L’autrice Ersi Sotiropoulos è già nota in Italia. Negli anni Novanta fu pubblicato da Theoria il racconto Tre giorni festivi a Ghiànnina, Donzelli pubblicò Mexico, ormai entrambi introvabili. Del 2012 è Il sentiero nascosto delle arance, pubblicato da Newton Compton. Oggi l’autrice greca – è nata a Patrasso ma vive da anni ad Atene – pubblica in italiano l’intenso volume Cosa resta della notte (Nottetempo, nella bella traduzione di Andrea Di Gregorio).
Un romanzo ambizioso e in un certo senso sperimentale.
Racconta i tre febbrili giorni che il poeta Kostantinos Kavafis trascorre a Parigi nella primavera del 1897. Una Parigi dove infuriano le polemiche per l’Affaire Dreyfus. L’ambizione del libro è quella di analizzare l’anima di uno dei maggiori poeti del Novecento nella sintesi di questi soli tre giorni.
Kavafis non era poeta di mestiere. Lavorava negli uffici dell’amministrazione dell’irrigazione di Alessandria in Egitto, allora protettorato britannico. Destino condiviso con altri grandi poeti del secolo scorso, e basti il riferimento all’impiegato Pessoa. Proveniva da una ricchissima famiglia di mercanti di Costantinopoli, molto decaduta con la morte del padre. Cresciuto tra Londra e Liverpool (dove la famiglia teneva filiali di commercio) Kavafis era tornato giovanissimo ad Alessandria, dove rimase praticamente per tutta al vita. Città odiata e amata, Alessandria era allora un centro economico e culturale di grande importanza (descritta magnificamente, tra l’altro, anche nella Tetralogia di Alessandria da Lawrence Durrell), ma era una città marginale rispetto al grande centro europeo che era, a fine Ottocento, la Ville Lumière.
L’autrice ci conduce nell’anima del grande poeta attraverso le inquietudini del provinciale a contatto con la metropoli tentacolare, con le sue attrattive e sordidezze. E sono tre giorni in cui si dispiegano tutti gli stati d’animo del poeta: la grande incertezza per la propria arte, la sua sensualità concitata, il suo ambiguo rapporto con la famiglia decaduta (il viaggio lo fa in compagnia del fratello John, anch’egli aspirante poeta) e con la madre (la Cicciona, nel libro).
Ma ci sono, soprattutto, i dubbi ossessivi per la qualità della propria arte. Kavafis non ebbe una grande successo durante la vita. La sua opera fu pubblicata integralmente soltanto alcuni anni dopo la morte del poeta. E la riscoperta fu merito di autori stranieri, britannici soprattutto: E.M. Forster, Arnold J. Toynbee, Thomas Stearns Eliot. Durante la vita, invece, Konstantinos Kavafis stampava le sue poesie una ad una e le distribuiva agli amici e a chi fosse interessato.
L’aspetto più affascinante del libro è non solo la capacità di condensare in quei tre giorni tutta la problematica di un giovane poeta provinciale in cerca di conferme umane e artistiche, ma è il metodo che l’autrice propone.
In tutte le pagine aleggia la poetica di Kavafis. L’autore greco era un uomo coltissimo, un virtuoso della parola, un perfezionista, e nel romanzo si ritrova la ricerca del poeta per il tono giusto, la parola corretta, l’estenuante lavoro sulle sue poesie.
Poesie storiche, filosofiche, quelle di Kavafis, nelle quali però domina una raffinata ricerca del carattere morale, della psicologia individuale, dell’incertezza della vita.
Una poetica intrisa di nostalgia esistenziale, sensualità esasperata con evidenti riferimenti alla propria omosessualità, che egli – borghesissimo rampollo dell’alta società – definisce come amori illeciti ma che sa descrivere con una perizia e una dolcezza ineguagliabile.
Nel romanzo, che si svolge durante un viaggio, vi sono richiami espliciti alla poesia Itaca
Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Ma a dominare davvero, e massicciamente, il romanzo – ne è citata la sua estenuante genesi – è la poesia La città
Dicesti: «Andrò in un’altra terra, su un altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
In questo marasma quanto durerà la mente?
Ovunque giro l’occhio, ovunque guardo
vedo le nere macerie della mia vita, qui
dove tanti anni ho trascorso, distrutto e rovinato».
Non troverai nuove terre, non troverai altri mari.
Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade
girerai. Negli stessi quartieri invecchierai;
e in queste stesse case imbiancherai.
Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non sperare –
non c’è nave per te, non c’è altra via.
Come hai distrutto la tua vita qui
in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta.
Dopo aver finito il libro viene voglia di leggere – o rileggere – le poesie di Kavafis.
Soprattutto la sua più bella e attuale. Chissà se l’aveva letta Dino Buzzati prima di scrivere Il deserto dei tartari.
Di certo, in tempi come questi che stiamo vivendo, farebbe bene a ognuno di noi, a partire da chi ci governa.
Aspettando i barbari.
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
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