Più passa il tempo e più Solženicyn si impone e si chiarisce nella sua «essenziale inattualità»; è inattuale in quelli che sono i punti fermi della sua creazione: la riscoperta di un senso unitario del reale in un mondo dominato dalla divisione; la riscoperta della persona irriducibile e misteriosa in un mondo profanato, nel quale tutto è a disposizione per gli usi più incontrollati; la riscoperta della bellezza nel mondo sfigurato dei campi. Eppure proprio questi punti fermi così inattuali – unità, irriducibilità della persona e bellezza – sono anche tra le cose di cui il mondo contemporaneo ha maggiormente bisogno, quelle, essenziali, di fronte alle quali lo sguardo si sofferma con maggiore sorpresa ad ammirare.
La grande biografia che Ljudmila Saraskina ha dedicato a Solženicyn si è lasciata opportunamente determinare da questa essenzialità, e la sua sterminata quantità di materiali1 è tutta percorsa e organizzata attorno a questi nodi, secondo una felice coincidenza di metodo e contenuto, così che la preoccupazione principale della biografa, capire Solženicyn come un intero, «nella sua interezza» e in quello che è il suo cuore ultimo (al di là delle polemiche in cui venne trascinato e delle riduzioni con le quali venne ed è tuttora letto), è anche l’oggetto che viene via via scoperto, in parallelo con la ricostruzione della vita e delle opere dello scrittore. Se «nel genio, come in ogni essere umano, tutto è unito, organico», non meno organica e unita deve essere la descrizione della sua storia. Solženicyn è un unicum unitario con un centro di significato che dà luce ad ogni particolare della sua esistenza e che permette di ricreare tutto il mondo nel quale è vissuto; aspetto, questo, per nulla trascurabile in una biografia: l’autrice, scavando il proprio personaggio fin nei più minimi particolari non perde di vista l’intero e, ancora di più, ricrea tutto un mondo, spesso ancora totalmente ignorato o troppo trascurato.
Così noi, seguendo questa biografia, innanzitutto cominciamo
a scoprire una vocazione letteraria sorprendentemente
precoce; in effetti, per chi si era abituato a ridurre Solženicyn allo scrittore dei campi, non potrà che essere sorprendente scoprire che l’idea di diventare uno scrittore appare già nel Solženicyn poco più che bambino e si precisa poi con l’idea di un romanzo non sui campi, ma sulla rivoluzione, addirittura nel novembre del 1936, in un giovane quindi che non ha ancora compiuto diciotto anni. E quella che poi diventerà La ruota rossa (opera iniziale dunque ma nello stesso tempo opera della vita e di tutta una vita, compiutamente intrapresa ed elaborata solo dopo le altre grandi creazioni) verrà appunto intesa come un tentativo di «riannodare il nesso dei tempi». L’aspirazione a ricostruire l’unità in un mondo in frantumi è dunque il primo punto fermo.
Solženicyn nasce in un paese dilaniato da una crisi mai vista prima, una crisi le cui origini andavano ben al di là della rivoluzione e della guerra, e rispetto alla quale la vicenda di Tolstoj, con il suo allontanamento dalla Chiesa e con lo scisma tra la Chiesa stessa e l’intelligencija, è solo uno degli esempi: il mondo ha perso le sue assisi secolari. Questa crisi esplode con una deflagrazione mondiale nella quale la fine di quattro imperi è ancora una volta soltanto un esempio di una tragedia se possibile ancora più ampia; la tragedia sarà compiutamente manifesta con la fine del modo di vivere tradizionale che si compirà a cavallo degli anni Trenta, attraverso la serie inestricabile e omicida di industrializzazione, collettivizzazione forzata, dekulakizzazione, carestie artificiali, grande terrore: un’opera di ingegneria sociale, prima che una lotta per il potere e per un suo nuovo assestamento; al culmine di questo processo spariranno le persone, ma con loro sparirà anche la memoria della loro vita e del senso stesso del loro vivere. Poi sarà la guerra e invece della rinascita verrà una nuova serie di divisioni, storiche e personali, dalla cortina di ferro all’espulsione dello scrittore nel 1974, sino alle polemiche che sostituiranno spesso al Solženicyn reale una figura di comodo, facilmente contestabile (teocratico, fondamentalista, antidemocratico, ecc.), ma totalmente irreale; come era irreale, ad esempio, accusarlo di antisemitismo nel momento stesso in cui altri dicevano che dietro il russo Solženicyn si nascondeva l’ebreo «Solženicer».
A questo parossismo di frantumazione Solženicyn risponde con un’aspirazione continua ed esplicita ad essere un «cerchio che unisce», un punto in cui viene raccolta «l’eredità degli avi», in cui i tempi, gli uomini, ogni singolo uomo e l’umanità ritrovano i loro legami reciproci, interni e con il loro creatore; se il mondo era andato in crisi, prima della rivoluzione, e se oggi cade in una nuova e diversa crisi, le motivazioni non erano e non sono mai soltanto esteriori (politiche, economiche, ecc.), ma vanno sempre identificate a livello dell’essere: il mondo ha «perso l’essere», diceva Blok subito dopo la rivoluzione, e Solženicyn con le proprie opere declina questa perdita nelle maniere più diverse, facendo però vedere nello stesso tempo che la divisione non ha mai la meglio sull’unità e sulla libertà dell’uomo; anzi, è anch’essa un’occasione offerta a questa libertà perché possa manifestarsi. Non è un caso che pochi mesi prima della morte del padre, i figli di Solženicyn, rispondendo a chi chiedeva loro che cosa avrebbero raccontato del nonno ai propri bambini, abbiano indicato «la convinzione che il destino dell’uomo non sia plasmato dalle circostanze».
Quello del primato della libertà rispetto ad ogni condizionamento delle circostanze e dell’ambiente è un altro dei temi che attraversa l’intera biografia di Solženicyn, con toni che richiamano spesso delle eco dostoevskijane (e anche questo non è un caso perché l’autrice è tra l’altro una grande studiosa di Dostoevskij). Così, mentre riviviamo le vette e gli abissi cui è giunta l’umanità nel XX secolo, mentre siamo messi di fronte alla denuncia e alla condanna di questi abissi come alla consolazione di una possibilità di salvezza mai venuta meno, tornano alla mente le parole di Dostoevskij: «No, il popolo non nega il delitto e sa che il delinquente è colpevole. Il popolo sa soltanto che anch’esso è colpevole insieme con ogni delinquente. Ma, accusandosi, esso dimostra appunto di non credere all’“ambiente”, di credere anzi che l’ambiente dipende interamente da lui, dal suo ininterrotto pentimento e autoperfezionamento. L’energia, la fatica e la lotta, ecco i mezzi con cui si trasforma l’ambiente. Soltanto con la fatica e la lotta si ottiene l’originalità e il senso della propria dignità. “Lo otterremo, saremo migliori, e anche l’ambiente migliorerà”. Ecco quello che sente fortemente, senza dirlo, il popolo russo con la sua idea nascosta che il delinquente sia uno sventurato […]. Il popolo, chiamando “sventurato” un delinquente, non ha mai smesso di considerarlo un delinquente». È uno dei paradossi della libertà, quella relazione fondamentale dell’uomo con l’infinito, che lo costituisce e che lo chiama ad essere a sua volta infinito (cioè, appunto, irriducibile all’«ambiente»). In quanto tale la libertà è il segno della grandezza incomparabile dell’uomo, che non è mai determinato dalle circostanze ad essere quello che è; ma nello stesso tempo essa è anche la possibilità di imputargli a colpa ogni sua mancanza ed ogni sua miseria e, insieme, la possibilità di guardarlo, di guardare questo stesso uomo – infinito nella sua libertà – con l’infinita misericordia con la quale lo guarda il creatore della libertà.
Ljudmila Saraskina, ricostruendo questo aspetto della storia di Solženicyn, ricostruisce così tutto un mondo di figure luminose, tanto più luminose quanto più sorprendente e misteriosa è la loro grandezza, sullo sfondo della smisurata miseria dell’uomo e del suo mondo: sono i giusti di cui sono piene le opere di Solženicyn, giusti come Matrëna e tanti altri, che nessuno vede e valuta nella loro giustizia, ma che non sono soltanto il frutto della fantasia dell’artista; qui infatti abbiamo un’intera galleria di questi giusti tratti dal mondo delle cose di tutti i giorni. E non può più uscire dalla memoria, ad esempio, la figura del colonnello Travkin (già ricordato da Solženicyn nell’Arcipelago GULag), che nel momento dell’arresto dello scrittore gli manifesta in diverse maniere una solidarietà umana impensabile in un ufficiale dell’esercito sovietico di fronte a un suo sottoposto arrestato dai legittimi e «mitici» rappresentanti del potere che lui stesso, il colonnello, sta difendendo; in questo modo il colonnello non solo ci mostra di essere rimasto, per conto proprio, un uomo, ma ci fa intendere come questa umanità sia fonte e testimonianza di un’unità ben più potente e libera di tutti gli stereotipi imposti dal regime: «La “linea degli appestati” che separava l’“appestato” comandante di batteria dal colonnello di brigata per un minuto si dissolse, e si materializzarono istanti impensabili, favolosi».
A ben vedere, però, gli istanti che si aprono attraverso queste figure sono impensabili e favolosi solo in un senso molto relativo, solo per chi, tradendo la propria natura, si lascia condizionare dalle circostanze e, in questo modo, lasciando distruggere il proprio io, guarda a tutti i propri simili come a degli oggetti definiti soltanto dall’immagine che viene loro sovrapposta dal regime (nemico del popolo, traditore, servo del capitalismo occidentale, ecc.). In effetti, questi giusti, affascinanti e radiosi, senza i quali «non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra», non sono una favola, sono la realtà più autentica; e il proverbio che ne ricorda la forza reale non è una pia tradizione popolare o un’invenzione dell’artista, ma la sua presa d’atto di come funzioni la vita reale di tutti i giorni, nelle campagne, come nell’esercito o nella redazione di una grande rivista. È un altro dei paradossi di questo libro e della storia che esso narra: un regime che distruggeva gli esseri umani, che ne annullava l’identità, l’io, e che pretendeva in questo modo di creare una nuova socialità senza più egoismi, alla fine si trovava costantemente senza un vero popolo, mentre da questi impensabili giusti che rinascono potenti – pur con tutti i loro limiti e attraverso tutti i loro limiti – non viene il trionfo dell’egoismo ma una dedizione a tutta prova che forma un popolo autentico, un popolo che non tradisce o fugge davanti al nemico, ma combatte e vince, l’invasione nazista come la peste sovietica.
Oltre a Travkin, il libro ci ricorda dunque un popolo; un popolo sorprendente, per certi versi inatteso, e comunque fuori dagli schemi che spesso ci si era fatti rispetto al mondo sovietico e alla distruzione della società civile che esso aveva metodicamente perseguito e realizzato, un popolo così sorprendente che lo stesso Solženicyn per definirne i membri utilizza il termine «invisibili»: sono i numerosi e diversi collaboratori nascosti (ai quali egli dedicò a sua volta un libro intitolato, appunto, Gli invisibili), che in mille modi, mentre in superficie si assisteva al trionfo della menzogna, sostennero il lavoro e l’esistenza dello scrittore. Tra gli invisibili abbiamo così le 227 persone che aiutarono Solženicyn a raccogliere i materiali per l’Arcipelago, persone che agirono rischiando tutto e con la quasi assoluta certezza che nessuno avrebbe mai potuto ringraziarle personalmente per quello che facevano (perché anzi il segreto attorno al loro nome era l’unica garanzia di non essere perseguitate); e invece prima della fine della vita Solženicyn riuscì a dirne, ormai in sicurezza, tutti i nomi, pubblicandoli prima su una delle ultime edizioni dell’Arcipelago e chiedendo poi, attraverso la moglie, che questi nomi potessero apparire su una grande parete nella mostra che nel 2008 si stava organizzando per il Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini: nomi sconosciuti, nomi famosi, ma tutti uniti, appunto, a formare un popolo. L’unità ha in questo senso il volto e il nome dell’amicizia, come ricorda Ljudmila Saraskina, là dove cerca di spiegare donde traesse Solženicyn tanta forza e tanta intelligenza nelle sue battaglie: «“Io penso – scriverà Solženicyn – che quel giorno mi battei così bene anche perché ero arrivato da quei porci di scrittori lasciando il letto di morte di uno zek”. Tenno, che stava morendo di cancro, aveva benedetto l’amico perché vincesse la battaglia»; Tenno era un amico degli anni del lager, figura immortale di «fuggiasco convinto» nell’Arcipelago e qui nuovamente reso immortale in nome di questa amicizia, cementata sul letto di morte, come viatico per combattere la buona battaglia.
Amicizia, solidarietà: in queste pagine, tra lo squallore della viltà e dell’arrivismo, dà dunque prova di sé un popolo unito e solidale, nelle grandi gesta come nelle piccole cose. Tra gli invisibili abbiamo allora tutti coloro che aiutarono Solženicyn nelle maniere più prosastiche, dandogli un tetto sotto il quale scrivere, un rifugio nel quale stare al sicuro dagli attacchi della polizia, una mano per fotografare o trasferire i testi pericolosi (tutti); ma anche quelli che lo aiutarono in maniere molto più elevate, dandogli una mano per sfondare, dall’interno, il muro impenetrabile della fortezza ideologica e consentirgli di pubblicare cose impubblicabili. Con una felicissima formulazione, la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovič viene definita «un miracolo impossibile nella realtà, che alcune persone avevano realizzato insieme»: il miracolo, l’impensabile, il favoloso, divenne possibile proprio grazie a questi invisibili, diventati, senza pianificazione, un popolo. Abbiamo così la figura di Anna Berzer, «la più fedele cavallina del Novyj mir, che tirava la carretta senza mai una recriminazione», l’avrebbe teneramente definita Solženicyn nella Quercia e il vitello, dopo aver ricordato che anche con lei era nata quella cosa decisiva che è una «calda amicizia»; la sconosciuta redattrice della sezione prosa di Novyj mir, posta di fronte a Ivan Denisovič, percepisce con sicurezza la verità ultima di quello che sta accadendo: il dattiloscritto che ha di fronte non è semplicemente un testo letterario col quale si gioca la fortuna di un autore, ma un’opera dalla quale dipende il destino di tutta una letteratura e forse del mondo, e per questo val la pena spingere e muovere quello che non potrebbe o non dovrebbe essere spinto o mosso. E alla «piccola» Anna Berzer risponde il grande e famoso direttore e poeta Tvardovskij, che dopo aver letto di malavoglia, giusto per prendere sonno, qualche riga del testo, si rende conto che quella notte non avrebbe più dormito; e in effetti non dormirà, e le conseguenze di quella sua notte insonne toglieranno poi il sonno a molti altri.
Dopo queste pagine dovremo guardare con più misericordia e verità alla sua figura: con la stessa maggiore comprensione con la quale lo avrebbe guardato, come ci ricorda L. Saraskina, lo stesso Solženicyn dopo le durezze delle prime parti della Quercia e il vitello, con la stessa maggiore comprensione e completezza con la quale, seguendo la sua biografa, dovremo imparare a guardare anche Solženicyn e tutti i suoi possibili, umanissimi, errori, inseparabili dal suo cuore e chiusi in esso come un intero.
Di esempio ci sono qui due figure non propriamente invisibili, anzi due grandi della cultura russa, come Nikita Struve (profondo studioso di letteratura e cultura russa e anima della casa editrice YMCA Press che pubblicò per prima i testi di Solženicyn) e padre Aleksandr Šmeman (uno dei teologi russi più interessanti del XX secolo) che, proprio sulla questione dei limiti di Solženicyn, combattente spesso rude e sbrigativo («privo di dolcezza, di compassione, di pazienza; […] sospettoso, chiuso, superbo»), seppero indicare un criterio di giudizio autentico, non perché capace di portare alla condanna o all’assoluzione – «chi è il biografo per pretendere di giudicare?», si chiede all’inizio del suo lavoro L. Saraskina –, ma perché atto ad aprire alla comprensione; questo criterio era ed è l’amore per la verità in tutta la sua inesauribilità, l’amore per il mistero della verità e del cuore dell’uomo, che un uomo non può pretendere di possedere e di dominare. Se nella controversia tra Solženicyn e i suoi avversari Šmeman, che pure non condivideva affatto certi atteggiamenti di Solženicyn (quasi «un bolscevico alla rovescia»), prese le sue difese, lo fece proprio per questa sua maggiore, totale, sensibilità al mistero; la corrente avversa a Solženicyn, osservò allora padre Aleksandr, «non sopporta la verità. E non la sopporta perché si ritiene portatrice della “verità” in ogni specifico momento, in ogni situazione», lo scrittore invece, con tutti i suoi limiti, aveva assolutamente radicata questa coscienza dell’irriducibilità della vita alle proprie misure.
E questa convinzione – la certezza circa l’irriducibilità della vita alle misure dell’uomo – era tanto più radicata, e tanto più si andava rafforzando in Solženicyn col passare degli anni, in quanto era frutto di un’esperienza lunga e dolorosa, quella della rinascita personale del suo cuore, che aveva dovuto imparare a proprie spese quanto fosse riduttivo e corto lo sguardo umano finché credeva di poter dominare il reale. «Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta che esso sia un atto d’accusa politico», o morale, religioso, estetico, potremmo aggiungere noi come lettori di una biografia e come storici della cultura, «fosse così semplice! Se da una parte esistessero uomini neri che perfidi compiono nere azioni, e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che divide il bene e il male attraversa il cuore di ogni uomo. E chi può distruggere un pezzo del proprio cuore?… Nel corso della vita di un cuore questa linea si sposta, ora incalzata dal male gioioso, ora per fare spazio al bene che sboccia. Uno stesso uomo, nelle diverse età, nelle diverse situazioni della vita, è un uomo del tutto diverso. Ora è vicino al diavolo. Ora al santo. Ma il suo nome non cambia, e noi gli attribuiamo tutto».
È lungo questo percorso – non di giudizio, condanna o assoluzione, ma di comprensione dell’infinito del cuore – che il lettore di questa biografia è chiamato a muoversi, come lo è il lettore delle opere di Solženicyn; e un lavoro non di giudizio ma di comprensione, per essere tale, per comprendere veramente, non deve nascondere nulla.
La biografia di Solženicyn ci offre in questo senso la possibilità di seguire il cammino di purificazione e di liberazione del suo (e nostro) io: prima, liberazione dalla irresponsabilità del giovane conquistato dagli ideali della rivoluzione e del marxismo, così irresponsabile che non vedeva neppure il male che si consumava attorno a lui; poi liberazione dalla presunzione di chi credeva di poter risolvere tutto con la propria intelligenza e con la propria forza. Solženicyn, infatti, si libererà dall’illusione di poter dominare la realtà solo nella prigione e col cancro, quando avrà visto dove avrebbe potuto portarlo questa illusione: alla violenza esercitata contro chi non si piegava al potere, alla violenza esercitata contro la realtà che non si adeguava all’immagine che di essa si faceva il soggetto. «È puro caso se i boia non siamo noi, ma loro», avrebbe commentato questa possibilità Solženicyn, comprendendo nello stesso istante che solo rinunciando a dominare e a possedersi, a giudicare e a condannare, si poteva cominciare realmente a capire, a vivere e a corrispondere alla propria vocazione. In effetti Solženicyn diventa realmente lo scrittore che aveva sempre voluto essere, proprio quando capisce che «io non ero io e il mio destino letterario apparteneva non a me, ma a tutti quei milioni che non erano arrivati a finire di scarabocchiare, sussurrare, esprimere con l’ultimo rantolo la loro sorte di prigionieri, le loro scoperte tardive nei lager».
La dimensione ultima, il cuore, il senso unitario, dell’esistenza di Solženicyn e della sua arte, del suo «io» e del suo «destino letterario», si palesa qui in tutta la sua profondità squisitamente religiosa e cristiana: è solo rinunciando ad appartenere a se stessi, cominciando ad ascoltare «pazientemente » quello che non rientra nei propri «progetti», che ci si ritrova pienamente, che non si perde il proprio io o si pretende di cambiarlo con qualche inesistente io ideale, ma lo si ritrova migliore. E questo è un cammino che non si interrompe mai, così che uscendo da questa vita, come disse più volte Solženicyn, ci si riscopra migliori di quello che si era all’inizio: «la nostra vita sulla terra non è che un gradino intermedio sulla salita verso una vita superiore. Non dobbiamo precipitare da questo gradino né dobbiamo rimanere a calpestarlo inutilmente per tutto il tempo che ci è concesso», avrebbe precisato nel suo discorso per il premio Templeton.
È un cammino di rinascita, o più propriamente di risurrezione, che passa inevitabilmente attraverso la croce, come ben sa Solženicyn e sanno i suoi personaggi, primo fra tutti quel Sanja Laženicyn che, nella Ruota rossa, è un po’ il padre dello scrittore e un po’ lo scrittore stesso: «Come si dice, una tomba senza incenso non è che un buco nero. E tanto più senza croce. Senza croce? Per me non è più il cristianesimo», dice in Ottobre 1916.
Ma passando attraverso la croce, esattamente come la croce, questo cammino non è la perdita del reale ed è piuttosto il suo ritrovamento più autentico. Non deve sfuggire qui che il percorso di liberazione dell’io e di formazione del grande artista è un percorso di ritrovamento della realtà; e in questo senso vanno valutate nella loro giusta profondità – e vanno rilette nelle opere di Solženicyn – le pagine in cui L. Saraskina tratteggia la riscoperta della realtà semplice di tutti i giorni, non ideologica, da parte del giovane Solženicyn. Sarà la realtà della campagna e del lavoro (nelle parti iniziali della Ruota rossa dove Solženicyn ricostruisce la storia della propria famiglia e di una Russia che ancora respira), sarà la realtà dei cavalli con i quali il novello laureato deve avere a che fare all’inizio della sua carriera militare e, salendo poi dalle realtà più basse a quelle sempre più alte, sarà alla fine la realtà degli esseri umani e della loro complessità (primi fra tutti saranno qui i compagni di prigionia, con i quali scoprirà la possibilità di parlare del reale e di guardarlo, senza stravolgerlo secondo le prescrizioni dell’ideologia); comunque sia, in queste diverse realtà, quello che rimarrà sempre costante sarà il fatto che la realtà è tanto più vera e tanto più profonda quanto più non è fatta da mano d’uomo, quanto meno è artefatta.
È questa la chiave della famosa Preghiera di Solženicyn: «Quando il mio intelletto confuso si ritira o viene meno, quando gli uomini più intelligenti non vedono al di là di questa sera e non sanno che fare domani, Tu mi concedi la chiara certezza che esisti e ti preoccupi perché non vengano sbarrate tutte le vie che portano al bene»; dove il senso del mistero delle cose – il loro non essere fatte da mano d’uomo, il loro essere indisponibili e in qualche caso persino minacciose – si chiarisce e si compie nel senso dell’appartenenza ad un creatore nel quale tutto diventa chiaro e pacificante, senza essere posseduto e dominato.
Ma questo è anche il senso della creazione artistica, della bellezza, che, per il Solženicyn artista, non è l’invenzione arbitraria di un genio che «suona sulle corde del vuoto». Non è un caso in questo senso che Tvardovskij avesse apprezzato Ivan Denisovič proprio perché non era stato scritto da un intellettuale e in esso non vi avevano preso spazio le solite fantasie degli intellettuali, costretti dal realismo socialista a sostituire la realtà data con il suo «sviluppo rivoluzionario». E non è un caso che, sempre in Ivan Denisovič, il protagonista volti indignato le spalle a dei compagni di prigionia che hanno trasformato l’arte in qualcosa di così artefatto da essere diventato ormai una «fantasia irresponsabile». Anche per riscoprire questo Solženicyn avrebbe dovuto percorrere il lungo cammino che ci viene proposto dalla sua biografa, e alla fine avrebbe ritrovato che la propria creazione era possibile esattamente se e nella misura in cui scopriva quello che aveva scoperto a proposito del proprio io, e cioè che quandoscriveva, come quando viveva veramente, era «come se io non fossi io». L’io ritrovava la sua potenza suprema, quella della creazione artistica, proprio rinunciando a se stesso; diventava tanto più creativo e originale quanto più rinunciava ai propri punti di vista e alle proprie opinioni e sensazioni parziali per «porsi al di sopra dell’ira e percepire la realtà dal punto di vista dell’eternità».
E, paradosso tra i tanti paradossi che questa biografia mette in luce, non andrà dimenticato che proprio questa arte, così radicata nell’eternità, così refrattaria a lasciarsi assorbire o confondere con la politica, fosse anche capace di dare uno sguardo sulle cose di tutti i giorni la cui acutezza deve ancora essere colta, discussa, ed eventualmente anche criticata, sino in fondo. Si potrà ad esempio discutere senz’altro sul valore della glasnost’ e dei cambiamenti che essa ha introdotto nella storia politica della Russia, ma a patto di non di menticare che uno dei primi ad aver indicato questo principio come uno dei fondamentali per il cambiamento del paese era stato proprio Solženicyn quando, in uno dei suoi primi e più importanti interventi pubblicistici, la Lettera aperta alla segreteria dell’Unione degli scrittori della RSFSR del 12 novembre 1969, aveva scritto: «La trasparenza (glasnost’), l’onesta e piena trasparenza: ecco la prima condizione per la salute di qualsiasi società…».
Non fare i conti anche con questo significherebbe venir meno a quello che è il compito principale di chi voglia veramente incontrare un autore o, più radicalmente, vivere una vita pienamente umana, il compito che facendoci incontrare Solženicyn, Ljudmila Saraskina ha sin dall’inizio definito come il compito di guardare la realtà, la vita «secondo la totalità delle sue dimensioni».
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