Prima parte / ESTATE
1. Provaci, Tom
Estate 1991 – Compiti delle vacanze
Tema: La mia storia
Mi chiamo Tom, ho dieci anni e ho appena finito la quarta elementare. Sono alto per la mia età, sono forte e so correre veloce. Ho la pelle scura, non tantissimo però. Ho gli occhi neri e anche i capelli neri molto ricci. La mia mamma si chiama Adaora. La sua pelle è molto scura e anche i suoi capelli sono molto neri. Viene dalla Nigeria, arrivò in Italia a 15 anni. Quando aveva 17 anni nacqui io.
Fin qui era tutto abbastanza facile; il tema però si preannunciava lungo e in certi punti piuttosto complicato. Se Tom avesse potuto scegliere, avrebbe preferito svolgere alcuni dei temi assegnati al resto della classe: più generici, meno personali. Ma la maestra aveva insistito.
– Provaci, Tom. Racconta per iscritto la tua storia: così, quando arriverai nella nuova scuola, potrai farla leggere alla nuova maestra e lei imparerà subito ad apprezzarti.
Tom rifletté per qualche minuto, poi riprese a scrivere.
Quando ero piccolissimo vivevamo in un centro di accoglienza qui in Sicilia, vicino al mare. Spesso andavamo in spiaggia e giocavamo con la sabbia, i sassi e i legnetti. Al centro vivevano tante persone: c’erano mamme con i loro bambini, ma anche bambini senza mamma e mamme senza bambini. Ogni tanto c’era anche qualche papà, con bambini o senza. Io non ho mai conosciuto il mio papà. Eppure sono nato lo stesso, e mamma dice sempre che l’ho resa felice.
Tom si sentì soddisfatto: era riuscito a mettere subito le cose in chiaro. Lui non era un bambino di serie B, nato per sbaglio nel grembo di un’adolescente di colore ferita dalla vita. Lui era un bambino in gamba, che aveva reso felice la donna più bella del mondo.
Mamma faceva dei lavori e andava anche a scuola. Tutti dicevano che era bravissima, dopo pochi anni sapeva parlare, leggere e scrivere come una ragazza italiana. Io andavo alla materna, ero nella classe degli azzurri. Mi piaceva molto perché le maestre erano sempre gentili con me. I miei migliori amici erano tre bambini simpaticissimi. Insieme combinavamo un sacco di guai, finivamo sempre in castigo ma ci divertivamo un mondo. Avevo anche un’amica femmina, si chiamava Fatima. Le nostre mamme erano un po’ diverse dalle altre: la mia era nera, la sua portava un velo sulla testa. Nel cortile della scuola c’erano scivoli, altalene e un castello per arrampicarsi. Ricordo anche l’aula degli azzurri, con tutti i nostri disegni appesi alle pareti.
Erano stati anni abbastanza sereni per Tom, nonostante la precarietà della vita nel centro di accoglienza. In realtà il bambino percepiva che sua madre non si sentiva mai completamente tranquilla, mai completamente a proprio agio nella vita. Eppure nel rapporto con il figlio era sempre riuscita a domare la propria ansia: “Voglio proteggere il mio bambino – ripeteva a se stessa – Voglio proteggerlo da tutto, anche dalla mia paura”.
La scuola mi piaceva. Ogni tanto però mi capitava di bisticciare, specialmente con alcuni. Allora quando tornavo al centro mi sentivo tristissimo. Mamma mi diceva: “Vieni sotto il velo Tom”. Il velo è grande e dorato. Io e mamma ci sedevamo per terra in un angolo, e poi lei stendeva il velo sopra le nostre teste, coprendoci tutti e due. Lì sotto era come stare in una capanna. Io ero piccolo e pensavo che quando eravamo lì sotto nessuno potesse vederci o sentirci. Così raccontavo tutto a mamma e lei mi consolava.
Quei momenti sotto il velo erano ogni volta un balsamo per le ferite di entrambi. Davvero madre e figlio avevano la sensazione di isolarsi da tutto e gustavano la reciproca presenza. Quello era il luogo della loro consolazione, della loro complicità. La luce passando attraverso il velo diventava dorata; anche quando la giornata era grigia, lì sotto pareva di essere dentro a un tramonto imperdibile.
Rimanemmo al centro di accoglienza per un po’, poi però giunse il momento di partire, perché non si poteva rimanere al centro troppo a lungo. Ero triste di andar via…
L’ultimo giorno di scuola le maestre organizzarono un piccolo spettacolo per salutare Tom. Fatima lo abbracciò stretto.
– Allah ti protegga.
– Il Signore ti benedica – rispose Tom con una frase che la mamma gli ripeteva spesso.
Non la rivide mai più.
E così arrivammo alla casa-famiglia di Trapani, dove mi trovo adesso. Qui cominciai la scuola elementare e la maestra m’insegnò un sacco di cose. Diceva che ero un ragazzino sveglio, perché imparavo in fretta e facevo molte domande.
Mentre io ero a scuola, la mamma andava a lavorare in una cooperativa. In certi periodi lavorava al pomeriggio invece che al mattino, perché faceva i turni. In altri periodi non aveva lavoro e allora aiutava in casa.
L’affetto e la stima dell’insegnante erano stati molto importanti per il piccolo Tom: l’avevano aiutato a sentirsi accolto e ad acquisire fiducia in se stesso. Ecco perché adesso non poteva rifiutarsi di svolgere quel tema: se la maestra glielo aveva assegnato, di sicuro era la cosa giusta per lui.
Vivere nella casa-famiglia è più bello che vivere al centro, perché c’è meno confusione. Ci sono otto mamme con i loro bambini, e poi c’è nonna Rosa. Nonna Rosa non è proprio una nonna, è una signora che organizza le cose e guarda i bambini quando le mamme sono a lavorare. A organizzare le cose è bravissima! Guai se non ci fosse lei! Se ne intende anche di documenti, carte, permessi di soggiorno e altre cose complicate. Anche a guardare i bambini è bravissima, riesce a volere bene a tutti senza fare preferenze per nessuno. Ogni tanto la facciamo arrabbiare, e allora ci insegue col cucchiaio di legno per picchiarci, ma noi scappiamo e andiamo a nasconderci sotto i letti. Nonna Rosa non riesce mai ad acchiapparci, perché siamo più veloci e più furbi di lei.
Nel momento stesso in cui scriveva queste frasi, Tom sapeva che erano una piccola bugia. In realtà nonna Rosa avrebbe potuto acchiapparli in qualsiasi momento, se avesse davvero voluto; ma si limitava a spaventarli con minacce terribili, cercando di dissimulare sotto il finto cipiglio l’affiorare di un sorriso affettuoso.
Nonna Rosa è bravissima anche a preparare torte. Dice che i dolci non vanno mangiati tutti i giorni, perché se ci si abitua poi non si apprezzano più. Bisogna mangiarli solo quando c’è qualcosa da festeggiare. Però siccome nella casa-famiglia viviamo in tanti, c’è sempre qualche compleanno o onomastico o festa d’addio per cui preparare una torta.
La festa d’addio si fa quando qualche mamma riesce a trovare una sistemazione, e allora se ne va via dalla casa- famiglia con il suo bambino, e inizia una nuova vita in una casa tutta sua, con un lavoro sicuro. Nonna Rosa dice sempre che le feste d’addio sono i momenti più belli, perché significano che la casa-famiglia ha portato frutto. Però c’è anche un po’ di tristezza, perché chi va via di solito non torna più, casomai telefona a Natale o a Pasqua. Presto ci sarà la festa d’addio per noi. Nonna Rosa è riuscita a trovare un lavoro per mamma in una piccola città che si chiama Cassanico: è molto lontana da Trapani, per arrivarci bisogna viaggiare un giorno e una notte, cambiando treno quattro o cinque volte. Però mi hanno detto che è una città molto bella, con tanto verde intorno. Mamma è rimasta là quindici giorni in prova, ed è stata assunta. Adesso è tornata a prendermi, partiremo insieme fra pochi giorni. Vivremo in un alloggetto tutto per noi due. Finalmente! Lei lavorerà nientepopodimeno che nella casa del sindaco, io farò la quinta in una nuova scuola. Potremo sistemarci a meraviglia e vivere lì noi due insieme per tutta la vita.
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