Rebecca libri

“Dolce Amor, Cristo bello!” Clemente Rebora e l’incontro con Cristo

di Valerio Rossi

Un fatto decisivo

C’è un fatto che Clemente Rebora ha sempre sentito come centrale all’interno della sua esistenza e anche quando, ormai anziano a pochi anni dalla morte, riepilogherà la sua vicenda umana all’interno del Curriculum vitae, evidenzierà come momento fondamentale di quell’itinerario che lo ha portato all’incontro con Cristo.
1928. Una sala piena di gente. Come gli capitava spesso in quegli anni, il poeta si trova a dover parlare davanti a un vasto pubblico. Una lettura degli Atti dei martiri scillitani. A un certo punto, giunto al momento in cui i martiri confessano la loro fedeltà a Cristo, Rebora non riesce più a proseguire, non si sente bene ed è costretto a sospendere l’incontro.
Leggiamo le sue parole: «ed ecco mi prese una commozione tale che non potei più proseguire e a stento non scoppiai in singhiozzi palesi. Il pubblico attonito – data la mia cosiddetta “facoltà di parola” – stette in un silenzio solenne, per parecchi minuti. In fine io mi levai come folgorato di pianto […]. Da quel momento Dio mi tolse il dono della parola in pubblico». E nel Curriculum vitae sintetizzerà: «la Parola zittì chiacchiere mie».
Questo episodio ci insegna che leggere un testo significa immedesimarsi con l’umanità di colui che ha scritto e, nel caso di Clemente Rebora incontrarsi con un poeta che ha espresso, attraverso la sua opera letteraria e la sua vita, una domanda pienamente umana che reclama Cristo. Si tratta di porsi di fronte a ciò che il poeta, dopo un lungo itinerario, ha riconosciuto come l’oggetto del suo amore: il volto di Gesù.
A questo ci ammonisce lo stesso poeta, quando negli anni Cinquanta scrive all’amato fratello Piero: «uscendo da una lettura di poesia (e qui bisognerebbe dire delle altre arti, ciascuna col suo dono sublime, e della musica che nei grandi è quasi donazione di carità) ci si potrebbe sentire incoraggiati al bene e all’eterno», perché «la poesia, intesa in modo totale, cioè cattolico, è la bellezza che rende palese, come arcano riverbero, la Bontà infinita che ha sì gran braccia».
Perché dunque Rebora può essere così interessante per noi? Appunto perché è l’esempio di una vita e di un’opera poetica segnata dalla costante attesa del Volto amato, riconosciuto infine nel Volto di Cristo, che dona la pace del cuore: «Dolce Amor, Cristo bello […] // Dolce Amor, Gesù buono / quanto sei ignorato! / ciascun nel tuo perdono, / del Dono ti sia grato». Una vita e una poesia: in questo caso due termini inscindibili, perché, come dice il poeta, “santità soltanto compie il canto” (il culmine, il compimento della poesia, che è ricerca dell’Assoluto, è nella santità, in una vita che aderisce a Cristo).
Rebora è nello stesso tempo poeta e poi sarà un santo. È un esempio, si direbbe, unico in tutta la storia della letteratura italiana, se non si vuole risalire a Jacopone da Todi. Ma Jacopone non ci dà l’itinerario della sua vita, Clemente Rebora sì” (Divo Barsotti).
Un altro motivo di interesse, inoltre, attiene molto strettamente ai tempi che stiamo vivendo, segnati da quella che è stata chiamata un’“emergenza educativa”. Giovane insegnante fra Milano e Novara, Rebora è stato successivamente, ormai sacerdote, prefetto e padre spirituale dei giovani rosminiani al collegio di Stresa. Rileggendo questa sua attività quando è ormai anziano, sembra giungere con certezza e chiarezza a quello che è il centro dell’opera educativa. Così ricorda: «Mi affidarono anche delinquenti minorenni per riavvivare al bene. Ricordo di uno che mi pareva affezionato; ma incontrammo in una delle vie più malfamate dei suoi già compagni di delinquenza, ed ebbe forse rossore di farsi vedere con me davanti a loro, e se ne fuggì e non lo vidi più. Oh allora che dovevo sostenermi come se io valessi e potessi da solo! Senza preghiera: senza la Madonna!» (Diario intimo).
Sembra di sentir riecheggiare le parole che Manzoni fa pronunciare a padre Cristoforo quando dà l’ultimo saluto a Renzo e Lucia al Lazzaretto – parole che fra l’altro Rebora ricordava anche alle ascritte rosminiane in una giornata di ritiro predicata per loro: “Se il Signore vi concede figlioli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’instillar loro l’amore di Lui e poi li guiderete bene in tutto il resto”.
Che grandezza questi scrittori lombardi! E che concretezza nel centrare in poche parole il senso dell’educazione: rimandare tutto a Cristo.

Fuga dal nichilismo

Chi era Clemente Rebora? Nato nel 1885, apparteneva a una famiglia laica milanese: quinto di sette fratelli, era figlio di Teresa Rinaldi e di Enrico, che in gioventù aveva combattuto con Garibaldi ed era rimasto fedele agli ideali risorgimentali, coltivando il pensiero di Mazzini e aderendo alla massoneria. «Grande rettitudine e austerità» quella della sua famiglia – come ricorderà lo stesso poeta -, ma “senza più nulla di soprannaturale”.
Questo non impedì però a Clemente di mantenere un’inquietudine dettata da insoddisfazione per il mondo borghese del suo tempo (così in Curriculum vitae: “Un guasto occulto mi minava in basso, / un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico o nel chiasso, un dire furbo: / Quando c’è la salute c’è tutto; / e intendevan le guance paffute, nel girotondo di questo mondo. / Ribellante gridava la mia pena: ho sbagliato pianeta!”) e un atteggiamento di apertura verso la realtà, così come gli si presentava. Ed è questo il punto da cui partire per comprendere il cammino della sua vita. Quello che colpisce già nel giovane Rebora – come sottolineava don Luigi Giussani in una lettura di una ventina di anni fa a Vercelli – “è la sua positività di uomo buono, una positività di fronte al disegno misterioso delle cose, o meglio, l’affermazione della positività del disegno misterioso. Rebora afferma un disegno, e quindi intuisce un’intelligenza nelle cose, misteriosa perciò ineffabile, non dicibile, non decifrabile, ma comunque positiva”.

Se l’uom tra bara e culla
Si perpetua, e le sue croci
Son legno di un tronco immortale
E le sue tende frale germoglio
D’inesausto rigoglio,
Questo è cieco destin che si trastulla?
Se van dall’universo eterne voci
E dagli àtomi ai soli si marita
Fra glorie ardenti e tenebrosi falli
Una grandezza infinita
Che lo spirito intende,
Questo è per nulla?

Come sottolinea ancora don Giussani, la meditazione sul destino dell’uomo si conclude con l’espressione di quella che è l’esigenza ultima del cuore dell’uomo e con una visione positiva dell’universo e della storia umana. L’ultimo interrogativo, evidentemente retorico, adombra in sé una risposta: no, tutto ciò non può essere per nulla.
Lontano dal nichilismo che attraversa tanta parte della poesia e della letteratura contemporanea, Rebora non nega la realtà; da essa nasce una domanda di senso, un senso che deve esserci, proprio perché la realtà c’è.

L’imbestiamento della prima guerra”

Ma ci sono momenti in cui la realtà appare in tutta la sua tragicità. Siamo al secondo momento del percorso reboriano: l’esperienza vissuta durante il primo conflitto mondiale. Inizialmente la guerra viene salutata positivamente con una timida posizione interventista di chi vede in essa la possibilità di una “purificazione”, di una “catastrofe” che possa rinnovare l’umanità, riportandola a un punto di partenza che tolga la spessa incrostazione borghese che l’ha ricoperta. La tragicità della realtà sperimentata nell’esperienza di trincea riporta però l’attenzione di Rebora sul male del mondo e sul male dell’uomo, facendo nascere in lui una domanda ancora più profonda.

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sóffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai
.

Dal verso 4 è la «vedetta morta» a parlare e a esprimere il suo disinganno per un mondo che si è rivelato nella sua intima falsità: la salvezza, il rinnovamento non può venire da mano d’uomo. L’utopia di un cambiamento che passi attraverso la lotta non è realizzabile.
Anzi, il conflitto ha portato l’accrescersi di una disumanità che non può essere redenta da «nulla del mondo»: la salvezza non è immanente al reale, ma va ricercata in un “oltre” («Sóffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui»). Per il momento Rebora approda però a una soluzione parziale, quella del rifugio nel rapporto amoroso con una donna, che diventa segno di una promessa, seppur debole e incerta, per il futuro (biograficamente è databile a questi anni l’intenso rapporto con Lydia Natus, che di lì a poco cesserà).
Siamo nel massimo della tragedia, in una situazione che il poeta descriverà a tinte forti in diverse lettere:

Mamma mia, sono nella guerra ove è più torva: fango, mari di fango e bora freddissima, e putrefazione fra incessanti cinici rombi violentissimi. E Checche fatto aguzzino, carnefice ecc. Martirio inimaginabile“. Qui, in luoghi che “sono il Calvario d’Italia”, dalla trincea, il poeta trova anche la forza di scrivere alla madre: “Dì’ a Piera che la ringrazio, che la bacio con il suo Ugo, e Maria coi bambini […], cari piccolini – ai quali narrerò ciò che al mondo avevo intuito e ora pagato sulla croce: quanta letizia vorrò dare ai giovani! Grazie, grazie. A tutti”.
Qui, nel massimo dello sgomento, nella lettera in cui descrive, fra l’altro, “l’imbestiamento e lo sforzo di tener su queste larve d’uomini”, Rebora appare teso alle soglie di un segreto, già “intuito” e “ora pagato”; un segreto che non può essere vano, come la “routine macabra” (sono sue parole) che sta vivendo, e che porta con sé una parola strana nel momento della tragedia: “letizia”, una letizia che può essere comunicata alle nuove generazioni.
In questi mesi della guerra e, soprattutto, dell’immediato dopoguerra (per lui il ’16-17, quando viene mandato a casa dal fronte per uno choc subito in seguito all’esplosione di un obice – diagnosi: “mania dell’eterno”) l’atteggiamento del poeta vive un’ambivalenza: da una parte è caratterizzato da un’impossibilità di dire quanto vissuto per un cuore che è divenuto impassibile, pietrificato di fronte alla tragedia; dall’altra parte una volontà di vicinanza all’uomo che vive nella trincea il suo “imbestiamento”, che diventa ansia di salvezza, di redenzione e che troverà il suo simbolo nella figura di Lazzaro, colui che è richiamato alla vita.

Attesa: apertura all’imprevisto

C’è una consapevolezza: la redenzione– come già detto – non può essere immanente alla realtà, come esprime in una poesia degli anni Venti:

Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
Non è per questo, non è per questo!

e così tutto rimanda
a una segreta domanda
l’atto è un pretesto. […]

c’è un cuneo nel cuore,
e non si osa levarlo
perché si teme il getto del sangue.”

C’è un cuneo nel cuore, una ferita, che la realtà stessa non può colmare, ma che attende chi la guarisca. Attesa: ecco la parola più caratteristica del periodo della ricerca di senso reboriana.

Dall’imagine tesa (1)

Dall’imagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto (2) nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Gli ultimi versi sembrano testimoniare la certezza che una salvezza c’è, che una verità deve rivelarsi. Ed ha un premio: lo renderà “certo del suo e mio tesoro”, sarà “ristoro delle mie e sue pene”.

NOTE
1. In età avanzata Rebora darà diverse letture dell’“occasione” di questo suo testo. Una volta parlerà di come “la sua persona stessa [fosse] assunta nell’espressione del suo viso proteso… forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae”; un’ altra volta dirà più semplicemente: “l’ho scritto per una donna” – probabilmente per Lydia. In ogni caso, qualsiasi lettura ne venga data, il senso non cambia: c’è qui un anticipo del percorso successivo, di un’apertura totale a qualcuno che è altro da sè.
2. C’è una differenza fondamentale fra l’aspettare e l’attendere. Aspettare implica qualcosa che ho già previsto, che già conosco, che è già definibile dal mio pensiero e dalla mia immaginazione; l’attesa è invece la disposizione d’animo di chi apre l’animo all’imprevisto, a qualcosa che viene da fuori, non circoscrivibile nei limiti del proprio orizzonte.

Testa a testa con Gesù

C’è però la necessità di una scelta, di una decisione per l’esistenza:

urge la scelta tremenda
dire sì, dire no
a qualcosa che so

Un’ansia di trascendenza che lo percorre, l’aspirazione a una vita grande e piena. Abbandonato il fascino che ha esercitato per breve tempo su di lui il misticismo orientale, ritorna forte l’influenza dell’educazione paterna e con essa il pensiero di Mazzini: l’uomo deve tendere a realizzare nella concretezza un’”Idea”, che porterà così l’intera umanità verso un progressivo innalzamento ad una vita ideale di unanimità universale. Sono le forze dell’uomo che devono incarnare a poco a poco un’idealità trascendente. Ma – come ha ben sottolineato don Divo Barsotti – “l’idea non basta a dare un contenuto alla vita, perché quello che dà un contenuto alla vita è l’amore e l’amore implica il rapporto con una persona. […] Era affascinante, questa vita tesa verso l’ideale naturalmente attirava, affascinava le anime. Tuttavia – diceva – non c’era vero amore. L’amore implica un rapporto personale e non è personale soltanto in chi ama, è personale anche in chi è amato”.
C’è un profondo insegnamento in questo: i valori, anche se incarnati nella realtà, non bastano a colmare il desiderio dell’uomo, non bastano a renderlo felice, non bastano a renderlo protagonista di una vita “buona”.
C’è il desiderio di un Volto che ama e di un Volto da amare. È qui che si affaccia la figura di Cristo, che a poco a poco diviene il centro degli affetti del poeta. Quello di Rebora è un vero e proprio innamoramento per Cristo che – come sottolineerà più tardi, in Curriculum vitae – fin da quando lui era lontano da Dio lo chiamava a sé, non lo lasciava tranquillo (sin dal Battesimo che, anche se ignorato, operava segretamente in lui). Alla fine della sua vita rileggerà l’intera esistenza proprio in questo modo: come un insieme di segni in cui Dio segretamente ma incessantemente operava (il manifestarsi del mistero è nel segno).
Innamorarsi di Cristo ha significato per Rebora consegnare a lui l’intera esistenza fino a divenire, a 51 anni, sacerdote all’interno dell’ordine rosminiano con una duplice consapevolezza:
a. è necessario vivere l’appartenenza a Cristo in un’obbedienza a quella “forma” che ci è stata data come vocazione perché solo attraverso questa il Volto dell’Amato si fa più luminoso. Così nel Gran grido parla di Rosmini, come “d’uno che, fisso al Volto di Dio, / al Crocifisso Amore infinito, / legge – adorando, tacendo, godendo – / nel Trinitario circolar mistero / la verità delle infuocate nozze”.
b. questo porta al sacrificio di sé, a un’umiltà che non è umiliazione, ma il riconoscimento che Dio è tutto. Così recita il voto da lui emesso sub gravi, con l’approvazione del superiore, sin dal momento della sua ordinazione: “Mio Signore e mio Dio, faccio voto di chiederti in ogni tempo la grazia di patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’opera del tuo Amore”.
Cos’è questo “annullamento” di Rebora?
È anzitutto il riconoscimento di essere peccatori. “Da un nulla colpevole mi facesti un nulla peccatore: e ora fa’ di questo mio nulla tutto quello che vuoi”: non è semplicemente la coscienza di aver infranto la legge (questa è la colpa) – perché ciò non produce nulla –, ma la coscienza del proprio allontanamento da una Presenza che c’è e che colma il suo bisogno umano.
È inoltre affidamento totale a questa Presenza reale sulle cui spalle Rebora china il suo capo, anzi al cui capo avvicina il suo. A questo proposito è bello citare un episodio che ha ricordato monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, che lo ricorda – lui giovane confratello – alla Sacra di San Michele: “Ogni volta che veniva lassù, chiedeva con umiltà all’abate di avere la cella vicina alla cappella interna; non solo, ma chiedeva il “permesso” – cosa davvero incredibile – di disporre il letto in modo che fosse rivolto verso la parete della cappella. Diceva: «Così riposo testa a testa con Gesù»”.

Polverizzato nell’amor di Cristo

Tutto il segreto della santità sta in queste due parole: affidare e confidare”: così Rebora commenta il salmo 26 (quello da cui sono partite le nostre serate) in una Bibbia densamente annotata degli anni del suo sacerdozio.
Questa unione totale con Cristo non può che produrre un frutto:

La grazia di patir, morire oscuro,
polverizzato nell’amor di Cristo:
far da concime sotto la sua Vigna,
pavimento sul qual si passa, e scorda,
pedaliera premuta onde profonda
sal la voce dell’organo nel tempio –
e risultare infine inutil servo:
questo, Gesù, da me volesti
” (Notturno)

Tutto ciò è dunque per un compito: la generazione di una vita nuova con Cristo. Alla positività del reale, già riconosciuta in precedenza, l’uomo contribuisce in virtù della Grazia di Dio.

Rimane un ultimo passaggio, quello che Eugenio Montale ha definito “la parte più inebriante del suo Curriculum vitae”: la malattia, una serie di attacchi, di ictus probabilmente che lo colpì negli ultimi cinque anni e che lo portò progressivamente alla paralisi. La poesia, scomparsa quasi totalmente dalla vita di Rebora per una trentina d’anni risorge, anche su sollecitazione dell’amato fratello Piero (e dei suoi superiori): abbiamo così i Canti dell’infermità e il Curriculum vitae.
Leggiamo il racconto del suo superiore al momento dell’insorgere della malattia: “Lo trovo impossibilitato a muoversi: paresi destra. «Don Clemente mio – gli dico – che mi state combinando?» «Padre – mi risponde tutto sorridente e luminoso – Dominus tetigit me»”. Il Signore mi ha toccato. Ancora una volta Dio non lo lasciava tranquillo.
Nei primi momenti della malattia Rebora può ancora scrivere. Nell’archivio di Stresa c’è un quadernetto con molte sue annotazioni in una scrittura tremolante di chi fatica a usare la penna. Molti i ricordi della sua passata esistenza. Fra questi largo spazio ne occupa uno relativo al suo ministero sacerdotale, che diventa assai significativo in questi anni di sofferenze: l’accompagnamento al momento della morte di una giovane donna milanese, Picciola Della Porta. È il preannuncio del suo dramma, del rapporto drammatico che l’io di Rebora vive con il Tu di Cristo (anche questo è un insegnamento che Rebora ci può dare: l’uomo non si può concepire – mai – da solo, solo il rapporto con un Tu salva e permette la piena comprensione di se stessi – non certo lo scavo nell’interiorità, di cui non c’è traccia in queste ultime poesie).
Leggiamone un passo, con le parole della donna: “Sono superata dalla sofferenza. Sono internamente tutta una piaga. Io sono limitazione. Sento che non ho ancora incominciato niente. Solo Lui è e fa tutto. Come siamo lontani dalla realtà. Solo lui, Tutto. […] (Tra spasimi indicibili mi guardava dal volto Gesù crocifisso, esterrefatto di strazio) Ormai anche nel volto, Picciola si conforma al crocifisso, crescendo nella consumazione la grandezza splendida degli occhi”.
Il volto della donna che vive la sofferenza come unione con Gesù diventa per lui il volto stesso di Cristo crocifisso.

Attraverso l’oscurità dolorosa l’incontro con l’amato

E Rebora vive nel suo letto di dolore la sofferenza come conformazione sempre più piena a Cristo. Non c’è recriminazione, non c’è lamento per la sorte avversa che gli è toccata, c’è solo accettazione del presente – anche se di dolore – come la possibilità dell’incontro, oggi, con Cristo.
“Recriminare sul passato, evadere dal presente, preoccuparsi del futuro, ecco l’arma con cui il demonio fa maggiormente scempio di un’anima. Il nunc dell’Ave Maria distrugge tutta la baracca del diavolo)”.
E ancora: “la paura dello scoraggiamento è diabolica: via, via! La grazia può tutto. Stare al nunc e pregare”.
Se l’oggi è la sofferenza, Cristo si fa presente in essa. Tutto è vissuto solo nel suo nome (numerosi sono i cartigli conservati nell’archivio rosminiano di Stresa con la scritta “GesùMariaGiuseppe” e tutte le sue carte rimaste sono piene del disegno della croce).

Avvicinandosi il Natale

Oh Comunion vera e sol beata,
se con te, Cristo, sono crocifisso
quando nell’Ostia Santa m’inabisso!
Intollerabil vivere del mondo
a bene stare (1) senza l’Ognibene!
Penitenza scansar, che penitenza!
Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno,
con la tua Passion che vince il male,
Gesù Signore, dàmmi il tuo Natale
di fuoco interno nell’umano gelo,
tutta una pena in celestiale pace
che fa salva la gente e innamorata
del Cielo se nel cuore pur le parla.
O Croce o Croce o Croce tutta intera,
nel tuo abbraccio a trionfar di Circe, (2)
sola sei buona e bella, e come vera!
Abbraccio della Madre, ove già vince
nel suo Figlio lo strazio che l’avvince
.

Il pioppo

Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo;
spasima l’aria in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero
.

Siamo agli ultimi mesi della vita di Rebora. Così racconta il suo confratello infermiere, Ezio Viola, nel bellissimo diario che ci ha lasciato (pubblicato da La Locusta e successivamente da Interlinea): “Le sofferenze del padre debbono essere terribili; lo si intuisce da frasi ed esclamazioni laceranti. […] Tra me e Dio c’è un muro! Non sento più nulla!”
E ancora: “O Maria, fa che io non perda Gesù”.
È il passaggio più terribile, il passaggio attraverso l’oscurità del Volto di Dio, la sensazione dell’abbandono, riflesso del peccato nostro e di quello degli altri uomini. È quasi paradossale: una lontananza che in realtà è una ancora più perfetta conformazione a Cristo nel portare, con Lui, il peccato del mondo.
Leggiamo ancora dal diario del suo infermiere:
“Allora mi avvenne di osservare un fatto molto strano: improvvisamente voltò lo sguardo verso sinistra, e con volto radioso, completamente trasfigurato, come mai m’era stato dato di contemplare, fissava, perfettamente immobile, la parete. Senza accorgermi, mi trovai in ginocchio e chiesi ripetutamente cosa vedesse; dopo qualche mia insistenza si voltò verso di me, mi sorrise e all’istante fu colpito da un attacco di paralisi che gli andava deformando paurosamente la parte sinistra del volto”.
Tutto era ormai compiuto. Il Volto dell’Amato si era nuovamente fatto presente, questa volta per l’eternità.

NOTE
1. Non è il bene stare che dà la pace, ma la salvezza che viene da Cristo, l’abbraccio della Croce
2. È la vittoria sull’inganno di chi fa perdere la strada, di chi, pur essendo donna, non porta la salvezza. Già negli anni prima della sua adesione al cristianesimo, in un corso scolastico su La donna e la vita – conservatoci negli appunti di Lina Lavezzari, una delle sue auditrici – Rebora evidenziava la differenza fra Circe, che attira i naviganti con il suo fascino e li ferma a sé, e Maria, colei che conduce a Cristo, che è Bellezza, Bontà e Verità.

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