«Solo dal Padre discende lo Spirito Santo, nei secoli e per sempre.» È questa la frase, in greco, di Giovanni Crisostomo che rende prezioso un antico manoscritto che Stefano ritrova all’interno del trattato sulle elemosine, in latino, di Giulio Folco.
Intorno a queste righe che mostrano la presenza, nei conventi calabresi, di testi della tradizione cristiana orientale e, di conseguenza, una possibile diversità di visione con la chiesa cattolica, impegnata nella difesa del Filioque, ovvero nella discendenza dello Spirito dal Padre e dal Figlio, Marco Iuffrida intesse un breve romanzo storico.
InChiostro, pubblicato da Rubbettino, rimanda, per temi e atmosfere, ad uno dei libri più letti del nostro Novecento, Il nome della rosa di Umberto Eco, ma il suo obiettivo, più che letterario, sembra quello di diffondere fuori dalla cerchia degli specialisti, grazie alla forma-racconto, e alla pregevole postilla, il valore culturale dell’effettivo ritrovamento, a Neocastro, del manoscritto oggi conservato presso la casa del Libro Antico di Lametia Terme.
Siamo negli anni successivi a quel concilio di Trento che «aveva accentuato l’attenzione verso la liturgia per contrastare le aspre critiche dei riformatori che condividevano il pensiero di Lutero. I protestanti credevano che, attaccando la messa, avrebbero fatto crollare il papato. Le opere in greco dei Padri della Chiesa, soprattutto le omelie di Giovanni Crisostomo, venivano chiamate in causa a testimoniare del dibattito tempestoso sul valore sacrificale dell’ultima cena.»
La vita non è semplice per la popolazione calabrese: «A quel tempo tutti temevano la mal’aria e ancor di più l’ombra nera della peste che in Calabria, come altrove per il mondo, dimezzava di frequente le genti. Nonostante la ricchezza di molte famiglie, arroccate nei propri palazzi, per le strade c’era una povertà assoluta e molti non conoscevano più dignità o altro valore nella vita umana. Erano affranti dalla rapace fiscalità dei dominatori spagnoli e dai signorotti che riducevano troppi all’indigenza più amara. Catapecchie di fango e paglia costellavano i borghi e le vie calabresi. E più ci si avvicinava al mare più l’aria malsana costringeva l’uomo ad una lotta strenua contro la natura. I religiosi erano assai fortunati rispetto alla maggioranza della popolazione.»
Nelle librarìe, ovvero nelle biblioteche dei conventi, le giornate fluiscono tra studio e preghiera e frati come il Maestro e il giovane Stefano, conoscitore del greco tanto da essere chiamato u grecuzzu dedicano tutte le loro energie alla comprensione e alla salvaguardia dei testi antichi. Loro avversari sono i legati pontifici, che fanno razzie di manoscritti da portare nelle biblioteche vaticane: legati, spesso sostenuti da soldati spagnoli: «Entrambe le due forze si scatenarono in nome dei princìpi più rigidi della Riforma Cattolica. Il latino non era nei loro interessi e la verità una sola: la cultura greca del Meridione andava piegata e spezzata, così qualsiasi afflato di libero pensiero.»
La passione con cui il Maestro e Stefano custodiscono e difendono i testi greci «affinché potessero manifestare ancora l’antica sapienza in terra i Calabria e non in una principesca librarìa romana o spagnola» non è inutile.
I fogli manoscritti dell’epistola di Giovanni Crisostomo vengono raccolti da un frate domenicano, «da tutti soprannominato lo stilese», «un gigante nel sapere, che da Roma le alte gerarchie dell’ordine dei Predicatori avevano obbligato a rientrare nel suo conventino di Stilo “per seppellirmi vivo”, come soleva dire lui con sarcasmo.» Il frate, che, giovanissimo, aveva compiuto tre anni di studi a Neocastro, raggiunge nuovamente il convento dell’Annunziata, dove si dedica allo studio, notte e giorno, dimenticando anche di prendere cibo: «Chissà, aveva presentimento di cose future, di guai, di doversi difendere. E lo faceva nell’unico modo che conoscono i figli dell’ordine dei Predicatori, studiando.» Trova il modo «di riaffidare al De Bono eleemosynae la custodia della dodicesima omelia del manoscritto greco, integrando il rompicapo che il Maestro di Stefano aveva ideato per la tredicesima e che forse non riuscì a completare per l’altra. Lo doveva fare, a perpetua memoria del coraggioso cappuccino e per l’amore verso i libri.»
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