Viaggio nella vera Macondo
Aracataca è una cittadina di quarantamila anime situata fra il Nevado de Santa Marta, le paludi e le piantagioni di banane a nord della Colombia. Ma per i turisti che arrivano in pellegrinaggio è semplicemente Macondo. Gabriel García Márquez è nato qui, dove lo scrittore Alberto Salcedo Ramos è andato a cercare le tracce di Gabo e dell’immaginario che ha reso Cent’anni di solitudine uno dei romanzi più importanti mai scritti in lingua spagnola.
La Casa del Hielo, all’angolo del quartiere Boston, Aracataca, Colombia. Comincio la storia della vera Macondo esattamente dove inizia la storia della Macondo letteraria. Di tanto in tanto arrivano in paese viaggiatori provenienti da tutto il mondo, fan di Gabriel García Márquez che sperano di trovare qui, nella cittadina in cui è nato, elementi tangibili del suo universo letterario.
Quando i disoccupati del paese avvistano i forestieri per strada, capiscono che è ora di entrare in azione. Amici, Macondo sarà anche pura invenzione nelle pagine di Cent’anni di solitudine, ma qui ad Aracataca esiste, è una realtà autentica, loro la vedono tutti i giorni e la possono mostrare ai turisti che sono certi di trovarla al di là delle pagine della letteratura. È in questa casa all’angolo, per esempio, che il colonnello Aureliano Buendía vede per la prima volta il ghiaccio che avrebbe ricordato molti anni dopo, come ben sapete, di fronte al plotone d’esecuzione. Passami la macchina fotografica, se vuoi ti scatto una foto qui davanti con la tua fidanzata.
Se i turisti chiedono più dettagli, glieli raccontano. La casa di legno è stata costruita nel 1923. Nel patio venivano immagazzinati fino a duecento blocchi di ghiaccio alla settimana quando la United Fruit Company, multinazionale che all’epoca gestiva il commercio di banane, lavorava in questa regione. Per i vecchi abitanti di Aracataca, il ghiaccio rappresentò un progresso considerevole. Avevano appena scoperto un prodigio che gli permetteva di conservare gli alimenti e alleviare allo stesso tempo il caldo torrido.
Delle volte le guide occasionali aggiungono che per gran parte del secolo scorso il ghiaccio era considerato un simbolo di status. Hai presente, vecchio gringo, qualche cubetto per la limonata di mezzogiorno, qualche altro per l’aperitivo della sera. Un lusso che non era alla portata di tutti, solo dei ricchi di Aracataca e dei pezzi grossi dell’azienda di banane. I blocchi venivano trasportati da Ciénaga su un treno della United Fruit Company. Per evitare che si sciogliessero venivano coperti di segatura, visto che il legno è un isolante termico, e chi voleva una bibita ghiacciata doveva andare nel patio della Casa e prelevare un pezzo di ghiaccio.
«Be’, Mister, lo sai come vanno le cose qui con questo caldo».
Mentre la guida aspetta i turisti è molto probabile che spuntino dei ragazzini in infradito che si guadagnano da vivere vendendo borse e acqua fresca. L’anfitrione gli rivolgerà uno sguardo complice e un sorriso.
«Gli alti e bassi della vita: prima bere acqua fresca era carissimo e oggi è la cosa più economica del mondo. Solo trecento pesos, Mister. Oggi il ghiaccio è l’aria condizionata dei poveri».
La guida riprende il discorso esattamente da dove lo aveva lasciato prima della sua digressione. Si dice che negli anni Venti del Novecento i bambini adorassero i blocchi di ghiaccio perché c’erano conficcati dentro degli spuntoni che diventavano iridescenti quando venivano colpiti dai raggi del sole, e che una delle attività preferite dalle famiglie fosse entrare in questa casa e contemplarli. Gabito – qui lo chiamano quasi tutti così – da bambino era sicuramente andato molte volte a vedere il ghiaccio con suo nonno, il colonnello Nicolás Márquez. Con la sola differenza che nel romanzo è il colonnello Aureliano Buendía ad andare a conoscere il ghiaccio. Che imbrogliooooone quel Gabito!
Nella Macondo reale sono molte le persone convinte di conoscere a menadito ogni singolo dettaglio della Macondo letteraria. Parlano dei suoi personaggi come se fossero i loro vicini di casa e descrivono i suoi luoghi come se li avessero proprio davanti agli occhi. Me lo dice il poeta Rafael Darío Jiménez mentre entriamo nella Casa del Hielo.
Casa del Hielo? [Casa di Ghiaccio?]
Il nome è quantomeno ironico: varcando la soglia siamo investiti da una zaffata d’aria bollente. A terra c’è un groviglio di cavi elettrici e nella stanza si vedono carrozzerie smembrate di automobili.
«Ora è un’officina», dice Jiménez.
Sono molti i visitatori che cercano nella Macondo reale la risonanza poetica della Macondo letteraria. Eppure qui il ghiaccio non è una banchina fluttuante e luminosa che rimane intatta nella memoria ma una sostanza volgare che si scioglie fra le mani. Il poeta Jiménez mi racconta che alcuni visitatori sono un tantino insistenti, questo sì. Vogliono sapere, per esempio, quale donna del paese ha ispirato Petra Cotes, l’amante di Aureliano Secondo in Cent’anni di solitudine. E non manca mai qualcuno del posto pronto a rispondere astutamente alla domanda.
«Questa è Fulana, l’amata di Perencejo».
Le guide aggiungono poi che i loro genitori gli raccontavano che i loro nonni gli raccontavano che il Mauricio Babilonia del romanzo era un elettricista che quando passava davanti a casa dei Márquez Iguarán – i nonni di Gabito – si lasciava alle spalle uno sciame di farfalle gialle. È curioso, molti dei nativi di Aracataca non hanno mai letto il libro di García Marquez. Ma da anni continuano a sentir parlare dei suoi personaggi e delle loro storie, e sanno bene come sfruttare certi codici macondiani. Vedono la Macondo letteraria come un semplice riflesso della loro vita. Quindi, perché perdere tempo a cercarla nei romanzi quando possono vederla in ogni angolo della loro città?
«Volete sapere chi era quella Rebeca che mangiava la terra? Una signora chiamata Francisca che viveva in calle Monseñor Espejo».
Dico a Rafael Darío che anche io se fossi un locale poco istruito penserei di conoscere il più illustre dei miei conterranei senza sentire il bisogno di leggere i suoi libri. Alla fine sono anni che lo vedo sui giornali, ho sentito la sua voce nella voce di tutto il mondo. Se fossi uno degli abitanti del paese e chiudessi gli occhi quando vengono letti ad alta voce dei brani di Cent’anni di solitudine, avrei la sensazione di riconoscere nelle parole di Márquez i miei parenti più stretti, di essere trasportato in luoghi familiari. Ritroverei il catino dove la zia si lavava le mani e la zanzariera sotto alla quale si riparava lo zio. Ritroverei nella sua scrittura oggetti reali che nella realtà non esistono più: il letto pieghevole, il grammofono, il vaso da notte in peltro. Rincontrerei il gallo da combattimento del mio amico e supporrei che Remedios la bella è salita in cielo avvolta nei lenzuoli bianchi che la mia tata aveva lavato proprio quella mattina. Vedrei Úrsula Iguarán come la personificazione letteraria della mia bisnonna: orba e indistruttibile.
Capisco gli abitanti del paese che non considerano le storie di García Márquez trasposizioni poetiche della realtà ma semplici riproduzioni documentali degli avvenimenti quotidiani raccontati dai vicini.
«Capito, gringo? Chi l’ha detto che se l’è inventate Gabito quelle storie? Nelle interviste è lui stesso a dire che ha solo stenografato i fatti. È questa la verità, per la miseria».
I paesani di Gabito sanno solo che è un signore molto importante con certe ali enormi, nient’altro, sanno che è famoso, acclamato, divertente, distinto, ma molti di loro non lo vedono affatto come un favolista, come il creatore dell’universo letterario che l’ha reso famoso. Lo vedono come un semplice amanuense, un uomo che nei suoi libri ha saputo dare forma al patrimonio ereditato dai propri avi, un amico che ha ficcato in valigia tutte le loro storie e le ha fatte viaggiare fino all’angolo più remoto della terra.
In questo momento il poeta Rafael Darío Jiménez mi sta mostrando uno dei tanti ritagli di giornale che ha collezionato nella sua lunga carriera di studioso dell’opera di García Marquez. Da molti anni ha aperto ad Aracataca il ristorante Gabo, una specie di tempio in cui si recano i devoti dello scrittore. Lì possono praticare il culto e allo stesso tempo mangiarsi un buon filetto di dentice rosso con patacones. Ai muri sono appese copertine di riviste dedicate a Gabito, fotografie di Gabito, autografi di Gabito. Mentre ti siedi al bancone su uno degli sgabelli in pelle e aspetti che ti venga servito il pranzo, puoi ascoltare e lasciarti affascinare dall’oste, dalla sua tipica parlantina aggraziata dei Caraibi.
«La prima Macondo della storia è una pianta, un albero», dice. «È originario dell’Africa e cresce fino a trentacinque metri d’altezza».
«Come la bonga».
«Come la bonga. Nella zona delle piantagioni di banane c’era una finca che si è conservata fino ai giorni nostri. Si chiama Macondo proprio in onore a questi alberi».
«La finca allora è la seconda Macondo».
«Esatto. E la terza è quella di Gabito. Nelle sue memorie racconta che un giorno stava viaggiando in treno e a un certo punto ha visto la finca affianco ai binari. Lesse il cartello Macondo sulla facciata e rimase impressionato».
«Ovviamente anche la storia della finca è una parte del mito che molti conoscono».
«Gabito racconta che prima ancora della fine del viaggio sapeva che il villaggio di Cent’anni di solitudine si sarebbe chiamato Macondo».
«E quindi la terza Macondo».
«Sì, la terza. La prima e la seconda sono reali. La Macondo di Gabito è un mondo immaginario come la contea di Yoknapatawa creata da Faulkner».
Dico a Rafael Darío che all’inizio è stata la Macondo letteraria a nutrirsi della Macondo reale, ma poi la situazione si è ribaltata; la voce dello scrittore – irresistibile, contagiosa – ha imposto le sue regole alla realtà. Giusto per fare un esempio: in Colombia non si era redatto un registro dettagliato dei lavoratori massacrati durante lo sciopero dei raccoglitori di banane del 1928. Gabito ha scritto in Cent’anni di solitudine che furono tremila, e questo è il numero che è passato alla storia. Poi accadde che un senatore propose un minuto di silenzio in onore delle tremila vittime della strage.
Se nella nostra lontana capitale i senatori della Repubblica reinventano la realtà a partire dalla letteratura, a maggior ragione devono farlo gli abitanti di questa fervente Macondo reale dove è nato l’inganno. Visto che le cose stanno così, ne trarremo un’esotica conclusione: è possibile reinventare la quotidianità a partire da un’illusione. La realtà come immagine di sé stessa, l’immagine come nuova realtà.
Alla fine avvicino lo sguardo al ritaglio di giornale che mi passa Rafael Darío. Sorride, indica con l’indice destro un paragrafo scritto proprio da García Márquez. Lo leggo ad alta voce:
Ho sempre avuto grande rispetto per i lettori che cercano la realtà nascosta dietro ai miei libri. Ma rispetto ancora di più chi la trova, perché io non ci sono mai riuscito. Ad Aracataca, il paesino dei Caraibi dove sono nato, questa sembra essere un’attività quotidiana. Negli ultimi vent’anni è nata una generazione di ragazzini svegli che aspettano i cacciatori di miti già alla stazione dei treni per portarli a scoprire i luoghi, le cose, persino i personaggi dei miei romanzi: l’albero dove è stato legato il vecchio José Arcadio o il castagno sotto la cui ombra morì il colonnello Aureliano Buendía, o la tomba dove fu sepolta Úrsula Iguarán – forse viva – in una scatola da scarpe.
Sorrido e bevo un sorso della limonata strapiena di ghiaccio che mi ha appena servito la cameriera. Continuo a leggere.
Questi ragazzini, ovviamente, non hanno letto il mio romanzo e la loro conoscenza della Macondo mitologica non proviene dalle pagine che ho scritto, e i luoghi, le cose e le persone che mostrano ai turisti sono reali solo nella misura in cui i turisti sono disposti ad accettarlo. Intendo dire che dietro alla Macondo creata dalla finzione letteraria, si celano una Macondo ancor più immaginaria e mitologica, creata dai lettori e attestata dai ragazzini di Aracataca, e una terza Macondo visibile e palpabile, che è senza ombra di dubbio la più falsa di tutte. Per fortuna Macondo non è un luogo fisico ma uno stato d’animo che permette alle persone di vedere ciò che vogliono vedere, e come lo vogliono vedere.
Macondo te la porti dentro. Nell’anima, al di là delle pietre della Macondo reale, al di là della Macondo letteraria. Macondo è un mito che è asceso per sempre nell’alto dei cieli là dove può raggiungerla solo la memoria degli uccelli migratori.
Macondo è un’invenzione tanto del suo autore quanto dei suoi cultori. Detto questo: le licenze letterarie con cui si uccide sono le stesse di cui si muore. Nell’epigrafe di Vivere per raccontarla, la sua autobiografia, García Márquez dice: «La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». È questo, né più né meno, la massima che mette in pratica chi fa turismo con gli elementi che di cui si servì Gabito per fare letteratura. Anche loro hanno le loro storie, anche loro raccontano. Dai, gringo, ora non ti metterai mica a controllare se quello che ti hanno raccontato è vero oppure no. A noi non interessano queste scocciature. Se lo raccontiamo è perché è vero. Ai Caraibi la verità non accade, si racconta.
Tempo fa un altro grande scrittore originario di queste zone, Ramón Illán Bacca, mi ha raccontato una di quelle storie che dimostrano che ai Caraibi l’importante non è sapere la risposta ma dirla, e dirla con grazia. Una volta Ramón stava chiacchierando con un tipo che, all’improvviso, ha nominato «la spada di Demostene». Ramón, vista la sua grande erudizione, non riuscì a trattenersi dal correggerlo.
«È la spada di Damocle».
Ma il tipo, affatto a disagio, trovò un’argomentazione più che degna per replicare.
«Va be’, non importa che fosse Demostene o Damocle, all’epoca avevano tutti una spada».
Quella mattina, dall’altro capo del telefono, Ramón, in preda alle risate, trasse una conclusione illuminante: ai Caraibi nessuno si strappa i capelli per aver confuso il tallone di Achille con quello di Attila, né per lavare le mani a Erode e lasciarle sporche a Pilato. Quindi fatti pure tutti gli scrupoli razionali che vuoi, Mister, non sarai venuto da così lontano solo per rovinarci la storia.
Ogni persona che incontri ha la propria Macondo, ognuno la raggiunge con la storia che gli è toccata in sorte. Ora, mentre Rafael Darío Jiménez guarda il ritaglio di giornale, mi viene in mente un aneddoto che mi ha raccontato Juan Manuel Roca quando gli ho detto che sarei andato ad Aracataca. Un pomeriggio, dopo un evento a Santa Marta, Roca è andato nel paesino di Márquez con alcuni poeti provenienti da diversi paesi, fra cui il cubano Eliseo Alberto. La guida che li accolse era la persona più loquace del mondo. Senza alcun pudore cercava nella Macondo Reale corrispondenze con la Macondo Letteraria. La peste dell’insonnia, secondo lui, nacque a Puente de los Varaos, il rivolo di sangue che percorse calle de los Turcos in Cent’anni di solitudine era di un uomo che era amico di suo nonno, e così via.
Uno dei poeti, a metà fra il serio e il faceto, lo ringraziò con un complimento.
«Lei è davvero intelligente!»
E la guida espresse la sua gratitudine nel miglior stile macondiano:
«Sono contento tu mi dica questo, poeta. È che qui ad Aracataca siamo tutti intelligenti, è solo che Gabito era l’unico che sapeva raccontarlo».
Sono andato nelle piantagioni di banane della Magdalena, nei Caraibi colombiani, perché mi hanno detto che era lì che si trovava Macondo, il paesino mitologico creato dalla penna dello scrittore Gabriel García Márquez. Viaggio da quattro giorni per questa regione e continuo ancora a chiedermi dove si trovi Macondo, quali siano i suoi confini.
«Macondo è lassù, in alto, amico. È una finca».
«Macondo? Merda, non ne ho proprio idea».
«Macondo è tutta la terra che calpestiamo», dice il poeta Rafael Darío Jiménez. «Il posto da cui veniamo è Macondo, ed è anche quello in cui andremo».
«Ehi, è strano che tu faccia questa domanda. Macondo è la città del libro di García Márquez. Non l’hai letto Cent’anni di solitudine?»
Ho incontrato Macondo in diverse tappe del mio cammino. Nelle piantagioni di banane che si estendono da entrambi i lati della strada, nel calore soffocante delle due del pomeriggio, nelle strade polverose e dissestate che circondano la finca dove è nata questa storia. Senza dubbio, in questa regione, il mondo come lo intendiamo noi è ancora così recente che molte cose non hanno ancora un nome e per descriverle bisogna indicarle con il dito.
Ho trovato Macondo, insomma, in quella tristezza che a volte le persone mascherano con una risata. Nei racconti di guerra, la guerra di sempre che passa dalla Macondo reale a quella della letteratura e viceversa. Nell’anziana in lutto che nonostante il suo aspetto fragile fa vibrare le pareti di casa con la sua voce autoritaria. Nel caos, nella dimenticanza, nella ripetizione ciclica delle nostre tragedie. Nelle storie che mi hanno raccontato sulle infinite controversie politiche e sulla corruzione sistematica. Macondo è l’Aracataca in cui sto camminando ora, anche se non è un villaggio di venti case di canne e fango come nel romanzo ma una cittadina di quarantamila abitanti.
Macondo è anche tutte le storie che mi hanno raccontato durante il viaggio. Sono andato alla scuola Gabriel García Márquez a intervistare il professor Frank Domínguez, studioso dell’opera di Gabito. Mi dice che Macondo è una scintilla, è stregoneria. Stai all’erta e sentirai la sua musica. Macondo suona, Macondo canta, Macondo incanta.
«Se scrivi di Macondo», mi dice il professor Domínguez, «devi leggere Friedrich Nietzsche».
In quel momento, naturalmente, mi sembrava di avere le allucinazioni.
«Certo, Nietzsche. È stato lui a descrivere Gabito meglio di tutti: “La potenza intellettuale di un uomo si misura dalla dose di umorismo che è capace di utilizzare”».
«Che bella frase».
«È l’epigrafe del libro che ho scritto per celebrare l’umorismo di Gabito».
Mentre uscivo dalla scuola mi sono scontrato di nuovo con lo spirito grottesco di cui mi ha parlato Ramón Illán Bacca. Su una delle pareti ho letto la seguente citazione, attribuita al poeta «Pedro» Neruda: «Cent’anni di solitudine è forse la più grande opera in lingua spagnola dopo il Don Chisciottedi Cervantes». A questo punto avevo capito le regole del gioco. A Macondo non fa differenza se è Pedro o Pablo, perché qui, cazzo, sono tutti poeti.
Ho già detto che Macondo è tutto ciò che si sente fra le piantagioni di banane. Aguzza le orecchie, rilassati mentre soffia la brezza. Poi cammina un altro po’ e ascolta la professoressa Aura Ballesteros, che chiamano «Fernanda del Carpio» perché è «la raffinata della storia». È nata a Simijaca, vicino alla fredda Bogotá.
«Macondo è un fascio di luce», dice. «Qui non si vede una nuvola in cielo per moltissimo tempo».
Cercando Macondo nei paesaggi e tra le voci delle piantagioni di banane, mi sono imbattuto in una storia insolita, la storia dell’olandese Tim Aan’t Goor, che è arrivato ad Aracataca come un turista qualunque: voleva toccare con mano la magia che lo aveva abbagliato nella letteratura. Era venuto per stare una settimana e vive qui da tre anni. Ha da poco costruito in paese una cassaforte per seppellire simbolicamente Melquíades, l’indimenticabile zingaro della Macondo del romanzo.
Quando sono stato sulla sua tomba mi sono chiesto se anche la Macondo della mia crónica avrebbe avuto un finale allegorico. Ma ora sono qui, a Bogotá, di fronte al mio computer, convinto che Macondo è molto più di ciò che ho visto e sentito tra le piantagioni di banane. Macondo è con me perché è dentro di me che è sempre stata. È la passione di raccontare che ho bevuto dalle parole di Gabito, il mio profeta, l’unico mago in cui credo. In molti possono raccontare bene una storia, ma pochi sono in grado, come lui, di creare un universo personale facile da identificare dalla prima all’ultima riga. E per questo mi sembra doveroso chiudere gli occhi affinché Macondo continui a vivere nella mia memoria e le generazioni condannate a cent’anni di solitudine abbiano infine la seconda opportunità che meritano.
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