.

I: A quel tempo, eravate un bambino molto dolce, molto affettuoso?

C: Non ho avuto la possibilità di essere dolce ed affettuoso: sono stato allevato a suon di schiaffi, perché ce n’era bisogno, perché era così; a quel tempo si veniva cresciuti con schiaffi, pugni e «stai zitto, teppista!».

I: Volevate bene a vostra madre?

C: E, be’! non mi sono mai posto la questione. Tutto è passato in un… eravamo angosciati dal problema del cibo, proprio così, perché me lo ricordo;  mi ricordo una cosa: c’era una sola vetrina illuminata la sera con la luce a gas, perché, nell’altra, non c’era nulla, ne avevamo sempre una sola accesa perché l’altra era vuota. E così è una questione che non ti poni. Che ne so? Non c’era un complesso, giusto? Ci preoccuapavamo del mangiare, di trovare qualcosa con cui sfamarci. Ah! Mi ricordo un’altra cosa, che noi mangiavamo la pasta (le tagliatelle). Mangiavamo la pasta. Perché? Facevamo una pentola di pasta perché era la sola sostanza – voi parlate giustamente di bettola – il solo alimento che si potesse fare, privo di odore, perché i merletti, soprattutto quelli più vecchi, si impregnavano di odori. È per questa ragione che sono cresciuto con un’ossessione per gli odori. In ogni modo, nulla di carne, nulla di pesce, niente. Pasta! Pasta! Allora mia madre, povera donna, avevamo una scala, per salire i gradini – era zoppa – saliva piano piano, doveva fare una pentola di pasta. Mangiavamo pasta con un po’ di burro, ogni tanto, la sera. Sono stato allevato a pasta e miseria.

I: Al passaggio c’erano visioni naturalistiche?

C: Neanche una.

I: Eravate un giovinetto di Parigi che conosceva poco di natura, di cielo, di aria pura. Come avete scoperto la natura?

C:  Al cimitero, a vedere la tomba della nonna quando questa è morta. Al cimitero, e poi a piazza Louvois, perché lì c’era la mia scuola. Allora… vedi… perché là c’era la mia scuola.

I: Come andavate a scuola? Quali studi avete intrapreso?

C: Ho completato le scuole medie, per il diploma.

I: Cosa volevano che faceste, come mestiere, i vostri genitori?

C: L’ambizione di mia madre era che diventassi il direttore di un grande magazzino. Non c’era nulla di più ambizioso nella sua mente. Per quel che concerne mio padre, non voleva che studiassi perché sarei rimasto povero, lui c’era passato e ne era un esempio.

I: Cosa vi ha fatto decidere di diventare medico?

C: L’ammirazione per la medicina. Nel vedere i dottori, lo trovavo meraviglioso.

I: Quando eravate giovane pensavate fosse importante essere uno scrittore?

C: Ah! Per nulla. Lo trovavo ridicolo. Mi sembrava una cosa di poco conto. Perché? Sarei stato solo un altro dei tanti. Questo mi pareva straordinario. Che era poi quello che pensava mio padre.

I: Quando superaste l’esame di stato?

C: Mi diplomai prima della guerra, nel 1912, ma ritirai il diploma  solo dopo il 1918 [si arruolò NdT].

I: Ma nel tempo intercorso in attesa del ritiro dell’attestato e l’esame di Stato, voi avete…

C: Ho studiato sui manuali reperibili sul mercato.

I: Cosa stavate facendo in quel periodo?

C: Ero principalmente uno studente, un corriere e un apprendista.  Ho lavorato per La coste, Raymond, Vackerner; 12 mestieri, 13 miserie, come dice il proverbio. Il punto è che ho fatto molto. Mi son dato molto da fare. Adesso, sono mutilato, qui, adesso.

I: Ma voi passaste il vostro primo Esame di stato?

C: Con il massimo dei voti!

I: Perché improvvisamente abbandonaste gli studi per arruolarvi? In Viaggio al termine della notte, il protagonista si arruola a 18 anni dopo aver ascoltato una marcetta militare.

C: Ah! No, quello è un fatto inventato.

I: Vi arruolaste per patriottismo, per provocazione o per voglia di farlo?

C: Certamente un po’ per voglia, ma anche perché sono un artista e un po’ coglione. È sempre la stessa storia di… La trovavo fantastica, la storia di Racines de Reichshoffen, mi sembrava qualcosa veramente ammirabile, devo dire. Ed in più c’era anche il tono esaltato dell’epoca.

I: Il protagonista di Viaggio al termine della notte, Bardamu, impara la guerra attraverso la paura. È stato detto di voi che non eravate coraggioso. Avete paura della morte?

C: O porca puttana! Adesso, a ben vedere, sarebbe un sollievo.

I: Intendevo a quel tempo.

C: Se avevo ragioni per sopravvivere, non ne avevo? Non avevo lo stesso istinto di ora. Oggi, me ne frego, potrei suicidarmi all’istante, davanti a tutto il mondo. Verrebbe bene davanti alla cinepresa. Ma in quell’istante, avrei ancora delle illusioni. No illusioni, un istinto di sopravvivenza.

I: E voi avevate già la volontà di essere medico?

C: Si, sempre. Molto! Molto! Molto!

I: Ma perché volevate essere medico?

C: Perché ne avevo la vocazione, tutto qui.

I: Per rispetto di voi stesso? Per pietà verso gli uomini?

C: No, per fare qualcosa nel campo della medicina; questo mi faceva piacere; questo mi ha allietato per lungo tempo. Quando praticavo, 35 anni or sono, questo mi faceva piacere: di guarire un raffreddore,  di curare una varicella, di dilettarmi con un morbillo. Lo facevo molto bene, mi prendevo cura anche del carattere, non è vero? Lo so io.

I: Vi interessa la sofferenza dell’uomo o la malattia in sé?

C: Ah! Non la sofferenza dell’uomo. Io mi dico: se soffre, sarà ancora più meschino che di solito; si vendica e quella non è più sofferenza. Si sente bene! Alla grande! Mai stato meglio. Voilà!

I: Qual è il genere di persone che preferite?

C: I costruttori [da intendersi in senso lato, come “edificatori” NdT]

I: Quale detestate maggiormente?

C: I distruttori.

I: Quali sono gli scrittori che sono più vicini a voi e quali invece agli antipodi?

C: Mi interessano solo gli scrittori che hanno  uno “stile”; se non hanno uno stile, non mi interessano. Ed è raro, uno stile, caro mio, è raro. Ma le storie, ne è piena la strada: tutto è pieno di storie, pieni i commissariati, pieni i tribunali, piena la vostra vita. Tutto il mondo ha una storia, mille storie.

I: Parlate di stile. Ma non c’è uno scrittore…

C:  È raro uno stile. Uno stile? Ah! Sì certo. Ce ne sono uno, due, tre per generazione. Ci sono migliaia di scrittori, ma sono dei “alla maniera di” … borbottano nelle loro frasi, ripetono quello che qualcun altro ha già detto. Si scelgono una storia, una buona storia, e poi la raccontano. Questo non è per nulla interessante. Ho smesso di essere uno scrittore, nevvero, per diventare un cronista? Allora io metto la mia esperienza sul tavolo, perché, non dimentichiamolo, c’è la grande ispiratrice: la morte. Se non mettete la vostra esperienza sul tavolo, non avete nulla. Uno deve pagare! Quello che è fatto gratuitamente non conta nulla, vale meno del nulla. Allora, avete scrittori gratuiti.  E quello che è gratuito, puzza di gratuito. Al giorno d’oggi, voi avete solo scrittori gratuiti. Che cosa ci mostrano? Sono gratuiti.

I: Qual è l’emozione a voi più familiare? L’odio? Il disprezzo? Il disgusto? L’amore? L’amicizia? Quale dunque?

C: La fatica. Io sono qui per lavorare. Sono un povero lavoratore. Come diceva Cartesio, non sono più geniale di altri, ma ho più metodo, giusto? Io, non ho che un metodo, ed è quello di prendere un oggetto e poi di plasmarlo. Voi conoscete questa mediocre imitazione della cultura greca, è quello che vogliono fare tutti. È come nella canzonetta: “ancora un altro. Un altro dunque, ti prego, ancora uno, ancora uno! Ne ho uno buono!” È così. Capite? Quando una cosa dura 10 minuti, e be’ allora, è la novità! É un affare di 500 anni, mille anni.

I: Qual è stata la gioia più grande della vostra vita?

C: E be’, Dio mio, devo dirvi che non ne ho avuta molta. Non ho vissuto molte gioie, non sono un privilegiato. Sarò felice quando morirò, ecco la verità. Desidero morire nella maniera più indolore possibile, soprattutto che non abbisogni di cure, non ci tengo a soffrire.

I: Credete in Dio?

C: No, non ci credo per nulla, no, no, non ci credo per nulla, no, no, no, no, non credo per nulla in Dio. Sono un positivista. Chiederei di meglio che di credere in Dio; ovviamente sono un mistico. Ma il buon Dio, e be’! o Dio, non mi sembra che si interessi molto alle stesse cose che mi interessano; questo sicuramente no, no, no. Ma sono un mistico, si, lo sono di certo.

I: Dite di non avere avuto una  grande gioia nella vostra vita. Una grande sofferenza l’avete avuta?

C: Ah! Sono stato servito, per un bel po’! Di questa, da quel punto di vista, ne ho avuta ed in abbondanza. Mi ha fatto tutto quello che c’era da fare, davvero; di quella, in verità, ne ho avuta molta, molta… non voglio insistere oltre, ma davvero, le ho viste di tutti i colori!

I: Soffrite quando pensate al fatto che molta gente dice, pensa o fa cose malvagie?

C: Ah! No, me ne sbatto altamente. Non mi interesso delle persone, mi interesso delle cose, capito?

I: Ma, credete nell’amore?

C: Se pensi alla vita come una cosa divertente, e be’, allora, largo all’amore! E con tutta la sua volgarità. Ma, per esempio, io sono… non amo le cose comuni, no, le cose volgari. Voglio dire che una prigione è una cosa diversa perché la persona ci soffre, no, mentre la bella vita di Neuilly è una cosa molto volgare perché la persona si diverte là. È questa la condizione umana.

I: Ma voi, per i vostri libri, fate la figura del profeta. In qualità di Profeta dell’Apocalisse, pensate veramente che il cielo si oscurerà? Credete che la condizione dell’uomo peggiorerà? Diteci, se volete, come vedete il futuro prossimo.

C: Se gli uomini non vorranno andare alla guerra, è molto semplice, diranno: “non ci vado”. Ma hanno il desiderio di morire; è un desiderio, l’uomo è misantropo. Per esempio, quando vedete gli incidenti non appena accaduti, non pensate che siano tutti involontari. C’è qualcosa dentro di loro, qualcosa di perverso, che li spinge ad andare contro un albero. Apparentemente un buon uomo non gira dentro la propria auto dicendo: “vado a schiantarmi contro un albero”; ma il desiderio c’è, sì, e l’ho notato io stesso a più riprese, soprattutto tra i chirurghi, persone distinte. Li ho visti guidare le auto, no, in una maniera sospetta. Tutti gli uomini della terra devono andare presso i governi a dire: “io, lo sapete, non voglio andare in guerra”. E be’, allora non ci sarà la guerra. Se vogliono salvarsi, è perché lo amano, questo desiderio generale, questo desiderio di distruzione. Come diceva Montlue, generale di Enrico IV,  “signori e capitani, quelli che conducono gli uomini alla morte. Perché la guerra è questo…”.

I: Se voi doveste morire adesso, per volere divino, quale sarebbe il vostro ultimo pensiero?

C: Ah be’! Arrivederci e grazie! Ah! Ho finito, sì. Non vi auguro alcun male, ma Dio mio, occupatevi di voi da soli, perché, io, ho troppo da fare. Manco d’egoismo, è assai raro. Il mondo ne è pieno, sì…

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