«Ci insegni a pregare» si sentiva spesso dire Madre Cànopi. E se è vero che la preghiera non si può insegnare, in questo volume la monaca benedettina ci conduce per mano in un viaggio interiore alla ricerca di Dio, di se stessi e degli altri.
Il libro non intende fornire una spiegazione teorica, definizioni precise o metodi di preghiera. È invece la semplice risonanza di un’esperienza che ha accompagnato Madre Cànopi per tutta la sua vita, e che ne fa intuire il valore, l’efficacia, e insieme ne suscita anche il profondo desiderio. Perché la preghiera non è solo dono da accogliere e arte da apprendere, ma soprattutto il «respiro» e il «grido dell’anima».
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Preparare il cuore alla preghiera
Accostando gruppi e singole persone per incontri o colloqui, mi accade spesso di sentirmi dire: «Ci insegni a pregare». È una richiesta che mi mette sempre un po’ in imbarazzo, perché la preghiera non si insegna. Dio solo è l’Autore della preghiera e da lui noi la riceviamo come dono. Preghiamo perché abbiamo ricevuto lo Spirito: è lo Spirito che prega in noi. Dice, infatti, l’Apostolo: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15).
Questo grido è la preghiera pura del figlio di Dio, quella che Gesù ci ha insegnato e che egli stesso, come uomo, ha rivolto a Dio chiamandolo semplicemente: «Abbà, papà».
Potremmo perciò dire che la preghiera è il colloquio d’amore tra il Padre e il Figlio. Con il Battesimo – che ci rende figli di Dio – questo Amore viene comunicato anche a noi. Se sapessimo sempre sintonizzare il nostro cuore con lo Spirito, non avremmo bisogno di altre parole per essere una preghiera continua!
Tuttavia, benché già resi figli, siamo ancora, in certo modo, in gestazione; siamo ancora nel travaglio del parto. Occorre perciò accettare la fatica ascetica per non cedere al peccato e per conformarci alla volontà di Dio. Attraverso questa sofferenza, che è partecipazione ai patimenti di Cristo, il nostro uomo interiore si va rinnovando fino a diventare tutto conforme al Figlio di Dio, Gesù Cristo (cfr. 2 Cor 4,17). Proprio da questo si prova il nostro amore per Dio: se non soltanto in astratto, ma nella concretezza della vita aderiamo a lui, abbracciando con fede il suo disegno di salvezza, anche quando si tratta di dover passare attraverso la porta stretta di cui parla Gesù nel Vangelo (cfr. Mt 7,13-14).
Per pregare veramente bisogna non desiderare altro bene al di sopra di Dio e della sua volontà, poiché la preghiera è autentica quando tutto il nostro essere è proteso al Signore ed esprime verso di lui non timore servile, ma amore filiale. Condizione indispensabile al raggiungimento di tale stato di grazia è anzitutto l’umiltà di riconoscere che abbiamo bisogno di essere perdonati, di convertirci, di rettificare le nostre intenzioni, di purificare i nostri desideri. La preghiera, che è stare alla presenza di Dio, non è infatti compatibile con l’orgoglio, con la superbia, con la ricerca di se stessi, con la vanità e con ogni altra specie di peccato. Tale purezza e umiltà non si ottengono con uno sforzo della nostra volontà, ma si ricevono da Dio stesso se ci si affida a lui come bambini, chiedendogli di venire in aiuto alla nostra debolezza.
Occorre perciò lasciare allo Spirito la guida totale della nostra anima. Allora lo Spirito stesso – dice ancora san Paolo – «intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Questo linguaggio ineffabile, proprio dell’amore, è il silenzio. Esso è lo spazio in cui lasciamo che lo Spirito Santo si esprima in noi secondo i desideri di Dio, in modo che la preghiera sia veramente spirituale e in essa non abbiano il sopravvento i nostri pensieri, i nostri desideri umani, le nostre velleità e ambizioni.
Si può, infatti, cadere nell’ambiguità di pregare tanto, anche verbalmente, non cercando Dio, ma se stessi, la propria soddisfazione. Si rischia talvolta di mettersi davanti all’idolo del nostro “io” invece che davanti a Dio; così ci si può illudere di pregare, mentre si ricerca una soddisfazione umana e si sottrae a Dio la lode e la gloria che gli spetta. Perché la preghiera sia veramente un’espressione di fede e di amore, occorre liberarsi da tutto quello che ci ingombra la mente e il cuore: bisogna cioè che lasciamo noi stessi e che ci mettiamo nell’atteggiamento dei veri poveri.
Dice il Salmista: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 33,7). Il povero è la creatura che, consapevole del proprio niente, si mette semplicemente sotto lo sguardo di Dio. Egli, in un certo senso, non dice nulla con le parole, ma la sua stessa povertà è un grido a Dio. In lui grida lo Spirito, Pater pauperum. Il povero tace, attende che sia lo Spirito a invocare il Padre perché lo aiuti, perché lo riconosca suo figlio e lo sollevi al suo cuore.
Le condizioni normali in cui si vive oggi nella società sono però tutt’altro che favorevoli al silenzio, perché tutto è rumore di parole e di movimento… In questo contesto l’uomo è come stordito e fa fatica a rientrare in se stesso. Ne deriva anche tanta superficialità nell’uso della parola, la quale è pure diventata succube del consumismo del nostro tempo. Nonostante tale difficoltà, perché la preghiera possa diventare il respiro dell’uomo e quasi il ritmo del suo cuore nel suo cammino di ritorno a Dio, è indispensabile ritrovare la dimensione del silenzio interiore ed esteriore in cui Dio possa far sentire la sua voce.
Se uno è per strada, nei negozi, nei luoghi pubblici, ovviamente non può evitare i rumori, ma nella propria casa si potrebbe creare uno spazio di silenzio. Purtroppo, invece, anche lì entra tanto rumore, in particolare con i mass media. E allora come si fa a mettersi in contatto con quel mondo invisibile, spirituale, che genera la vita interiore, la vita nello Spirito?
A volte, per aiutare gruppi di giovani e di ragazzi a entrare in un clima di raccoglimento e di ascolto, li si invita a fare qualche minuto di silenzio. Allora capita che qualcuno, rivolgendosi al vicino, gli chieda a che Cosa sta pensando! Ma fare silenzio non vuol dire “mettersi a pensare”, perché in tal caso si dialoga con i propri pensieri, sentimenti e immaginazioni. Il silenzio è invece uno “stare” alla presenza di Dio, staccandosi da tutto quello che di solito si agita dentro di noi, per raggiungere una profondità in cui l’Altro ci parla, in cui Dio ci fa sentire la sua voce.
Naturalmente non si arriva in breve tempo a questo silenzio, che è, dunque, essenzialmente ascolto con l’orecchio del cuore. Anche il silenzio, il silenzio vero, è un dono; per riceverlo bisogna però avere la costanza di tener duro nel tacere con le labbra, con la mente, con il cuore: questo esercizio ascetico spetta a noi.
Allora si giunge finalmente a quel silenzio che si rivela non come vuoto, ma come pienezza, come presenza di Dio. La piccola creatura è lì, nuda sotto lo sguardo di Dio, avvolta dal suo amore. Lo Spirito Santo – che è l’umiltà di Dio, perché è amore e l’amore è umile – ci vuole portare a questa esperienza della nostra povertà, per farci scoprire la ricchezza dell’amore divino. Dobbiamo dunque avere il coraggio di perdere noi stessi, altrimenti non lasciamo spazio al Signore, alla sua Presenza, alla sua Parola.
Un padre del monachesimo diceva: «Si prega veramente quando uno non sa più di pregare». Il povero non sa di pregare, si sente soltanto povero. Non tiene conto di quello che ha imparato, di quel che sa fare, di quel che sa dire, di quello che è. Non tiene conto di niente! È una pura attesa di Dio.
È per questo che Gesù diceva: «Vegliate in ogni momento pregando» (Lc 21,36). La preghiera non deve essere un’attività tra le altre, ma deve diventare il nostro respiro, il nostro modo di essere e di vivere uniti a Dio.
La nostra vita diventerà un’unica e continua preghiera quando a pregare in noi sarà davvero lo Spirito Santo, perché gli avremo dato tutto lo spazio. Allora noi stessi saremo trasfigurati anche nel nostro modo di pensare, di sentire e di agire: ogni nostra azione, ogni nostro desiderio, l’oggetto di ogni nostra ricerca, tutto in noi avrà come fine Dio, Lui solo. Per questo, sant’Antonio abate diceva: «Pregare è respirare Cristo».
Se noi veramente ci preoccupiamo di mettere in pratica la Parola di Dio, di vivere secondo il Vangelo, allora viviamo Cristo e, di conseguenza, siamo sempre con lo sguardo del cuore rivolto al Cielo, mentre in noi lo Spirito filiale incessantemente grida: «Abbà, Padre».
Per giungere a questo abbiamo però bisogno di un’ascesi continua, di una continua conversione e purificazione da tutto quello che in noi è ingombrante e “contrista” lo Spirito, ossia gli impedisce di farci camminare sulle vie di Dio e lo costringe negli angusti limiti dei nostri criteri umani, spesso dettati da egoismi e ambiguità. Liberati dai nostri condizionamenti, possiamo correre con cuore dilatato lungo il sentiero della vita, perché sospinti dallo Spirito Santo che infonde pace e gioia anche in mezzo alle inevitabili tribolazioni.
La preghiera diventa così, nello stesso tempo, gemito e lode. È gemito perché avvertiamo tutta la nostra debolezza e imperfezione; è lode perché, con lo sguardo della fede, già contempliamo Dio presente nel cuore stesso della nostra sofferenza. Proprio mediante questo travaglio si purifica e cresce in noi il desiderio di vedere Dio svelatamente, nella sua luce gloriosa.
E tutto il nostro essere, in qualsiasi situazione ci troviamo, è in tensione verso il Signore, anelando alla piena unione con lui, a essere accolto nell’abbraccio della Santissima Trinità.
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