Lei si considera uno dei massimi scrittori ebrei viventi?
La cosa mi irrita enormemente. Preferirei essere giudicato uno dei più importanti scrittori americani viventi.
Dopo aver combattuto per decenni contro l’establishment ebraico americano, lei è sensibilissimo a quest’argomento. Ma è lei stesso a virare continuamente il discorso verso il tema, controverso, della sua «ebraicità».
Le distinzioni etniche oggi vengono rispolverate per opportunismo. Ogni etnia oggetto di studio e che ha fondi nelle facoltà universitarie promuove la propria tribù. E così hai la «letteratura nera», la «letteratura ispanica» e la «letteratura delle donne». Ciò è assurdo. Come assurdo è definire Don DeLillo «uno scrittore italo-americano», John Updike un «autore cristiano-americano» o Saul Bellow uno «scrittore ebreo-americano».
Lei è stato accusato di di aver ripudiato le proprie radici.
Le mie radici sono americane. Il Paese ha solo 226 anni ma la mia famiglia vi ci abita da 112. Bellow, Mailer, Malamud, Doctorow e io non siamo affatto emigranti e non aspiriamo a essere altro che scrittori americani. Non perché siamo «assimilazionisti» ma perché in America siamo nati, cresciuti, invecchiati. Parliamo tutti l’ inglese-americano. Da bambino riuscivo a leggere un ebraico elementare, quando a 13 anni ho dovuto fare il Bar Mitzvah. Da allora non ho più messo piede in una sinagoga.
Come è stato il Suo contatto con Saul Bellow?
Saul è, con Faulkner, il più grande scrittore americano del XX secolo. Ma è anche un carissimo amico. Per questo ho sempre odiato vederlo invecchiare. Il più importante libro scritto negli Stati Uniti nella seconda metà del XX secolo è il suo Le avventure di Augie March: ha cambiato la letteratura americana, non quella ebrea-americana, che non esiste.
La letteratura ebreo-americana non esiste?
C’è la letteratura israeliana, scritta in ebraico e quella Yiddish, nel vecchio idioma mitteleuropeo. Ma la lingua degli Stati Uniti è quella delle colonie britanniche, del vecchio impero britannico e di Shakespeare. Io parlo, penso, maledico e sogno in quella lingua, non ho alcun legame con la religione e sono istintivamente anticlericale. E, soprattutto, ritengo che la letteratura negli Usa sia sempre stata regionale, mai etnica.
Che cosa intende dire?
Quando iniziai a leggere, a 16 anni, ero bramoso di conoscere il resto dell’ America. Visto che ero un ragazzino del New Jersey e ignoravo come si viveva nel Mid West, comprai i libri di Sherwood Anderson, Theodore Dreiser e Sinclair Lewis. Il luogo più esotico e remoto del mondo per me allora era Chicago. Intuii subito che il regionalismo costituisce le fondamenta della nostra letteratura e che tutte le altre distinzioni – di razza, ceto, religione – sono riconducibili a quella matrice.
In una intervista al Corriere della Sera, Saul Bellow si è detto preoccupato dell’antisemitismo che imperversa nel mondo.
Secondo me il razzismo in America non tocca gli ebrei. L’antisemitismo oggi viene dal mondo islamico, le cui allucinazioni sono ben note. La sua nozione che dietro agli attacchi terroristici dell’ 11 settembre ci sia il Mossad è comica all’ennesima potenza.
È preoccupato dal crescente anti-americanismo di chi, anche in Europa, attacca la cultura di McDonald’s?
Criticare McDonald’s è idiozia pura. McDonald’s è un caffè per i poveri, gli anziani e i soli e come tale assolve a una ammirevole funzione sociale. È pulito, economico, accogliente e ben illuminato. Ha le migliori patatine fritte del mondo e ti permette di usare le toilette – ben più candeggiate di quelle in Europa – senza ordinare nulla. Io ci vado spessissimo. È anche il mio caffè. Un luogo umano in un mondo disumano. A chi ha un minimo di curiosità, McDonald’s offre poi una vera galleria d’ America: neri, bianchi, verdi, gialli, rossi e viola, il mondo che ti sfila davanti.
Sembra un po’ arrabbiato con gli europei.
A volte sono così infantili. Come bambini di cinque anni, convinti che la Torre Eiffel sia la Francia e che in Italia tutti parlino agitando le mani per aria. Cliché di gente ignorante, pregiudizi di un continente dove anche la gente colta spesso non capisce niente dell’America ed è convinta che sia come nei film. Intendiamoci: io non penso affatto che l’America sia immune da critiche e, ai tempi della guerra in Vietnam anch’io scesi in piazza, scrissi lettere di protesta ai giornali, eccetera. Però sono felice che il mio amico Vaclav Havel abbia una visione più complessa del “mostro americano”. Che, non dimentichiamolo, ha prodotto la più solida letteratura al mondo durante la fine del Novecento.
A quali autori in particolare si riferisce?
Saul Bellow, Don DeLillo, Updike, Doctorow, Ozick, Styron, Mailer, Denis Johnson, Joyce Carol Oates e Toni Morrison, tanto per citarne alcuni. È meraviglioso avere rivali di quel calibro che ti costringono a essere onesto, a non abbassare mai la guardia e a dare sempre il meglio di te.
Perché l’America è oggi così prolifica di scrittori?
Perché è un posto straordinario in cui vivere. Grazie alla “ricchezza della mistura”, per citare Augie March. E alla nostra libertà politica, ideologica, personale e religiosa. La libertà dalle tue origini, se le vuoi rinnegare. La libertà dalla pubblica opinione, se la vuoi gettare a mare. In nessun altra parte del mondo gli scrittori godono delle libertà che abbiamo noi dal 1776, l’anno della dichiarazione d Indipendenza. Per questo descrivere l’America o uno dei suoi scrittori con uno slogan di due parole è un passatempo che lascio agli idioti.
Che ricordi ha del periodo trascorso in Italia?
Ho vissuto in Italia un anno, nel ’59. Avevo vinto una borsa di studio della Fondazione Guggenheim e quando mi chiesero dove volevo andare scelsi l’Italia. Da bambino ero terrorizzato da Mussolini e la sua figura ha accompagnato nel sottofondo tutta la mia infanzia. Più tardi ero rimasto stregato dai film del neorealismo e da scrittori come Moravia, Silone, Svevo, Calvino, Carlo Levi, Pavese e, più tardi, Primo Levi, un amico il cui suicidio mi ha addolorato immensamente. Vivevo a Roma, in Via Giulia. Un bel giorno i soldi finirono e dovetti rientrare. Peccato. Mi sarebbe davvero piaciuto restare qualche altro anno. Chissà che cosa sarebbe stato della mia vita in Italia.
* AdVersuS è una rivista pubblicata dal Centro di ricerca semiotica (CRS) dell’Istituto italo-argentino di ricerca sociale (IIRS) con il patrocinio dell’Istituto italiano di ricerca sociale di Roma e del Institut Européen de Recherche Sociale di Bruxelles.
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