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Giro d’Italia (a pedali) con i grandi scrittori del Novecento

di Emiliano Gucci

«Fu mio padre a solcare per primo in bicicletta le strade di Firenze. Mio padre è un pioniere». E Curzio Malaparte è uno che le spara grosse. Sempre. Ma che penna, che stile. «Quand’ero piccolo, gli exploit di Gerbi, di Petit-Breton, di Ganna non mi lasciavano dormire: quegli eroi del ciclismo erano i miei Achille, i miei Ettore, i miei Aiace. La prima epopea della bicicletta fu la mia Iliade. Quando la stagione delle corse ciclistiche ricominciava, nel periodo in cui fiorivano i giardini, il grano si indorava e le vigne si vestivano di pampini verdi, la domenica andavo a piazzarmi ai bordi delle strade, mescolandomi alla folla che attendeva il passaggio dei “centauri” (…). Era l’inizio del secolo» ed era già il Giro d’Italia, l’epica del ciclismo modello Belpaese: un uomo sul suo destriero d’acciaio, sulle sue ruote sottili, potenza di gambe cuore testa e polmoni per una strada polverosa che chissà dove terminava, ore di attesa sotto il sole o la pioggia per vederlo passare e soffrire, incitarlo, toccarlo, sudare insieme a lui anche un attimo solamente: «La folla era in delirio. Tutti gridavano, si abbracciavano, si davano pugni alla bocca dello stomaco».

Non c’era la televisione e inizialmente neppure la radio (il primo arrivo in diretta è quello del 1932): c’era l’arte della parola e del racconto e c’era l’Italia così sterminata e ignota e variegata di posti, paesaggi, di facce insolite che neanche si potevano immaginare e venivano evocate dalla parola scritta, dagli articoli sui giornali. Li rileggi oggi che non sai più dare un’indicazione stradale né descrivere un bosco (ti attacchi a GoogleMaps, mandi fotine su WhatsApp) e dici toh, vedi un po’ le cronache sportive, hai capito la maestria, la letteratura al servizio della quotidianità.

«Ci volle la guerra del 1914 per farmi cadere dalla bicicletta. Mi rialzai nelle trincee della Champagne, e quando, nel novembre del 1918, noi sopravvissuti tornammo a casa con il viso scavato e gli occhi colmi della vaga tristezza dei soldati vittoriosi, trovammo ad accoglierci in anticamera un timido bagliore di acciaio arrugginito, simile al lampo di felicità e di pudore che fa arrossire il volto di una ragazza. Era il sorriso della nostra bicicletta, il primo amore della nostra generazione».

L’anno successivo nasce Fausto Coppi: sarà professionista soltanto dal 1939, il suo inesauribile duello con Gino Bartali (e va citato l’immenso terzo uomo, il pratese Fiorenzo Magni) segnerà l’apice del ciclismo italico nonché della letteratura in materia, lo sport abbatterà i suoi steccati e sarà fenomeno assoluto, ammaliando massa e salotti. Ma Achille Campanile scriverà il suo romanzo ciclistico assai prima, vedi Battista al Giro d’Italia — Intermezzo giornalistico (edizione Treves-Treccani-Tumminelli anno 1932, adesso pubblicato da Otto/Novecento), dove raccoglie e riedita i pezzi scritti per La Gazzetta del Popolo.

Si inventa un aiutante/servitore battezzato per l’appunto Battista, al fianco del quale correrà (si fa per dire) il proprio Giro e potrà essere, fino all’ultima virgola, l’ironico dissacrante Campanile che abbiamo conosciuto altrove: «Battista mi porge le mutandine e le gomme di scorta. Egli è già in tenuta di ciclista. Non son riuscito a convincerlo di adottare le mutandine corte». Campanile annaspa pedalando con gli ultimi, li racconta e li esalta (assai prima che venga inventata la mitica maglia nera), si sgancia dalla cronaca, vaga, schernisce, colora, se la prende soprattutto coi colleghi: «Gli altri giornalisti dormono ancora. Vergogna! Essi seguiranno in automobili il Giro. Dovrebbero prendere esempio da me (…). Ce n’è perfino uno, un francese, che viaggia con un grosso baule. Quando ieri sera l’ho visto, ho pensato, nel primo momento, che ci fosse dentro una donna tagliata a pezzi. Ma poi ho saputo che il collega d’oltre Alpe cambia un vestito ogni cinque o sei ore, dal cappello alle scarpe».

Scrive Alberto Brambilla ne La coda del drago (Ediciclo), ottimo strumento per indagare la letteratura al Giro d’Italia, che Campanile «dimostra di conoscere bene le regole e le tecniche giornalistiche (…) ma si diverte a incrinarle, se non a rovesciarle (…); se ne frega di tutto, va per la sua strada, corrodendo dall’interno la grammatica e la sintassi giornalistica».

Al fianco di Gino Bartali si riaccenderà il già citato Malaparte: «Amo molto Bartali. Non solo perché siamo nati tutti e due nella patria di Dante Alighieri, di Petrarca, di Michelangelo, di Botticelli» (tutti questi brani, come i successivi, sono tratti da un piccolo, magnifico libro intitolato Coppi e Bartali, edito da Adelphi); «Bartali possiede la fede ingenua e profonda dei toreri spagnoli. Ogni volta, prima di sfidare il toro, si inginocchia e prega: ogni volta, dopo aver ucciso la tappa, si inginocchia e prega per ringraziare Dio di avergli concesso la vittoria contro la strada, contro il cronometro o contro il toro Coppi». Con Bartali non si scherzava su fede e religione; figlio del popolo, della tradizione, per Gino la fortuna si chiamava Provvidenza, e Curzio con certe solennità ci va a nozze: «Bartali è un uomo nel senso antico, classico e anche metafisico della parola. È un asceta che in ogni istante mortifica e dimentica il corpo, un mistico che confida soltanto nel proprio spirito e nello Spirito Santo. Gino sa che, se il motore della Provvidenza perde anche un solo colpo, per lui può arrivare la disfatta (…). Fausto Coppi, invece, è un meccanico. Crede solo al motore che gli è stato affidato, vale a dire al suo corpo.»

Si infiamma il duello che appassiona e divide, che crea un’icona, un genere a se stante. Prendi il 1947, la seconda edizione della corsa rosa dopo la seconda guerra, coi due che se le danno di santa ragione pedalando «tra macerie e strade rattoppate, tra scheletri di palazzi un tempo eleganti, ma ora feriti, ansimanti, comatosi»; Vasco Pratolini fu inviato del Nuovo Corriere (c’era questo, di valore aggiunto: che i quotidiani mandavano gli scrittori veri, a seguire il Giro, non soltanto le abili penne di settore), raccontò con sguardo disilluso la sfida su ruote che creava eroi, riaccendeva lumi nel Paese devastato. Tradendo un carattere fin troppo italiano: «Non vi aspettate nulla di nuovo fino alle Dolomiti, questi sono gli ordini di squadra. Ci saranno fughe e scaramucce, vincerà Conte, Bertocchi o Leoni, vinceranno Malabrocca, Pugnaloni o Ausenda le prossime tappe, se alle squadre maggiori farà giuoco un arrivo isolato dei cacciavite. Una rete di compromessi, di accordi, di parole date e rispettate.»

Giovanni Battistuzzi, autore di Girodiruota (Stampa Alternativa), ha scritto sulle colonne de Il Foglio: «Una critica al vetriolo», quella di Pratolini, «un realismo duro, puro, spietato, apprezzato dal giornale e dai lettori, ma mal visto dai giornalisti di professione, dai “docenti del ciclismo”, a tal punto da nominarlo reporter sgradito», il che gli costò l’invito al galà finale.

Vinse Coppi, Pratolini in poche righe (adesso in Cronache dal Giro d’Italia, edizioni Otto/Novecento) tratteggia il suo ritratto bartaliano: «È un re pieno di giudizio, progressivo, come può esserlo un re amato dal suo popolo. Invece di soffocare nel sangue le rivoluzioni, fa in modo di inserirsi nelle file dei ribelli, finisce con capeggiare lui le rivolte, e rafforzare il trono».

Lo stesso anno, per conto de L’Unità, sulle strade del Giro c’è anche il salernitano Alfonso Gatto (da qualche parte si legge che con Pratolini ha diviso, in certi casi, pure la macchina); lo sguardo del poeta si mantiene elegante, narrativo, a tratti politico, e sembra cogliere il valore dello sport in una nuova accezione: «Mai forse nella vita avremo tanti uomini, tante donne, tanti bambini a fare ala al nostro passaggio, noi che non siamo capi di Stato o di governo, generali o cardinali, noi che non siamo rispettati o temuti ma invidiati per la nostra stessa felicità di correre dietro a un sogno». E sembra proprio scoprire la bicicletta, il Gatto comunista, primo a ironizzare sul fatto di non saperci andare: «Perfino i ragazzi all’arrivo mi aspettano per indicarmi: faccio finta di non sentire, ma le loro parole mi restano nell’orecchio e mi fanno arrossire anche quando dormo.» Fausto Coppi in persona si propone di insegnargli: «Si è messo in posizione reggendo la bicicletta. Mi sono issato in sella con molto sforzo e balbettando scuse incomprensibili. “Pedali forte, guardi davanti a sé”. Le solite parole che dicono tutti».

La lezione non andrà così bene, se non per le mirabolanti righe che ne seguiranno (negli archivi de L’Unità e in un introvabile volume del 1983, edizioni Il Catalogo; non risultano pubblicazioni più recenti): «Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. Coppi da lontano scuoteva la testa, con le mani puntate sui fianchi»; e ancora: «Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare».

Passano due anni, è la volta di un altro grandissimo. «Era il 1949, ero un ragazzo e “tenevo” per Bartali pur ammirando Fausto Coppi, ed ero un buon lettore, di cose giornalistiche soprattutto. Quando il Corriere della Sera inviò al seguito del Giro Dino Buzzati, fui preso da felice meraviglia e bastarono i primi articoli per accorgermi che qualcosa di tipicamente buzzatiano stava nascendo.» (Claudio Marabini nella prefazione a Dino Buzzati al Giro d’Italia, Mondadori).

Lo scrittore bellunese segna e disegna appunti sul taccuino, al termine della tappa detta i pezzi per telefono, in testa ha già il progetto di un corpo unico: i corridori come un plotone militare dietro cui opera lo stato maggiore di ufficiali e sottoufficiali per strategie e tattiche quotidiane, le Dolomiti quali nemico assoluto che si erge all’orizzonte. E nell’appassionarsi alle sorti di gregari e campioni, la gara gli riserva il grande colpo da romanzo: «Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo — e Coppi era già passato da un pezzo (…) — allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille». Ancora il mito, come in Malaparte. «È troppo solenne e glorioso il paragone? Ma a cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita?».

Coppi è giovane, è il presente e il futuro prossimo, Bartali è vecchio, o meglio «Intatto è il cuore formidabile, perfettamente in ordine l’apparato muscolare, lo spirito è saldo come nei tempi della fortuna. Ma il tempo ha lavorato dentro di lui, inavvertito, ha toccato appena appena i meravigliosi visceri, una cosa da niente, né medici, né strumenti registrano alcunché di mutato. Eppure l’uomo non è più lo stesso». Che materia, che poesia, quanta classe, quanta magia. E non si finirebbe mai di dire, rileggere, citare.

Anna Maria Ortese fu la prima donna inviata sulle strade del Giro, grazie al settimanale Epoca. E quindi Giovanni Testori, Goffredo Parise, Roberto Roversi («Gino sembrava un tedesco, Fausto un gatto»), Manlio Cancogni (da Fiumetto si fece 130 chilometri sui pedali per andare a vedere il grande Torino che giocava all’Ardenza di Livorno), in quanti hanno scritto di bicicletta, per non dire di quei giornalisti/scrittori o scrittori/giornalisti come Indro Montanelli, Gianni Brera, Mario Fossati…

I ciclisti ridisegnano il mondo pedalando ed ammaliano le penne più colte, le menti più raffinate. «Sono pellegrini in cammino verso una città lontanissima che non raggiungeranno mai» scriveva Buzzati. «Sono dei cavalieri erranti che partono a una guerra senza terre da conquistare (…). Sono dei pazzi. Perché potrebbero fare la stessa strada senza fatica e invece faticano da bestie (…). E sono pure dei monaci: di una speciale confraternita che ha le sue dure leggi», non tutte cristalline, non sempre condivisibili eppure così affascinanti, così magnetiche.

«Ma adesso la favola è finita. I cavalieri erranti, i pellegrini, i pazzi, i monaci sono rientrati nelle loro case: uomini qualunque tra le mamme, le mogli e i bimbi; liberi, e un poco tristi».

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