Stamattina, a Londra, possiamo immaginarlo, nell’angolo dei poeti dell’abbazia di Westminster, qualche turista giapponese fotograferà la tomba di Charles Dickens con una supplementare premura se, consultando Wikipedia, avrà notato che oggi si contano centocinquanta anni dalla sua morte, avvenuta il 9 giugno del 1870 ad Higham, nel Kent. Sarà difficile spiegargli in poche battute chi è stato quello scrittore così importante, scomparso a cinquantotto anni causa emorragia cerebrale, e in quale senso abbia contribuito, nella sua vita breve ma intensa, alla formazione del pensiero occidentale moderno. In fondo l’idea stessa dell’individuo, così come viene declinata nel Vecchio Continente, deriva anche un po’ da questo imprescindibile autore, che non dimenticò mai l’umiltà delle proprie origini, soprattutto la mortificazione subita da bambino quando alcuni tracolli economici familiari lo costrinsero a lavorare nel magazzino di una fabbrica di lucido per scarpe. Studiò poco e male ma scoprì dentro di sé un giacimento inestimabile a cui seppe attingere a piene mani.
A ben riflettere dobbiamo a Dickens l’invenzione dell’Infanzia, nella modalità in cui ancora adesso la percepiamo: una stagione, dotata di propria autonomia, da difendere e preservare ad oltranza, come una quintessenza dell’umanità. Insieme a Henry Fielding, altro grande scrittore i cui resti sono conservati accanto ai suoi, col quale idealmente dialoga nel sepolcro di Westminster, Dickens ha fondato davvero il romanzo picaresco, lanciando verso di noi il testimone ricevuto dai grandi spagnoli, l’anonimo autore del Lazarillo e Miguel de Cervantes: non tanto e non solo nel folgorante esordio del Circolo Pickwick (1837), in cui compose i tasselli di un viaggio nel cuore profondo della provincia inglese, quanto nei successivi romanzi di formazione: Le avventure di Oliver Twist (1837) e Nicholas Nickleby (1839) con la progressiva messa a fuoco della figura dell’orfano, vilipeso e maltrattato, temprato dalle più crude esperienze, prima fra tutte quella dell’abbandono. Nelle sue opere, incredibilmente composte quasi tutte per committenze giornalistiche, c’è da baloccarsi sulla passione devastatrice che scuote gli animi dei nostri simili: lo si può fare senza accedere ad alcuna dimensione metafisica, restando con lo sguardo rasoterra, come è caratteristico della cultura inglese. I cartoni scenografici del tradimento e dell’avarizia, dell’egoismo e della volontà di sopraffazione, del raggiro e della truffa, illustrano i nuclei tematici dei suoi testi, pur dentro la persistente euforia degli innumerevoli personaggi che quasi sempre ruotano intorno al protagonista come coriandoli variopinti. La parabola si chiuse sull’orlo dell’abisso, prima che i fantasmi novecenteschi lo risalissero per venire a tormentarci in modo diretto.
Dickens ancora adesso, posto di fronte al male umano, fornisce le risposte che il buon senso richiede, ma poi ti resta sempre l’amaro in bocca. Come se egli stesso non riuscisse a trattenere un moto di disappunto. E tuttavia quanta dovizia di particolari e quale enciclopedia di caratteri e situazioni! Ogni lettore potrebbe trovare qualcosa di congeniale. Sei curioso di misurare l’intensità del rapporto fra le generazioni? La bottega dell’antiquario (1841) ti aspetta. Ti piacciono i romanzi storici? Ecco per te un magico trittico: Barnaby Rudge (1841), Martin Chuzzlewit (1844) e Racconto di due città (1859). Hai bisogno di credere nella possibilità di una sia pur illusoria salvezza? Affronta Dombay e Figlio (1848). Pensi a qualcosa di più leggero? Compra i Racconti di Natale (1848). Vuoi sapere come non dovrebbe essere la scuola? Leggi David Copperfield (1850). Senti una vera antipatia per i sistemi giudiziari? Casa desolata (1853) sarà pane per i tuoi denti. Hai l’animo del sindacalista? Orientati su Tempi difficili (1854) e La piccola Dorrit (1857).
Se Dickens si fosse fermato qui, sarebbe comunque stato, in prospettiva originale, il Balzac della propria terra: gran burattinaio di una complicatissima e inquietante commedia umana che si fermò all’improvviso bloccando i lavori in corso del Mistero di Edwin Drood (1870), estremo poliziesco rimasto incompiuto. Ma nei due romanzi finali che riuscì a concludere lo scrittore fece qualcosa di più: Grandi speranze (1861) resta, a giudizio di molti, il suo capolavoro. Un sorta di Dostoevskij beneducato, con gli strappi ricuciti. Memorabile è la figura del giovane Pip, il quale nella prima pagina cerca di ricavare il ritratto dei suoi genitori dalle loro pietre sepolcrali: «La forma delle lettere su quella di mio padre mi suggerì la strana idea che egli fosse un tipo tarchiato, corpulento, con i capelli neri e ricciuti. Dai caratteri e dallo stile dell’iscrizione “Ed inoltre Georgiana, moglie del suddetto”, trassi la conclusione infantile che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia».
Il rapporto d’amore contrastato fra lui e Estella entra come una luce sporca dentro il libro che in un lento e progressivo disfacimento di qualsiasi chimera rinnovatrice svela la natura ambigua e magmatica della paternità, oltre alla dimensione ferina del capitalismo. Tale pessimismo sociale torna peraltro potente e persuasivo nel Nostro comune amico (1865), dove semmai ci fosse stata l’illusione di una missione palingenetica del proletariato, questa viene deliberatamente rigettata sotto l’insegna tristemente accesa della universale cupidigia. Eppure, a conti fatti, Charles Dickens, nonostante la diagnosi impietosa e assai poco consolante sulla natura umana e il sistematico sterminio di qualsiasi programma edificante, non smette di comunicare energia propositiva. Le sue macchine narrative sempre in marcia e funzionanti danno fiducia. Sono come i piccoli eroi che mettono in scena, sempre capaci di rialzarsi in piedi dopo essere caduti a terra.
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