Per molti Reinhold Messner è il «duro» che sfida se stesso e la natura, l’uomo che «va ai limiti», il «lupo solitario» che vaga per le più grandi lande montuose e desertiche della Terra. Da altri, invece, è considerato «egocentrico», «svitato», se non addirittura insopportabile per la sua smania di protagonismo.
Ben più interessante però è solo quando ogni etichetta viene tolta, veli e maschere cadono, mostrando una persona per quella che è al di là di ogni cliché.
In queste conversazioni con Michael Albus, un esploratore dei confini del mondo e dei confini dell’anima fa un bilancio della sua vita, dei suoi successi, ma anche dei suoi dubbi e delle sue sconfitte; parla di alpinismo, di politica, del mondo contemporaneo, della sua famiglia, della sua terra, di religione.
Un pensiero critico, ponderato, onesto.
PREMESSA di Michael Albus
Nell’epoca dei mass media quelle persone che diventano «oggetto» di notizia per ciò che pensano, dicono o fanno, sono presto anche classificate in qualche definizione.
Reinhold Messner, ad esempio, è il «duro» che sfida se stesso e la natura, l’uomo che «va ai limiti estremi», il «lupo solitario» che vaga per le più grandi lande montuose e desertiche della Terra. Da altri, invece, è considerato «egocentrico», «folle», se non addirittura insopportabile per la sua smania di protagonismo.
Ben più interessante però è solo quando ogni etichetta viene tolta, veli e maschere cadono, mostrando una persona per quella che è al di là di ogni cliché.
Nel 1996 avevo provato a delineare un profilo di Reinhold Messner nel corso di una lunga conversazione avuta con lui a Castel Juval, il suo maniero collocato su un’altura della Val Venosta. Ne era emerso un uomo dalle innumerevoli e affascinanti qualità, che in un mondo sempre più filtrato dalla tecnica ed alimentato da «esperienze» vissute direttamente da altri, osa ancora correre qualche rischio in prima persona. Un uomo con le sue contraddizioni, che si mostra vulnerabile, addirittura fragile, aperto al nuovo e che non s’accontenta mai dei risultati raggiunti. Un uomo che vuole compiere un’azione plasmatrice, perché all’informe che non lo soddisfa deve dare una forma.
Ebbene nel 2016, a vent’anni di distanza, ecco una integrazione a quella prima conversazione. Nuovi interessi e progetti sono sopraggiunti nel corso di questi due decenni. Come potrebbe essere altrimenti nel caso di una persona così viva e aperta a ogni nuova esperienza qual è Reinhold Messner?
La seconda parte della conversazione affronta vecchie e nuove questioni: inaugura nuovi pensieri ed apre nuove prospettive, approfondendo però anche quelle «vecchie» questioni che vent’anni fa erano all’ordine del giorno.
Presto esaurita la prima tiratura di questa edizione ampliata, alla presente riedizione ho aggiunto in accordo con Reinhold Messner alcuni testi integrativi che per gli argomenti affrontati potevano essere utili a chiarire questioni affrontate in quelle conversazioni oltre che aspetti della sua persona.
Il risultato non cambia: i confini dell’anima non troverai. E se tutto scorre, si trasforma, si amplia, allora resta anche fragile.
TRA TERRA E CIELO
Reinhold, riflettendo sulle tue radici, interrogandoti sulle tue origini, come le descriveresti?
Le mie origini sono semplici. Sono cresciuto in una stretta e profonda valle delle Dolomiti. Nella mia primissima infanzia non ho avuto contatti col mondo della chiesa o ambienti d’altro genere, neanche della scuola – me ne stavo nel mio fondovalle, andando a giocare nei boschi quando non gironzolavo tra gabbie di conigli o mi mettevo a guardare le nuvole. Questi ricordi d’infanzia sono legati ai miei genitori, alla famiglia che diventava sempre più grande, alla ristrettezza, agli animali e al bosco. A cinque o sei anni io e i miei fratelli siamo usciti da questo «ombelico» della casa e famiglia, facendo conoscenza di tutto quello che c’era nel raggio di venti chilometri: fiumi, boschi, cespugli, animali del bosco e alpeggi. Delle montagne non ci eravamo ancora fatti un’idea precisa perché erano troppo grandi, semplicemente troppo irreali, ma avevamo però già imparato i nomi delle singole vette. Questa è stata la mia infanzia.
Solo più tardi ci sono stati condizionamenti esterni: scuola, chiesa, parroco e maestro, quest’ultimo nella figura di mio padre, oltre ovviamente poi anche di altri insegnanti. Ma tutto ciò che seguì non mi segnò in maniera altrettanto profonda quanto quei primi sei anni della mia vita. Un’infanzia senza scuole materne, senza un istituto dove raccogliere i bambini. Eravamo un’orda che giocava in giro per il paese. Rimango perplesso nel vedere i nostri figli starsene chiusi in casa – non solo i miei, anche quelli degli altri, tutti questi figli del benessere con televisione e computer. Noi alla loro età, appena possibile, andavamo fuori a scorrazzare e invadevamo il paese. Eravamo una banda, nel senso positivo oltre che negativo della parola. Quella vita di gruppo mi ha segnato profondamente. A Merano abbiamo un enorme giardino, però i miei figli non ci vanno a scorrazzare.
Hai parlato di ristrettezza. Puoi dire in che modo la avvertivi, di che si trattava?
Questa ristrettezza era una mancanza di spazio: molte emozioni in uno spazio ristretto e poco posto per l’io. Non mi riferisco allora alle modeste condizioni economiche della mia famiglia. Oltre a insegnare alle elementari mio padre aveva messo su anche un allevamento di piccoli animali da cortile, soprattutto polli. Dall’allevare conigli, nonché conigli d’angora che mia madre tosava per venderne la lana, passò ad una vera e propria azienda avicola con tanto di incubatrici e allevamento delle nidiate di polli.
La mancanza di spazio ci risultava angusta anche perché quei polli erano ovunque nel giardino di una piccola casa, dove in un’ottantina di metri quadrati dovevamo farci stare undici, quando non anche dodici persone. Col tempo, naturalmente, i più grandi di noi cominciarono a passare almeno metà dell’anno alle scuole superiori e dunque fuori casa: a Bressanone, Bolzano, Merano, perché solo in città di tali dimensioni c’erano scuole superiori. Nei mesi estivi, però, ci ritrovavamo tutti a casa.
Ricordo ancora bene che da ragazzi dormivamo anche in sei in una stanza, che era una camera più piccola di quella che oggi hanno i miei bambini. Questa angustia, che offriva anche calore e protezione, era all’epoca qualcosa di abituale, naturale. I figli dei contadini avevano a disposizione più spazio di noi, figli d’un maestro elementare, soprattutto avevano anche le stalle, tutto il maso. Noi vivevamo in una tipica abitazione urbana, in centro del paese. Eppure i figli dei contadini ci invidiavano per la nostra «casa dagli interni eleganti». Io al contrario invidiavo loro. Se oggi desidero vivere in un ambiente rustico è forse per via di quella angustia, della voglia cioè che all’epoca avevo di una stube come quella delle case contadine. Nel mondo rurale ho sempre visto qualcosa di nobile. I bambini di città ci vedono l’esatto opposto.
In caso di maltempo stavamo a giocare nel corridoio di casa. Era lungo circa sei metri e largo un metro e mezzo o due. Quando si gioca in sei o sette in uno spazio così, la vita diventa dannatamente angusta.
È possibile che in questa esperienza della ristrettezza, soprattutto dell’angustia, si celi forse un motivo del tuo desiderio di uscire fuori, in spazi vasti e sconfinati?
Non lo escludo. È probabile che la mia indole nomade sia da ricondurre all’angustia del posto in cui sono nato. La valle – una valle a «V» incastonata giù tra le montagne – non offriva che due possibilità: rinchiudersi o uscire. La Val di Funes – coi suoi verdi prati in pendenza sovrastati da picchi rocciosi che s’innalzano al cielo e svettano oltre le nuvole, sotto un lembo d’azzurro largo cinque se non otto chilometri. Da bambini si arrivava a vedere solo un paio di case, prati e più in alto vedevamo le cime delle montagne come un’inferriata.
Un mondo chiuso.
E chiuso pure in se stesso. Ovviamente ce ne andavamo anche fuori. Presto o tardi. Prima a piedi, poi in bicicletta, quindi in motoretta e infine con la prima automobile, per starcene fuori da là. Fuori dalla valle! Al suo interno, però, si lasciava una società chiusa, di più: un mondo chiuso a livello spaziale, sociale e geografico.
Alla Val di Funes è rimasto circoscritto il mio mondo fino a dieci anni. Tutto il resto era ancora qualcosa di vago e lontano. Da ciò si può forse capire il mio desiderio di andare a vedere cosa ci fosse al di là di quelle vette e in seguito la ricerca di ampi spazi. Dal punto di vista geografico mi trovavo quindi molto limitato. Il desiderio di ambienti spaziosi, come quelli in cui abito oggi e in cui ho sempre abitato da quando mi sono messo a costruire anch’io, nasce sicuramente dall’angustia della casa in cui sono nato. Di per sé non pativo quell’angustia domestica, ma unita all’angustia geografica della valle si rese evidentemente ancora più stretta, a cui s’aggiungeva quella dell’ambiente sociale! Conservo un’impressione positiva delle persone rimaste là, a strettissimo contatto fra loro, aiutandosi a vicenda, cioè della comunità paesana. Ricordo di averne fatto parte. Ma c’era anche quella mancanza di dialogo, una inespressa incapacità di discutere davvero. In caso di reale necessità ci si aiutava, ma dei problemi non si parlava. Questa tacita soluzione dei conflitti era una sorta di legge del posto. Si chiacchierava tanto e si dialogava poco, cosa che mi fece sentir ancor più stretto quell’ambiente già angusto.
Ristrettezza, dunque, significa anche mancanza di dialogo.
Sì, è l’espressione giusta. Questa mancanza di dialogo si può riscontrare sempre e ovunque tra le genti di montagna. Essa è anche uno dei più grandi problemi che abbiamo in Alto Adige. Con ciò non intendo una nostra incapacità di esprimerci scrivendo libri, raccontando storie, dipingendo quadri, ma dell’incapacità di parlare in generale, di far uscire da noi a parole i nostri sentimenti, problemi, dubbi. È per questo che il parroco ricoprì una posizione di potere nel suo paese e che il giornale «Dolomiten» è ancora oggi il principale strumento di potere nella regione. Quando un parroco dal pulpito è il solo a parlare in paese, quando un giornale è la sola carta stampata ad entrare in casa, allora acquistano entrambi troppa influenza.
Un bravo pastore d’anime sa, talvolta per intuito, come arrivare alla gente e plasmare i loro cuori. Spesso però non è questo il caso e riuscirci col giornale è molto raro. Preti, maestri e giornalisti sono piuttosto cocciuti, come cocciuta è pure la gente.
Qualora ci riesca, il prete dice quello che la gente sente dentro sé ma non sa esprimere a parole.
Un prete che s’interessa dei problemi sociali oltre che di quelli spirituali è, a mio avviso, un bravo prete e ha ancora oggi una sua ragion d’essere, specie nei paesi. Lui sa esattamente quello che la gente non esprime a parole e così dà voce ai problemi che la maggioranza di loro non ha il coraggio di affrontare. Lo fa sapere agli altri oltre che ai diretti interessati senza riferirsi esplicitamente a qualcuno. Nella sua predica dal pulpito si rivolge a tutti senza additare nessuno in particolare e così ognuno può gettare un ponte dalla propria anima a quella dell’altro e scoprire così l’anima della comunità. Un intero paese trova così pace nel profondo della sua anima. Purtroppo preti del genere sono rari. In una parrocchia di paese assumono tacitamente il ruolo di psicoterapeuti. Svolgono un ruolo originariamente assolto dagli stregoni…
… i preti sono sempre stati psicoterapeuti…
… sì, ma oggi molti sono occupati a raccontare storie alle quali nemmeno loro credono.
Soffermiamoci ancora un po’ sull’angustia relativa alla tua infanzia e agli anni della tua adolescenza. Quand’è che hai cominciato a superare quella mancanza di spazio, cioè a sforzarti di uscirne fuori?
Quel momento è stato probabilmente decisivo per la mia vita. Fu l’istante in cui, uscito dal bosco, mi ritrovai sul prato della malga Casnago. Ho già descritto in varie occasioni quali sensazioni provai in quel momento, perché ne ero rimasto fortemente impressionato. A quelle sensazioni devo il mio essere diventato un «esploratore del limite»: dapprima come scalatore, rocciatore, poi come alpinista d’alta quota. Oggi sono un viandante dei ghiacci. Che cosa sarò domani non lo so ancora.
Bisogna immaginarsi quella scena: vivevo nella valle e vedevo in lontananza il gruppo delle Odle, che dal posto in cui mi trovavo apparivano in un formato da cartolina. Osservate dalla valle sembrano irreali, impossibili da quantificare in dimensioni. Noi bambini non sapevamo guardare col binocolo, perché non s’impara ad usarlo così presto. Per un bambino non è così semplice guardare col binocolo. Me ne accorgo oggi coi miei figli. Prima di sette anni non ci riescono. Non riescono a regolare le lenti e quindi ad inquadrare una montagna perché diventa troppo grande.
Così, con in mente quell’immagine delle montagne viste dalla valle, siamo partiti – io avevo cinque anni e mio fratello maggiore quasi sette – per salire fino ad un alpeggio a duemila metri di quota. Questo prato della malga Casnago è situato su un’altura, una collina ricoperta ormai solo da sparuti alberi e che digrada su ogni versante. Sullo sfondo, come una quinta scenografia, si staglia il gruppo delle Odle. Ebbene, al termine della faticosa salita, quando arrancando dietro i miei genitori lungo un piccolo sentiero attraverso il bosco, sono uscito dall’ombra dei cembri e mi trovai in quell’ampio pascolo ad alta quota, le vette delle Odle erano avvolte dalla luce del crepuscolo e apparivano così grandi e gigantesche come mai me le sarei potute immaginare. Comprendere tali dimensioni andava oltre ogni mia capacità immaginativa. Mi fermai, restando a bocca aperta dallo stupore. Fu una sensazione così sconvolgente che mi sentivo spaventato e felice allo stesso tempo. Fin lassù non si potrà mai salire, pensai. Quella vissuta fu una sorta di esperienza dell’infinito. L’infinito all’epoca mi era sconosciuto sia come concetto in generale che come nozione matematica. Ma quello era infinito. Un’infinità di cui mai più in seguito avrei fatto esperienza. Quando, più di venticinque anni dopo, mi trovai ai piedi dell’Everest, ebbi ben altra sensazione da quella vissuta allora ai piedi delle Odle: ne rimasi molto meno impressionato, perché ormai ero consapevole della sproporzione tra me e la montagna. Da bambino mi sentivo piccolo ai piedi di quelle enormi montagne. Poi venne anche il momento di salirci in cima. Nostro padre ci accompagnò e ci mostrò come fare. Ci dava il ritmo. Helmut ed io ci affidavamo alla sua guida. Da là sopra ho potuto vedere un mondo ancor più grande, non più così impressionante come l’infinità sperimentata ai loro piedi, ma che vastità! Vedevo catene di monti, poi un’altra catena di monti e dietro quella un’altra ancora. Da qualche parte, là in fondo, si profilava un ulteriore orizzonte: l’imperscrutabile. Sotto di noi c’era l’abisso, anch’esso impressionante, ma in modo diverso rispetto all’immagine offerta alla vista dal basso.
Quell’immagine dal basso delle montagne che si ergono altissime è rimasta fissa nella mia memoria. Il momento chiave della mia vita è perciò una sensazione legata all’immagine che ero riuscito a farmi certo coi miei occhi, ma da bambino qual ero riuscendoci solo facendo scorrere la testa in una lunga carrellata panoramica. Fu così che feci ingresso nel mondo in cui mi avventuro ancora oggi. A caratterizzare quel mondo più di ogni altra cosa è il fatto di essere – effettivamente oppure, come accade oggi, mentalmente – «esposti», cioè affacciati sulla pura infinità.
Ti è mai capitato di sognare quella scalata?
Non quella, però di essa conservo molti ricordi, tra cui la prima immagine offerta al mio sguardo dalle grandi montagne. Riesco ancora oggi a rivivere quelle sensazioni della scalata del Sass Rigais, nell’estate del 1949, quando avevo cinque anni. Mi ricordo ancora tutti gli alberi, rivedo esattamente i singoli massi di roccia. Sarei ancora oggi in grado di indicarli. Uno di quegli alberi è ancora là. Saranno ancora là anche le rocce? Negli ultimi decenni non sono più andato a controllare. Riesco pure a ricordarmi di alcune rupi sulla cresta di quella montagna, perché doverle aggirare non fu affatto facile. Guardare giù in quello strapiombo mi impressionò assai. Impressionato non fui invece dalla vista dell’alpeggio dall’alto. Visto dalla vetta il sentiero percorso fin lassù mi parve piuttosto breve. Il prato dell’alpeggio con la «nostra» baita sembrava in certo qual modo vicino, cioè non così a valle come m’era parso guardandolo da laggiù.
Raramente sogno di guardare giù da qualche vetta. Proprio in questo periodo, e spesso, sogno invece di attraversare vaste distese. Se negli ultimi dieci anni ho iniziato a sognare di scalare, da quando ho avuto il mio incidente sogno di camminare. Mi arrampico e cammino in sogno – e ciò in fondo mi basta. Non ho più bisogno di scalare davvero. Ed è interessante che quando sogno di scalare sperimenti un senso di libertà più intenso di quello vissuto quando scalavo nella realtà.
Così descritta, questa storia suona come una vecchia favola sull’ascesa dell’anima dal fondo degli abissi alla libertà nel periodo dell’infanzia e giovinezza e alla vastità di ampi spazi in età matura.
Nel periodo migliore delle mie imprese come scalatore, tra i diciotto e i venticinque anni, spesso alla vigilia delle spedizioni ero preso dall’angoscia. Avevo cioè difficoltà a prender sonno prima della partenza per grandi imprese. Ero a conoscenza di molte cose al riguardo e nella mia fantasia s’agitavano racconti angoscianti: gente che non era sopravvissuta, enormi difficoltà apparentemente insuperabili, pericolo di frane o di repentini abbassamenti della temperatura. Conoscevo quelle pareti rocciose solo per sentito dire: leggendo o ascoltando quanto raccontato da amici o altri scalatori che s’erano cimentati in quell’impresa. I migliori ce l’avevano fatta a stento, molti avevano fallito, alcuni erano addirittura morti. E adesso, prima di partire, tutte quelle possibilità – commettere errori, morire, non farcela – s’ingorgavano in un mare d’angoscia. Per questo ho spesso difficoltà a prender sonno. Oggi a volte sogno di scalare una parete, di arrampicarmi per folli passaggi, finché non precipito per volarmene semplicemente via. Quando non riesco a proseguire, allora filo via. Spicco il volo dalla parete come un uccello. «Ma non so volare!», dico risvegliandomi.
Sogni di volare?
Sì. Non all’età di diciotto o vent’anni, quando mi arrampicavo sulle rocce meglio di oggi. A quell’età facevo sogni opprimenti. Oggi non sento più il bisogno di uscire dalla valle e di salire fin sulle cime delle montagne circostanti. Sogno di trovarmi da qualche parte su una parete rocciosa e quando mi sveglio – a volte mi capita di svegliarmi durante uno di questi voli così inebrianti – provo addirittura il desiderio di continuare a volare. È una bella sensazione quella di volare, una delle più belle sensazioni che ci siano.
Posso ben capirlo. Noi da piccoli salivamo spesso su un’alta torre panoramica, là nella terra dove sono nato, nella Foresta Nera: nel corso degli anni si tornava regolarmente a contemplare da lassù il nostro paese natale e l’ambiente circostante. Ancora oggi sogno spesso di trovarmi lassù e muovendo le braccia nell’aria come ali d’uccello di librarmi sopra quella terra. Queste esperienze ci hanno segnato in maniera così profonda da riaffiorare facilmente in certi momenti o in determinate situazioni della vita.
Ma c’è un’altra cosa ancora che mi interessa: nella tua salita, cioè nella tua uscita dall’angustia, hai avuto accanto a te tuo padre. È stato il tuo accompagnatore, standoti a fianco nel tuo cammino. Sai dirmi chi era e che cosa ha rappresentato tuo padre per te?
Mio padre era un giovane di Funes, animato da uno spirito alquanto idealista. Oggi lo vedo così. Era andato alle scuole superiori con una sorta di obbligo a diventare prete. All’epoca un ragazzo intelligente di un paese di montagna andava alle superiori o al ginnasio solo se doveva diventare sacerdote. Così mio padre entrò in seminario. Sarebbe davvero diventato prete se la sua vita non avesse preso un’altra direzione? Non lo so. Comunque sia, proveniva da un ambiente ancor più angusto del mio. Suo nonno era un contadino di montagna relativamente benestante, che però aveva perso casa e campi per colpa del suo vizio di bere e forse anche per una certa dose di anarchia. Tirò avanti poi come pastore negli alpeggi e taglialegna, aiutato dai suoi due figli, ai quali non offrì così altro se non ulteriore angustia. Un’angustia anche mentale. Quei figli sono poi diventati piccoli coltivatori. Hanno entrambi lavorato duro per una vita intera, mettendo su una piccola fattoria, ma restarono fermi a una ristrettezza mentale oltre che lavorativa. Le ragazze della famiglia furono mandate a fare le domestiche nei masi di altri contadini. Solo i maschi rimasero col padre. Quella «stanga del Verginer» – così era chiamato – se ne stava per lo più rintanato da qualche parte da solo, come un mezzo anarchico diremo oggi. Conosco quel buco in cui viveva a Funes e provo ammirazione per questo mio bisnonno. Era alto quasi due metri e di lui si racconta che nei suoi «anni d’oro» alla domenica fosse capace di bere fino a dodici litri di vino. Si capisce allora perché finì per andarci di mezzo la fattoria. Ogni tanto sorrido ripensando alla sua vita. Quando passo davanti al maso Verginer, mi dico: «Per fortuna è successo quando non c’ero io». Forse alla fine sarei finito anch’io in quell’angustia. Non mi ricordo del bisnonno, ma mi ricordo bene del nonno, che da vecchio era una persona piuttosto quieta, tranquilla ed equilibrata.
Mio padre ebbe la sfortuna che questo mio nonno, cioè suo padre, fosse ritenuto responsabile di un incidente. Si era messo in un’attività legata al legname: andava a far legna nei boschi non di sua proprietà con altri cinque uomini. Questi aiutanti erano assunti ma non assicurati. Uno di loro ebbe un infortunio mortale. A causa di tale incidente vi furono gravi problemi economici a casa e mio padre fu tolto dal seminario. Gli mancava un anno al diploma di maturità, credo, e adesso doveva dare una mano in famiglia. Poi ci fu il periodo dell’Opzione. Poiché nella valle lui era uno dei pochi ad avere una certa istruzione, è stato del tutto ovvio che contribuisse come «altoatesino tedesco» ad organizzare il trasferimento degli optanti per la Germania di Hitler. Così nel periodo dell’Opzione lavorò come segretario all’Ufficio emigrazione di Bressanone.
Che cos’è il «periodo dell’Opzione»?
È stato per noi altoatesini un momento difficile, fu il periodo in cui a tutti gli altoatesini venne data – in seguito a un accordo tra Mussolini e Hitler – la possibilità di scegliere – di optare quindi, perciò si parla di «Opzione» – se trasferirsi nei territori del Terzo Reich o rimanere in Alto Adige. In altre parole: gli altoatesini dovevano lasciare la loro terra natia per ricevere una nuova «patria» altrove, oppure rimanere nella loro terra e subire quindi un processo di italianizzazione. Solo se tutti fossero rimasti ci sarebbe stata in teoria la speranza di conservare l’unità linguistica e territoriale dell’Alto Adige. Quasi il 90% degli altoatesini decise poi di trasferirsi nel Reich tedesco, cosa di cui Hitler naturalmente era lieto. Il compito di «organizzare» questa Opzione era stato assunto da Himmler, che con molta abilità aveva saputo trascinare l’«oppresso» popolo altoatesino dalla parte della Germania di Hitler. Nella nostra regione a fare la propaganda «migliore» erano stati i nazisti, decidendo così a proprio favore l’Opzione e a questo mio padre diede un suo contributo. Più tardi questo episodio e il silenzio che lo avvolgeva furono motivo di accese discussioni tra me e mio padre, giacché assai presto mi ero chiesto: «Perché mai in Alto Adige si parla ancora di “patria”, se all’epoca se ne andarono via quasi tutti?». Non capivo il perché. Mio padre è morto senza mai darmi una risposta vera e propria. Se non ci fosse stata mia madre, che coi suoi silenzi cercava di mediare tra noi fratelli e papà – «Non toccate quell’argomento, è un ricordo insopportabile per lui, anche se in fondo avete ragione» –, molto probabilmente ci sarebbero state infinite discussioni.
In memoria del cinquantesimo anniversario dell’Opzione ho pubblicato un libro con l’aiuto di amici – due storici di professione e altri specialisti – così da offrire un’opera di chiarimento su quella vicenda. Oggi capisco mio padre, non provo più alcun risentimento nei suoi confronti, però avrebbe dovuto fornire una spiegazione a noi figli. L’Opzione fa parte della sua storia, della sua biografia. Alla luce di quanto ne so oggi, posso capirlo. A livello emotivo fu evidentemente legato al Terzo Reich. Col suo idealismo giovanile è ovvio si prestasse facilmente al servizio di valori quali patria, difesa della civiltà tedesca e così via, cioè di quei valori cui tributò onore anche un Luis Trenker, prima pubblicamente, poi in silenzio.
Ritornato dal fronte, mio padre non riuscì mai a superare la delusione di aver perso una guerra oltre che anni della sua giovinezza e aver visto crollare i suoi ideali. Non ci riuscì neanche in tarda età. Rimase in fondo un soldato di prima linea, uno sconfitto incapace di ammettere gli errori celati dal sistema che lui aveva accettato con spirito alquanto idealista.
Se in seguito ho assunto un atteggiamento critico nei confronti dell’idealismo, è stato per via di tale esperienza. Purtroppo gli idealisti sono facili da far abboccare e quindi da tirar dentro in un sistema che col loro buon senso o dal profondo del loro cuore forse non volevano. Se avessi potuto aprire gli occhi a mio padre con la mia esperienza di oggi – all’epoca lui aveva ventitré anni – forse anziché un fiancheggiatore sarebbe diventato un rivoluzionario, come tutti i suoi figli, che sono più o meno dei ribelli. Io e i miei fratelli abbiamo sviluppato abbastanza presto una certa sensibilità nei confronti di questioni legate alla chiesa e alla politica all’interno della comunità del nostro paese e opponendoci a situazioni ingiuste nella valle. E nostro padre in talune occasioni ci ha pure aiutato. Col suo aiuto, ad esempio, abbiamo destituito un sindaco che gestiva ogni cosa prendendosi troppe libertà.
Se ho ben capito quello che dici, con tuo padre hai avuto allora nel complesso un rapporto piuttosto teso?
Sì e no. Mio padre non ha avuta una predilezione per me rispetto agli altri figli. Ha però incoraggiato questa mia vita energica e selvaggia, propensa a uscire, a scalare, a salire. Non ho mai ubbidito volentieri e nemmeno mi sono mai sottomesso per mia volontà. Ma neanche volevo comandare altri. Volevo solo vivere la mia vita. Questo impulso è stato incoraggiato da mio padre fino a quando non venni bocciato all’esame di maturità. Quando s’accorse che andavo a scuola con scarso interesse, preoccupato di vedermi prima o poi andare alla deriva in una carriera da «esploratore del limite», cominciò a mettermi un freno. Il mio sogno, però, era in realtà di fare quello che faccio oggi. Detto molto semplicemente: vivere grazie a tutte le mie capacità e garantirmi così la libertà di andare dove voglio – questo è il significato delle mie «avventure di frontiera», del mio spingermi ai limiti, dell’andare ad esplorare gli estremi confini. Oggi per definirmi non userei più la parola «avventuriero» e neanche mio obiettivo era quello di diventare «scalatore». Mio padre non riuscì però a fermarmi, perché ero ormai cresciuto e presto fui a livello economico superiore a lui e mi sentii anche sicuro di riuscirci. L’ultima volta che mio padre si schierò drasticamente contro di me fu quando acquistai Castel Juval. Non venne neanche mai a vederlo. Era fermamente convinto che nonostante la mia prosperità economica non sarei stato in grado di mantenerlo. Aveva troppa paura che mi ritrovassi senza il becco di un quattrino e della vergogna che ciò gli avrebbe procurato. Viveva completamente immerso nella sua comunità paesana, dove rispettabilità, vergogna e successo venivano celebrati come ai tempi dei primitivi. Negli ultimi anni – quando avevamo un buon rapporto, pur con frequenti scaramucce su ogni cosa, specie sulla politica – di continuo mi redarguiva dicendo: «Sii ragionevole, comportati bene almeno coi giornalisti e coi politici, altrimenti alla fine sarai tu sempre a rimetterci. Le cose potrebbero andarti così bene…». Mio padre non aveva compreso che ogni qual volta potevo – ne aspettavo solo l’occasione – ho sempre detto quello che pensavo. Questa mia opinione era spesso in contrasto con le idee dei politici locali o con la linea seguita dai media, che presto mi bollarono come «cane sciolto» della comunità altoatesina. Mio padre non aveva paura del mio «lavoro» di alpinista o di committente del restauro di Castel Juval. Aveva paura che la comunità paesana dicesse: «Un ragazzo del paese non può possedere e nemmeno mantenere un castello; questo non va bene».
Tra il 1970 e il 1985 – anno della sua morte – si recava spesso all’osteria del paese. Sul giornale leggeva dell’esito di una mia impresa. Al mio ritorno da un Ottomila, se c’ero riuscito, puntualmente esclamava: «Lo sapevo che ce l’avrebbe fatta, lo conosco io». Se invece avevo fallito, andava comunque nell’osteria del paese e diceva: «Glielo avevo detto, non andrà a finir bene…».
… Ti ha usato per il suo prestigio in paese…
… Esatto. Quando attraversai l’Antartide, era già morto. Quella spedizione però gli avrebbe fatto forse molto piacere. Nel corso di quel lungo viaggio erano trasmessi dai media ogni settimana aggiornamenti del tipo: «Impossibile. Messner fallirà. Sono troppo lenti». Allora mio padre avrebbe esclamato: «Gliel’avevo detto di non farlo, perché sa scalare, ma non fare cose del genere». E qualora ci fossi riuscito, avrebbe detto: «Eh già, ha la testa dura e gli andrà bene anche quando tutti diranno che non gli andrà bene».
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