«Mo guarda, è rimasto normale! È sempre normale!». Non mi sento legittimato a riferire chi e in quale occasione ha espresso questo giudizio su Tommaso Labranca (1962-2016), uno scrittore e studioso che rivendicava una normalità che però sembrava mostrarsi impossibilitata a essere incarnata da lui. Ma la persona e l’occasione, persino, davano senso a quel giudizio inverosimile, proprio in forza dell’eccezionalità e della normalità di Tommaso.
Tommaso Labranca è morto all’improvviso, di notte, da solo, il 29 agosto del 2016. Da un paio di giorni accusava malesseri che a lui erano parsi passeggeri e invece erano i sintomi di una severa crisi cardiocircolatoria. Molti conoscevano solo vagamente il suo nome; per altri è stato uno dei principali intellettuali italiani, a partire da metà degli anni Novanta, quando propose ad Alberto Castelvecchi (allora editore attentissimo alla cultura dei nati negli anni Sessanta) testi che poi andarono a formare un libro dal fantastico titolo di Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (1994). L’anno successivo lo stesso editore pubblicò Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (1995), che si chiudeva con una celebre lettera aperta in cui Labranca provava a spiegare a Roberto Calasso chi fosse mai Rosario Fiorello (all’epoca eroe del karaoke e del simil-rap da Giosue Carducci).
Tommaso ha poi fatto molte, molte altre cose; molte altre non le ha fatte. Sulla sua biografia, bibliografia e curriculum in genere, nei giorni dopo la scomparsa, la Rete ha trasmesso molte opinioni, alla cui risolutezza polemica non sempre corrispondeva una conoscenza puntuale dei fatti. Ma succede sempre così; tanto più inevitabilmente è successo sul caso di Tommaso, che non era certo persona accomodante e scevra da controversie. Dopo un libro per Stile Libero (vediamo se per una volta riesco a mettere le H giuste: Chaltron Hescon, Einaudi, 1998), i suoi titoli si sono diradati e per l’editoria maggiore non ha più scritto altro che biografie (anche in forma di instant book) su personaggi come Orietta Berti, Renato Zero, Michael Jackson, Freddie Mercury, Pietro Taricone, i Coldplay… Il resto lo ha pubblicato con editori minori o lo ha autoprodotto, persino artigianalmente, e non si tratta di testi minori. Tornato all’editore Castelvecchi, fece uscire di lì il suo libro più struggente e rappresentativo e, almeno secondo me, non certo il più facile: Il piccolo isolazionista (2006).
Per la tv, esordì come autore e personaggio con Anima mia, varietà di grande successo di RaiDue (non ne è stato l’ideatore, come pure è stato detto: ma certamente dal momento in cui entrò nel progetto ne ha costituito da solo una nuova anima, dandogli fondamenti teorici che senza di lui non sarebbero stati quelli); collaborò ancora con Fabio Fazio sino al 2001, e poi fu autore e personaggio in programmi di reti minori e maggiori sino a non molti anni fa, sia in televisione sia in radio.
Ora qui non voglio tracciare un profilo di Tommaso, compito per cui al momento non avrei le competenze né le condizioni di spirito adeguate. Mi limito a segnalare che con la nuova direzione di Linus affidata a Pietro Galeotti (già coautore di Anima mia e, per più di trent’anni, di tutti gli altri programmi di Fabio Fazio) Tommaso aveva intrapreso una collaborazione che l’infarto fatale ha interrotto al primo numero (quello in edicola in questo inizio di settembre 2016 in cui scrivo).
Nei giorni della scomparsa di Tommaso si sono letti molto riferimenti alla sua intransigenza e anche al suo carattere; amici dolenti lo hanno definito un «rompicoglioni» con cui era impossibile non litigare, che perciò è stato messo ai margini. Equivocando uno dei primi obituaries, il sito repubblica.it ha addirittura dato notizia di un suo trasferimento corrucciato in Canton Ticino (dove Tommaso in effetti aveva attività e dove aveva fondato una rivista svizzero-italiana, Tipografia Helvetica, mantenendo però ostinatamente la sua residenza a Pantigliate, MI, sulla Paullese).
Quello che oggi, e da questo disgraziato 29 agosto, voglio fare è chiedermi perché. Nello specifico: perché qualcuno che è stato chiamato genio, principale intellettuale dell’ultimo ventennio, grandissimo e finissimo interprete della cultura di massa e di anni disgraziatissimi (quelli dei fallimenti di tutte le opzioni di qualche forza, nella politica sociale e culturale del Paese), perché non ha trovato le adeguate amplificazioni per la sua voce? Come è andata?
Si può provare a rispondere a questa domanda sopra una base aneddotica: ognuno di coloro che hanno avuto modo di parlarne con Labranca conosce storie di emarginazione, sino al limite del mobbing, da lui subita, e ognuno ne ha valutato per sé l’attendibilità. Ci sono poi l’argomento del «carattere» e quello dell’«intransigenza», intersecati fra loro. Personalmente, non penso che Tommaso scrivesse cose ineccepibili: aveva il piglio del critico anche se vestiva volentieri gli abiti del teorico (il più delle volte in modo intenzionalmente parodico). Non mi pare che abbia mai rivalutato qualcosa che avesse disprezzato in passato ma, certo, molte volte ha fatto la mossa contraria. Era un critico: stava sull’onda, aveva un istinto immediato per ciò che andava e ciò che non andava e i suoi testi spesso sembrano spiegazioni che lui offriva a sé stesso a proposito di un’intuizione critica che aveva avuto. La sua avversione per Goffredo Fofi pareva più di merito che di metodo: l’ambizione fofiana di indicare cosa seguire, e cosa non, era anche di Labranca, certo in tutt’altra direzione. Ma non avendo, neppure minimamente, un sistema di potere, un interesse personale, una convinzione e una propensione a creare una scuola vera e propria, Tommaso si concedeva il lusso di cambiare idea, di rovesciare i suoi stessi apoftegmi, senza alcuna preoccupazione di rimanere solo, ma anzi dichiarando ostinatamente e incrollabilmente di provarne la relativa voluttà.
Tutto questo, e ho già scritto tantissimo, per arrivare al punto che più mi preme. Io insegno semiotica all’università, una materia molto deprecata (pure da Tommaso, peraltro). Lavorando con gli strumenti che la semiotica ha messo in campo a partire dai primi anni Sessanta per l’analisi di comunicazione e significazione ci si rende conto facilmente di come mai le comunicazioni di massa non la considerino minimamente. Morto Umberto Eco, poi, in Italia la materia rischia di essere ancora più svalutata di quanto non sia, dal punto di vista accademico. Eppure siamo tutti convinti di vivere nell’era della comunicazione, e non abbiamo certo a torto.
Tommaso non era un semiologo o, per dirla meglio, non era un semiologo accademico; aveva però un’attenzione maniacale ai segni, ai linguaggi, ai dettagli (aveva oltretutto un diploma di interprete simultaneo e si manteneva traducendo manuali tecnici, con grande scrupolo e perizia, per quel che ne ho potuto intuire). Conosco molti dei motivi esteriori per cui quella di Tommaso Labranca non è stata considerata una firma spendibile per i mass-media italiani, che pure a volte l’hanno sperimentata. Ma la domanda che mi faccio è se i mass-media possano davvero sopportare un livello di critica che non è quella dello snobismo di chi non guarda Maria De Filippi ma se ne schifa a priori, né quella della malizia di chi la attacca perché vuole avere da lei un contratto di consulenza. Io temo (e temo che tale timore non sia ingiustificato) che il famoso «carattere» e la famosa «intransigenza» di Tommaso (oltre a portarlo a commettere sgarbi veramente esecrabili verso persone che non lo meritavano) abbiano mascherato qualcosa di molto più profondo e inscalfibile: l’incompatibilità fra la società dello spettacolo e ogni critica che la investa alle radici, con competenza, capacità espressiva, lavoro dall’interno.
Un amico che non sapeva altro di Tommaso mi ha scritto oggi a proposito dell’analisi di Prospettiva Nevskij (in Chaltron Hescon, cit.), dicendo che mancava di «consapevolezza» o «metaconsapevolezza», e che poteva essere «messa analiticamente in ridicolo». È vero: la lettura della canzone era molto divertente ma non mostrava di capire che il testo di Battiato era volontariamente, e quindi non cialtronescamente, un aggregato di luoghi comuni. Al mio amico ho solo risposto che Battiato era allora all’apice della sua apparenza e della sua postura da guru, e questa per Tommaso era già una ragione sufficiente.
Tommaso poteva infatti attaccare qualcuno solo sulla base delle pose di costui, e sbagliando anche di grosso. Amava Orietta Berti anziché Battiato (quello amato da quasi tutti) e Tenco, anche se le sue capacità analitiche avrebbero certamente trovato qualcosa più che tracce di emulazione fallita nella sua amica Orietta. Questo succedeva perché i sensori di Tommaso oscillavano ampiamente fra normalità e eccezionalità, a seconda di quanto l’una e l’altra fossero esibite, in certi contesti, in certe circostanze. Ma al di là di sbalzi d’umore, oscillazioni critiche, antipatie e simpatie, complessi d’Edipo o d’altro stampo, il problema, secondo me, rimane: quanto le comunicazioni di massa sopportano una critica davvero radicale? Perché le rubriche di critica culturale sono scomparse dai giornali, sostituite da opinioni favorevoli o sfavorevoli, in entrambi i casi di origine sospetta? Perché la semiotica è una disciplina reietta e le facoltà di scienze della comunicazione sono considerate come feccia accademica in una società che di comunicazione invece vive? Mediocrità degli addetti? O esiste qualche ragione un poco più strutturale?
Io non penso che Tommaso oggi avrebbe potuto scrivere davvero su un giornale eminente o occupare una cattedra universitaria: non avrebbe potuto perché (penso che) non l’avrebbe voluto e perché il panorama attuale dell’industria culturale italiana non sarebbe stato in grado di raggiungere un accordo reciprocamente proficuo con la sua genialità. Avrebbe lui stesso dovuto imparare tanto, in termini di metodo, rigore, deontologia e non so se si sarebbe ben disposto all’evenienza. Ma l’ostacolo maggiore non era certo costituito dal suo essere un «rompicoglioni» o un «intransigente»: università, giornali, tv traboccano di esemplari di entrambe le categorie. Non sono però altrettanto competenti né altrettanto disinteressati.
Tommaso Labranca ha così dovuto e/o preferito vivere di istinti, di scrittura, di sbalzi d’umore e di una marginalità difesa come un tratto identitario; delle risate che suscitavano certe sue fantastiche invenzioni e della solitudine insondabile da cui le generava. È andata così: è stato un grande peccato per tutti noi; è stato un peccato enorme, capitale, imperdonabile per lui.
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