Scrivere come Rebecca West. Il profilo di una delle scrittrici più influenti del Novecento.
Cos’è preferibile per uno scrittore? Essere dimenticato ingiustamente, o ricordato per le ragioni sbagliate?
“Indiscutibilmente la migliore scrittrice al mondo”. Così nel 1947 il Time definiva Rebecca West, scrittrice inglese di origini scozzesi e irlandesi, oggi semisconosciuta ai più. Settant’anni nel mondo delle lettere sono un tempo fatale: segnano l’ingresso nel dominio pubblico, sanciscono la consacrazione definitiva o l’oblio irreparabile. Il destino di Rebecca West è stranamente duplice: venerata e insieme dimenticatissima, non di rado nei pourparlers letterari viene scambiata per la coetanea Vita-Sackville West, e spesso, per presentarla a chi non la conosce, chi è perdutamente innamorato di lei è costretto a dire che era “un’ amica di Virginia Woolf” (“Un incrocio tra una donna di servizio e una zingara, ma più tenace di un terrier”, disse di lei una volta Virginia, e questo forse può bastarci per stabilire se le due possano o meno essere considerate vere amiche).
Rebecca West si chiamava in realtà Cicely Isabel Fairfield: il nome d’arte lo rubò – quando aveva vent’anni ed era una suffragetta – a un personaggio della Casa dei Rosmer di Ibsen, forse per quel suo “Live, work, act. Don’t sit here and brood”, e da quel nome non si sarebbe mai separata. Era nata nel Kerry nel 1892 e morì a Londra nel 1983; nel corso del ‘900 i suoi libri furono tradotti in tutto il mondo, ma verso la fine degli anni ’60 le traduzioni estere presero ad assottigliarsi, e dopo la sua morte più di un editore decise di pubblicare i suoi libri applicando pesanti tagli e interventi. In Francia e Spagna oggi quasi nessuno ne conosce il nome, e se nei paesi anglosassoni ogni anno qualche scrittore contemporaneo le dedica lunghi e devoti omaggi in libreria spesso si fatica a trovare i suoi libri; la tormentata storia d’amore con HG Wells o il flirt con Chaplin sembrano l’unica cosa che interessa il grande pubblico.
A riportare in Italia Rebecca West in tempi recenti ci hanno pensato Neri Pozza (con Il ritorno del soldato, suo romanzo d’esordio, uscito originariamente nel 1918 e pubblicato in italiano nel 2009 nella traduzione di Benedetta Bini), Skira nel 2015 con il reportage sul processo di Norimberga Serra con ciclamini (tradotto da Masolino d’Amico) e soprattutto Mattioli 1885, che nel 2008 ha pubblicato in una nuova, splendida traduzione di Francesca Frigerio la trilogia La famiglia Aubrey, opera ispirata alla sua vita, a cui la West lavorerà per quasi trent’anni. Solo il primo volume, The Aubrey Family, sarà pubblicato mentre lei è ancora in vita, mentre gli altri due, This Real Night e Rosamund, usciranno diversi anni dopo la sua scomparsa.
Di recente è stato Fazi ad aggiudicarsi i diritti della trilogia; dal 5 luglio scorso il primo volume della famiglia Aubrey è tornato in libreria (ed è addirittura in classifica), e gli altri due volumi saranno pubblicati (sempre nella traduzione di Francesca Frigerio) da qui al prossimo anno. Il titolo originale dell’opera è The Fountain Overflows, ed è ispirato a The Proverbs of Hell di William Blake: “The cistern contains, the fountain overflows”. Sembra quasi un monito attraverso il quale la West ci tiene a presentarsi al lettore, annunciando il suo stile per quello che è: un placido e insieme incontenibile fiume di parole, eventi e dettagli.
Cedro del Libano
Sedevamo nella stanza piena di sole,
godendone come se fossimo fiori, e non ragazze.
Due giovani sorelle studiano per diventare pianiste. C’è un padre geniale e sfuggente, che un giorno se ne va e non si capisce se mai tornerà; una madre stanca e fiera, con gli abiti sgualciti, i capelli in disordine e risposte magnifiche a qualsiasi domanda. Una terza sorella, ostinata e altera, che suona il violino con grande impegno e senza alcuna grazia (“aveva sempre suonato come un’ambulante in un negozio di tè (…) non molto tempo addietro le era stato brutalmente rivelato che non aveva talento, però aveva superato così bene il trauma che ormai niente poteva sconfiggerla”) e un fratellino delicato e sfuggente, che non si può far altro che ammirare e proteggere (“Non penso che sarà il piano”, disse la mamma, scrutandolo da vicino, come se potesse leggere sulla grana della sua pelle il nome dello strumento che avrebbe suonato. Cosa che peraltro aveva un qualche fondamento). Una cugina eterea, spensierata e luminosa, un benefattore anziano, una domestica devota, un’innocente in prigione.
La famiglia Aubrey è a tutti gli effetti una saga familiare dell’Inghilterra di fine Ottocento, non si potrebbe chiamarla altrimenti, e difatti così viene definita nelle quarte di copertina e nei ritagli stampa. Al tempo stesso, però, basta iniziare a leggerla per capire che un libro del genere sta alla nozione classica di “saga familiare” come, appunto, le fontane stanno alle cisterne, e i compositori ai pianisti:
«Ci sono cose,» disse il signor Harper con un’aria spavalda e rivelatrice, «importanti quanto suonare il piano, e sotto ogni aspetto, dobbiamo ammetterlo. Viviamo in un bel mondo. Guardate quell’albero laggiù, è solo un albero nel giardino sul retro di una casa londinese, ma con quella lama di luce che lo colpisce è davvero incantevole. Anche se è spoglio, quel poco di luce sul tronco fa pensare alla primavera. Oh, è un peccato limitarsi, ma voi siete venuta da me per imparare a suonare il piano, e io sono qui per insegnarvi a suonare il piano, e ho trascurato cose alle quali avrei dovuto prestare attenzione. Suonare il piano è diventato un gioco micidiale. Si potrebbe dire che per suonare il piano oggi ci si debba trasformare in una pianola, o peggio, in un organetto da strada, o in uno di quei piani elettrici che continuano a suonare finché s’infilano le monete, una macchina che non si stanca e non ha cuore. Non che sia sbagliato, se si è in grado di farlo. Ma non c’è ragione per cui dovremmo tutti renderci la vita così dura. Ho cercato di rendere questo pensiero nella mie opere, sapete. Non sono esattamente un pianista, sono un compositore».
Se The Fountain Overflows è un’opera della maturità, non è certo un’eccezione nella produzione della West, che in più di settant’anni di scrittura si è dedicata, oltre che alla narrativa, al giornalismo di viaggio e alla critica letteraria, alla politica e alla musicologia, costruendo una prosa unica proprio perché in un certo senso informe, fluida e priva di margini, “abbastanza larga da poter nuotarci dentro”: è una forma in cui tutto entra, e tutto viene modellato, impastato, senza nessuna fretta e con quel pizzico di irriverenza e gusto per l’eccentrico che rendono le metafore memorabili, riescono a rendere poetica la geopolitica, ironica l’economia, immaginifica la storia e spietata l’autobiografia, traducendo la musica in letteratura e regalando alla letteratura il passo di una sinfonia.
Il testo più famoso di Rebecca West, e l’opera che l’ha resa nota in tutto il mondo non è un romanzo, ma un reportage: si chiama The Black Lamb & Grey Falcon, ed è l’imponente diario di tre lunghi soggiorni che la scrittrice fece in Yugoslavia. Fu pubblicato in due volumi nel 1941, e ancora oggi resta la ragione per cui viene più spesso citata. Qualche tempo fa sul Guardian, Geoff Dyer (parafrasando Calvino che scrive della Rovina di Kasch di Calasso) lo ha definito un “capolavoro supremo che parla di due cose: la Jugoslavia e tutto il resto”. Ed è proprio quel “tutto il resto” a definire la prosa della West, il suo modo di scrivere, di scegliere le parole e in un certo senso anche di stare al mondo. Quel “tutto il resto” è la sua cifra stilistica distintiva, quello che ha fatto di lei una penna difficile da classificare, e quindi, forse, da sistemare una volta per tutte sugli scaffali della grande letteratura.
Chi inizia a leggere La famiglia Aubrey aspettandosi di trovare una trama alla Cazalet resterà spiazzato, chi vuole a tutti i costi vedere nella sua autrice una femminista sarà smentito dalle sue stesse parole (“Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta”, disse nel 1913); chi la definisce una reporter non ha mai letto il modo che ha di scrivere di Beethoven o di una crostata alle ciliegie, e chi osa bollarla come una scrittrice “al femminile” non l’ha mai letta, oppure non ha mai letto libri “al femminile”, qualunque cosa questa dicitura significhi.
Questo non vuol dire certo che The Black Lamb & Grey Falcon non saprà illuminarvi sul conflitto balcanico, o che The Fountain Overflows non vi racconti per filo e per segno l’Inghilterra di fine Ottocento; ma lo faranno parlandovi di tutt’altro, tralasciando gli eventi apparentemente degni di questo nome, i passaggi eclatanti e la narrazione a effetto, e concentrandosi sul punto di vista delimitato e ben preciso: quello di una donna, eminentemente inglese, nata in una famiglia povera e colta, diventata una scrittrice ricca e famosa, diventata madre e poi moglie senza mai rinunciare alla sua individualità, e che in ogni cosa che scrive non finge mai, in nessun momento, di essere qualcun altro, di giudicare le cose da fuori o di parlare a nome di qualcuno che non sia lei. È proprio in questo suo apparente oscillare, vagare tra approdi minori che Rebecca West riesce a far centro: facendo luce sull’infinitamente piccolo o soggettivo la sua scrittura produce un’ombra lunga, un riverbero universale, la cui potenza è il risultato di piccole illuminazioni distinte.
A voler spiegare la sua prosa a qualcuno che non la conosce verrebbe da dire che somiglia a uno di quei paesaggi inglesi in cui non esiste un vero protagonista oltre al paesaggio stesso, in cui mucche, cespugli, ruscelli e nuvole si dispongono ciascuno per conto suo all’interno di una stessa cornice, in un equilibrio dai toni perfetti e sfuggenti proprio perché effimeri e in continuo movimento. In un testo preparatorio poi confluito nella raccolta Survivors in Mexico, una serie di reportage scritti alla fine degli anni Sessanta, la West descrive il modo che ha di lavorare, e paragona lo scrivere al dispiegarsi di un paesaggio di una vallata:
Di solito dopo colazione mi siedo accanto a una finestra al secondo piano, da cui si vede un cedro del Libano e, attraverso i suoi rami orizzontali, un paesaggio orientale. La vallata sottostante è colma fino alla cima di nebbia mattutina, e il sole dovrà essere ben alto prima che sia dispersa, cosicché sui crinali gli alberi vengono su come colpi di pennello neri su un foglio di carta bianco, che seguono delle linee ineludibili come se fossero state definite da un artista, tracciando il disegno della valle. È uno schema ordinato che si può usare come guida, ed è grazie a esso che il paragrafo che si è scritto la mattina precedente si rivela in tutto il suo disgusto; ma il manifestarsi sotto gli occhi di quel capolavoro può convincerci che le cose si possono aggiustare, che se si prendono le quattro sezioni del passaggio centrale e si mette C dopo A e se si fonde B con D e se ne aggiunge una nuova, E, il significato sarà chiaro.
Ciclamini
Serra con ciclamini è un testo del 1946 sul processo di Norimberga. Venne commissionato alla West dal New Yorker, e uscì nel 1955 in una raccolta chiamata A Train of Powder. Racconta il momento emblematico della storia del ‘900 in cui la Germania e il mondo aspettano col fiato sospeso un verdetto e inconsciamente la possibilità di un’assoluzione, di una rinascita. Rebecca West e gli altri giornalisti incaricati di seguire il processo alloggiano in una villa qualche chilometro fuori della città, la casa di un fabbricante di matite che “parlava di ricchezza negli stessi accenti dei palazzi di Pittsburgh, ma era grande due volte qualunque di essi, ed esibiva una fantasia più allusiva”:
Non c’era luogo nello Schloss dove si potesse stare da soli. La camera da letto di ciascuno si riempiva di persone sedute qua e là perché le loro camere da letto erano piene di persone sedute qua e là e perché anche loro avevano trovato la camera da letto piena. Si parlava molto intorno al bar, anche se mai della Germania, che si sapeva morta e sepolta. Sembrò il caso, nella dorata sera d’autunno, di passeggiare in giardino; e quando il sole tramontando scoprì un tetto di serra, di andare a vedere come i tedeschi avevano conservato in vita quella forma di lusso.
Il reportage è un esempio emblematico del modo di scrivere della West, che per raccontare un paese in ginocchio e una crisi mondiale lascia da parte i tribunali e le sue folle, la cronaca ufficiale e gli eventi quotidiani di un processo che va avanti settimane e a cui ogni giorno si trova ad assistere, e si concentra invece su un luogo marginale, la serra nel giardino della villa in cui lei e gli altri giornalisti alloggiano e su una figura solitaria e trascurabile, quella del giardiniere che in quella serra, al riparo da tutto e da tutti, ogni giorno lavora. È da quel “tutto il resto” che la West sceglie di raccontare il popolo tedesco e il suo orrore, la sua voglia di riscatto e la germanica attitudine al lavoro:
“C’erano file e file di ciclamini splendidamente avviluppati che avrebbero fatto onore a una ditta specializzata. Il fatto che qualcuno avesse iniziato un fiorente traffico di piante in vaso potrebbe non sembrare poi così interessante. Ma questa era la Germania, questo era il 1946 (…) Questa serra era nei sobborghi di una grande città in cui era impossibile acquistare qualsiasi cosa, se non al mercato dell’usato, tranne le cibarie (…) qui il genio commerciale dei tedeschi si stava riaffermando in un modo che era probabilmente divertente quanto impudente. Poiché sembrava probabile che questa serra fosse stata tenuta in uso durante la guerra a sfida delle regole e dei regolamenti di Hitler, e che adesso stesse sfidando le regole e i regolamenti degli alleati; poiché certamente questi non potevano desiderare che combustibile e forza lavoro tedeschi fossero adibiti a far crescere fiori.
La serra era del tipo spazioso che si trova in certi antiquati giardini privati (…) ed era chiaramente inadatta all’uso commerciale. Sembrava che qui ci volessero almeno un paio di giardinieri, ma in vista c’era un uomo solo, che stava chiudendo un finestrone (…) con una goffaggine che si spiegò quando passò a un altro finestrone zoppicando su due stampelle. Aveva perso una gamba. (…) Lui era stato giardiniere allo Schloss prima della guerra, e aveva perso la gamba sul fronte russo, verso la fine della campagna. Quando era uscito dall’ospedale aveva appreso che i capi nazisti sarebbero stati processati a Norimberga, e che molti americani e qualche inglese e francese sarebbero rimasti a lungo in città. Era andato dal padrone dello Schloss e gli aveva proposto di usare la serra per coltivare piante in vaso da vendere ai vincitori (…) Alla fine di maggio aveva un bel po’ di ciclamini in fiore, ma lo addolorava assai di averne avuti solo pochi per soddisfare il mercato natalizio. Tradì un profondo rammarico che il processo non continuasse fino al Natale successivo, così da avere la possibilità di vendere un numero davvero grande dei suoi ciclamini. Questo non era soltanto perché ne desiderava il profitto; era anche perché sapeva che erano buoni, molto buoni, anche se, disse con inquietudine, non così buoni come certi che aveva visto nelle serre olandesi. Non era un uomo scontento. Si trovava certamente in uno stato di continuo disagio fisico (…) Ma era fuggito in un’altra dimensione, in cui il dolore non aveva potere su di lui. Era fuggito nel suo lavoro.
Ci sono, naturalmente, innumerevoli lavoratori in altri paesi la cui industriosità, come quella di quest’uomo, arriva fino alla nobiltà; ma nella dedizione di sé di costui c’era qualcosa di diverso e di peculiarmente tedesco e dinamico. (…) Non avrebbe avuto nessuna simpatia per l’innocente desiderio di un operaio inglese di vincere al totocalcio e lasciare il lavoro e scappare nella vacanza dell’indipendenza finanziaria, né per il ricorrente impulso dell’operaio francese di spezzare le sbarre del rigido sistema industriale in cui si sente imprigionato e fuggire in uno sciopero. Lui non voleva fuggire dalla sua serra, voleva fuggire dentro di essa”.
Pino marittimo
Il rischio più grande per un artista? Rebecca West è convinta che sia il sentimentalismo. Detto da una che ha scelto una serra gremita di ciclamini per raccontare il processo al nazismo e le ferite della Shoa la cosa potrebbe suonare come una provocazione. Eppure la letteratura, quando è davvero grande, sembra ricordarci in ogni momento che tutto sta nel come e mai nel cosa: il sentimentalismo non è mai un soggetto, ma un’attitudine, ed è da questa attitudine che la West – che parli di reduci di guerra, fanciulle in fiore, sonate di Mozart o leggende messicane – sembra volersi tenere alla larga.
Nel saggio “The Strange Necessity” del 1928, per spiegare cosa intende per sentimentalismo, la West se la prese niente meno che con James Joyce: diversamente da Virginia Woolf, che l’Ulisse lo aveva detestato e basta (“Mi ha interdetto, annoiato, irritato e disilluso, come di fronte a un disgustoso studente universitario che si schiaccia i brufoli”), Rebecca West riconosce l’importanza dell’opera di Joyce e trova impareggiabili alcuni suoi passaggi, ma incolpa il suo autore di “mancanza di gusto”. “Mr Joyce is a great man who is entirely without taste”, scrive nelle prime pagine del saggio, spiegando come e quanto la sua voglia di strafare, e un’eccessiva attenzione a se stesso l’abbiano portato a remare contro se stesso e le sue stesse intuizioni.
Poche righe più avanti, per descrivere il sentimentalismo, la West ricorre poi a una metafora memorabile, anche stavolta mutuata dal mondo delle piante. Dice che le è servito del tempo, per capire cosa fosse questo peccato mortale degli artisti, e che l’ha capito in un pomeriggio d’estate in Provenza. Quei pomeriggi hanno un colore ben preciso, scrive, ma soprattutto un suono distinto: il suono delle bocce che si toccano una con l’altra, e possono produrre, a seconda dell’impatto, scatti secchi come “uno scambio di commenti bruschi” oppure un suono di ottusa qualità – quello di due bocce si sfiorano appena – un suono fatto di “vaga meschinità, di fallimento in un’impresa nella quale anche il successo non avrebbe significato nulla di piacevole”.
Gli scrittori sentimentalisti, dice, sono come quei giocatori di bocce che passano il tempo a lanciare degli “Oh!” e a bisbigliare degli “Ah!” dietro ai suoni delle loro palline, mostrando che “non si stanno riposando, che in questo lasso di tempo non si sono mai liberati dal fardello umano del discernimento e del calcolo”. Basta alzare gli occhi per osservare sopra di loro un grande pino marittimo, “solido tetto per tutta quella gente accovacciata di sguincio, che da centinaia di rami e milioni di aghi crea una forma unica come una goccia, e proietta un’ombra di unitaria sostanza”.
Quell’albero, scrive la West, è l’artista non sentimentalista, quello in grado di scrivere di qualunque cosa “e di tutto il resto” senza suonare falso, eccessivo, o anche semplicemente stonato. Non importa quante cose finiscano dentro a quello che si scrive, l’importante è la ragione per cui sono arrivate lì, e in qualche modo, se inevitabilmente nell’arte l’ineffabile si cattura solo con la perseveranza, l’esattezza può esistere solo in assenza di calcolo, e la grazia, a ben vedere, non ha proprio nulla di premeditato:
Il non sentimentalista è tanto determinato e concentrato a scrivere un libro quanto l’albero a diventare un albero, e mentre fa confluire tutto il materiale attraverso la sua immaginazione ed esperienza si identifica con la sua creatura tanto quanto fa l’albero mentre cresce. Ora, né l’albero né l’artista hanno occhi, nessuno dei due ha orecchie, né intelligenza: semplicemente stanno diventando quello che fanno. Lo scrittore sprigiona la sua energia, che diventa una fase della sua storia così come l’albero sprigiona la sua per far crescere un ramo. Entrambi sanno di quanta energia hanno bisogno, e dove collocarla, e visto che si identificano con la propria creatura l’uno percepirebbe un erroneo equilibrio tra le parti come l’altro si accorgerebbe di un rametto secco. […] Il sentimentalista invece non sta diventando nulla; ha orecchie, occhi, è intelligente, sta giocando una partita, sta spostando degli oggetti davanti a un pubblico, seguendo regole precise. Questi oggetti qualcuno potrebbe considerarli elementi isolati del materiale che ha fatto confluire attraverso la sua immaginazione secondo un processo purtroppo discontinuo. Si accorge che uno di quegli oggetti occupa una determinata posizione sul terreno di gioco, e sa che segnerà un punto se riuscirà a scalzarlo; perciò ne fa rotolare un altro per sostituirlo. Stock!… ecco quell’orribile suono.
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