Un giallo ambientato ai giorni nostri che si sviluppa intorno alla quartina di R. L. Stevenson, tutta da deciferare, posta in dedica a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde: “Male è sciogliere i vincoli stretti da divino comando…”.
I racconti, molto brevi, ci aiutano a comprendere meglio da dove proveniano, descrivendo prevalentemente il mondo del dopoguerra.
* * *
Prefazione
Vorrei dare un consiglio non richiesto sulla giusta quantità di pagine da masticare giornalmente del libro di Paolo Tordi. Ecco: non leggetelo tutto d’un fiato. Perché sarete portati a fare questo. Esaurita la cavalcata con “La quartina di Stevenson” avrete certamente ancora molta fame, sarete magari anche un po’ indispettiti perché il racconto è finito troppo presto. E dunque il desiderio di cibarsi ancora, di non far finire la narrazione vi porterà ad andare avanti in un impeto di bulimia letteraria. Sarebbe un peccato.
Questo libro va invece gustato poco a poco. Con calma. La formula d’altronde consente di fare esattamente questo: uno, due racconti al dì è il mio consiglio. Non di più. Sarà una medicina per l’anima, un elisir per la mente.
Il libro ha l’aspetto di uno spartito musicale, di una composizione in vari tempi: allegro, andante adagio, moderato con brio, presto. Ogni racconto ha una sua personalità e una sua velocità, a volte il ritmo diventa sincopato ed è assai gradevole lasciarsi accompagnare in questo compendio di note. La forza della scrittura di Paolo Tordi risiede proprio in una musicalità che attraverso le parole trasmette i sentimenti più diversi, sa giostrare con maestria nei vari registri del setticlavio: sa avere il timbro del basso e gli acuti del tenore, la seta del soprano e la gravità del baritono. Tordi è però unico compositore e interprete ed è qui la sua unicità. Ogni suo personaggio ha personalità autonoma e mai banale siano essi protagonisti di molte pagine, come il capo della Mobile Ognibene ne “La quartina di Stevenson”, siano fugaci ma assai profondi come “Zabaione, Giovanni all’anagrafe” protagonista dell’omonimo amarissimo ma verissimo racconto su una chimera chiamata giustizia.
Hanno tutti umanità da vendere, con i loro difetti profondi e le loro inaspettate virtù. Con la loro capacità anche di commuoverci
pur avendo lo spazio che normalmente in un libro occupa una comparsa. Come mamma Carmela di “Radio Londra” che non accetta e non si rassegna alla morte del figlio e che trova sulla sua strada un maresciallo che scolpisce queste parole: “Il funerale deve essere fatto, per poter dormire in santa pace”. E in questo odioso ossimoro c’è tutta la grandezza di Paolo Tordi, che con una pennellata riesce a entrare nei meandri della nostra coscienza.
Tutto inizia però con il racconto che da’ il titolo al libro, “La quartina di Stevenson”, e l’omicidio di “Biagio Chiafò, direttore di banca, presidente del circolo Lions e vicepresidente della locale squadra di calcio. Di anni cinquantanove, coniugato con tre figli, originario di Siracusa, da lungo tempo considerato uno del luogo…”. Uno stranissimo omicidio (“Ma come gli è venuto in testa al dottor Biagio Chiafò di morire ammazzato l’antivigilia di Ferragosto?”) nel quale si addenseranno ben 742 lettere anonime in una trama davvero ben congegnata. Tordi ci prenderà per mano tra le pieghe di questo giallo e da consumato narratore ci sorprenderà con colpi di scena fino all’inevitabile sorpresa legata all’identità del colpevole.
Ma, ripeto, esaurita la piacevole cavalcata del racconto iniziale il libro si compone come una collana di perle. Sono 29 in totale e, a pensarci bene, possono bastare per diverse settimane. Perché, una volta ammirate, queste perle di racconti vanno messe una per una nella teca dei sentimenti, in quello scrigno inviolabile dove Paolo Tordi ha ben diritto di cittadinanza.
La quartina di Stevenson
Capitolo I
Il sole cuoce la pelle alle lucertole. Giallo, dilatato, immobile, a picco sulle teste degli sventurati che sono costretti a muoversi per la città. I passi sono strascicati. Chi vaga addirittura con le infradito, chi con i bermuda. I lavoratori di concetto, i fighetti e i muratori indossano scarpe senza calzini. Insomma, tempo da solleone, che ricorda i vecchi telegiornali in bianco e nero quando per far contento il giornalista, c’era chi cuoceva due uova sull’asfalto bollente.
Fontane non si vedono. Qualcuno entra nei bar a prendersi una Coca Cola ghiacciata.
“Anche una fetta di limone, per favore.”
Dopo qualche attimo d’indicibile benessere, la bocca si addolcisce, sembra d’aver succhiato una caramella e allora nuovamente la sete è più robusta di prima.
“Meglio una birra, che fesso sono stato!”
L’acqua è scartata in partenza, troppo facile pensarci e troppo a buon mercato.
Il cielo è pulito come un’autovettura appena comprata. Chi deve attraversare la strada lo fa con maggiore circospezione perché sa che col solleone gli automobilisti impazziscono più del consueto. Il caldo che dà alla testa non è solo un modo di dire. Altrimenti a cosa sono serviti i secoli andati se non avessero trasmesso almeno un po’ di saggezza popolare, parente stretta dell’osservazione?
Un paio d’ore dopo quel sole assassino e quel cielo chiaro e luminoso sono coperti, quasi di colpo, da dense nuvole, nere come la pece. Da dove sono arrivate se nessuno se n’è accorto? Forse stavano accovacciate dietro la collina lontana, pronte a esaudire tutte le suppliche che si erano levate da più parti.
“Ti prego, non se ne può più, mandaci un po’ di frescura!”
Una, due, dieci gocce e poi, un diluvio. Come non se ne vedeva dai tempi di Noè, quello vero, non quello curiosamente animalista e forse vegano visto al cinema. Tuoni che squassano le orecchie e terrorizzano cani e gatti. Dal cielo arriva tanta acqua che in pochi minuti tutte le fogne sono intasate e fiumi scorrono ai lati delle strade. Chi le deve attraversare lo fa a piedi nudi e si avventura correndo verso il primo posto riparato. Doccia gratis per tutti. Improvvisamente ci si mette anche il vento a peggiorare una situazione già critica. Chi sta in casa corre a chiudere le finestre. Chi ha il tetto malandato, vede già le prime macchie che si formano sul soffitto. Chi aveva invocato una temperatura più umana, si morde la lingua.
“La prossima volta userò la temperanza del nonno. Mai eccedere con le richieste. Potrebbero esaudirsi.”
Interrogativi s’intrecciano qua e là.
“Perché le fogne dopo cinque minuti di pioggia non raccolgono più l’acqua?”
“Oggi piove di più e con maggiore intensità. È dal 1812 che non avveniva un’alluvione estiva del genere. I tempi sono cambiati, s’è rivoltato il mondo.”
“Per me è più semplice. Avete mai visto fare la manutenzione del sistema fognario? I soldi si spendono per apparire belli e nessuno mette più le mani nella merda.”
“Queste sono provocazioni politiche. L’amministrazione comunale è incolpevole!”
“Ma che c’entra la politica, qui ci rimettiamo tutti. È inutile parlare, tanto il colpevole non si troverà mai. Mio padre in circostanze come questa canticchiava una canzone: La colpa non è mia, è colpa del bajon…”
In mezz’ora di tempesta la cittadina è in ginocchio: auto impantanate, rami spezzati in mezzo alla strada, cartacce e fango ovunque. Poi, di colpo, quelle maledette nuvole e quella maledettissima pioggia che hanno fatto abbassare la temperatura di dieci gradi, vanno a rintanarsi chissà dove.
È il tredici di agosto, giorno inimmaginabile per una bufera del genere. Alle tre del pomeriggio il cielo torna pulito e limpido, il sole dopo qualche minuto riprende a scottare come prima che quella tempesta cambiasse i connotati alla città. L’acqua si asciuga rapidamente sotto una temperatura ‘percepita’ che supera i quaranta gradi. Tutto è appiccicoso, l’umidità si spande senza rispetto per i reumatismi.
Le poche persone che a quell’ora devono spostarsi all’aperto lo fanno con circospezione. I commenti di tutti sono gli stessi.
“A memoria d’uomo non si era mai vista una bufera del genere.”
“Ma quali mezze stagioni, qui siamo in pieno clima tropicale.”
“È vero, l’inverno arriva di colpo anche da noi.”
“Ma chi lo dice, due anni fa ci furono giornate autunnali splendide. Ricordi? Ne parlammo a lungo.”
“E la primavera allora? Tu l’hai più vista?”
“Quest’anno l’abbiamo avuta, eppure lunga.”
Insomma, un bailamme di contraddizioni. Tanto si sa, finita l’agricoltura e i contadini, quelli veri, quelli che per esperienza e necessità sapevano interpretare il mutare dei venti, l’avvicinarsi della tempesta e l’arrivo della primavera dalla migrazione delle prime rondini oggi cacciatesi chissà dove, ci si affida a colonnelli televisivi e a modelli matematici che spesso falliscono perché il tempo se ne infischia della matematica non avendola studiata. Le previsioni veramente attendibili valgono, se il vento capriccioso non cambia direzione, per un paio di giorni. Pressappoco quanto occorsero all’esercito Alleato per capire se il maltempo che imperversava sulla Manica avrebbe consentito alla più grande invasione via mare della storia di sbarcare senza danni in Normandia nel 1944. E da allora sono passati decenni.
Il sole sta ancora lassù e picchia di brutto come prima della tempesta, forse di più. Restano in terra rami spezzati, foglie, cartacce e fango. Ci sarà da lavorare per lustrare la città l’indomani mattina. Intanto persone in giro se ne vedono pochine. È rimasto odore di muffa che non dovrebbe tardare a dissolversi.
Si vede a colpo d’occhio che il sole non sta più a perpendicolo, ormai è pomeriggio pieno e le ombre si sono staccate dal corpo di appartenenza. Chi ancora non è fuggito dalla città ed è costretto a rimanerci per lavoro, per stravaganza o per mancanza di soldi, cammina per rendersi conto con i propri occhi dell’accaduto, prima di leggere l’indomani apocalittiche descrizioni sulla stampa locale.
L’operatore televisivo, strumento in spalla, guarda con insistenza un ramo spezzato vicino al marciapiede. Gli gira intorno, mentre il giornalista dà disposizione di spostare quel ramo e metterlo tra le cartacce e il fango, alcuni metri più in là.
“Ahó, ma pesa.”
“Allora sposta la carta, tanto il fango sta qui e là.”
“Tutto a me tocca fa’.”
“Ma se sei venuto per predisporre la scena.”
La preparazione dura alcuni minuti. Anche una vecchia scarpa da tennis, trovata vicino al secchione per le immondizie, vien portata nei pressi. Tutto è pronto. Finalmente il giornalista, con lo sguardo angosciato inizia.
“Ecco uno dei luoghi della devastazione. Questo ramo spezzato ormai ridotto natura morta, portato dalla bufera lontano dal proprio albero; questa scarpa appartenuta forse a un ragazzo che la starà cercando chissà dove; tutto riposa immoto tra cartacce e fango…”
Quando il sole cessa di disegnare chiaroscuri e prima dell’imbrunire, la cittadina si rianima. Anche chi non ha voglia di uscire di casa, lo fa per essere partecipe di un evento inconsueto. Si guarda, si commenta, si gironzola.
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