Uomini e no (Elio Vittorini, Mondadori 2016)
Un consiglio di lettura al giorno dalla nostra rubrica "Affinità elettive"
Un vero libro da riscoprire: scritto da Vittorini in piena guerra civile, tra la primavera e l’autunno del 1944, racconta la lotta di un gruppo di partigiani contro l’occupazione nazifascista della città. I protagonisti sono ventenni, scaraventati nella tragedia a Milano nel 1944, ma capaci di preservare un candido stupore di fronte alla vita. Tra questi giovani combattenti, Enne 2 è tormentato da un duplice rovello: la ricerca di una vita autentica e un amore impossibile per una donna sposata, Berta che non riesce a lasciare per lui le comodità della vita che conduce. C’è tanto Sartre nell’introiezione, nella disperazione sociale ed esistenziale che lo spingeranno a un’ultima, suicida impresa di guerra.
Sembrerebbe un testo legato a storie di un passato ormai lontano e invece Vittorini qui è modernissimo: da una parte, anticipando Hannah Arendt e il tema della banalità del male, raffigura crudamente la vita quotidiana dei nazisti e dei loro lacchè repubblichini e nega che questi – benché disumani e corrotti dal Male – non siano uomini; dall’altra, senza alcuna retorica o epica militaresca, rappresenta le persone normali che a vario ruolo e modo si oppongono per ottenere la liberazione della propria vita. Sia per i giovani partigiani, sia per le persone comuni della Milano bombardata e distrutta, Liberazione significa ricerca della felicità. Tutti si pongono la domanda chiave: perché resistere? Che senso ha combattere se alla fine non c’è felicità?
Anche nello stile asciutto e scarno, Vittorini è un innovatore: inframezza i centotrentasei brevissimi capitoli con momenti in cui a parlare è l’autore: egli svela se stesso, i suoi obiettivi e sentimenti, e dialoga con i protagonisti della vicenda, rivelandone i pensieri più reconditi e realizzando i loro desideri; affronta la stessa situazione da diversi punti di vista, imponendo all’attenzione del lettore le molteplici realtà in cui l’uomo è condannato a vivere. Anche in questo triangolo che comprende autore, protagonisti e lettori, Vittorini anticipa di vent’anni il tema della ricezione del testo da parte del lettore; e pur non rinunciando alla trasmissione di valori e sentimenti a quest’ultimo non cade mai nel facile pedagogismo della retorica resistenziale.
Quella di Vittorini è una scrittura sperimentale che si esprime nel prevalere della forma di dialoghi secchi, domande e risposte ripetute, descrizioni essenziali. É quasi il brogliaccio per un’opera teatrale. Non è un caso che proprio quest’anno il Piccolo Teatro di Milano ha messo in scena una splendida drammaturgia, scritta da Michele Santeramo, tratta da questo testo. Anche questa un’occasione da non perdere: «Vittorini ci aiuta a riscoprire una sorta di meraviglia, nell’amore, nell’amicizia, nei rapporti umani, che apparteneva a un’epoca complessa come la prima metà del Novecento e oggi inesorabilmente perduta».