“Metti a scongelare uno scrittore per stasera”: Alice Basso e il ritorno delle presentazioni in presenza
“Un anno di presentazioni online è come un anno di immobilità a letto per un bambino di due anni che ha imparato a camminare ieri e ancora, quando corre, a volte sbanda sbilanciato dal pannolino”. In occasione dell’uscita de “Il grido della rosa”, seconda esilarante avventura della dattilografa Anita Bo, su ilLibraio.it Alice Basso riflette (con la sua consueta auto-ironia) su cosa significhi riprendere a fare presentazioni letterarie in presenza, dopo un lungo periodo di eventi digitali: “Ho il sospetto che sia un po’ come reimparare ad andare in bicicletta, sì, ma in centro a Shanghai in un giorno di smog pesante”…
E così è successo.
Lo aspettavamo con ansia.
L’inverno è passato. È passata pure la primavera. I contagi hanno iniziato a calare, sempre di più. Abbiamo iniziato a vaccinarci, sempre di più. E il momento è tornato: il momento di uscire di nuovo, di rimettere fuori casa il nostro naso lessato dalle luci dei display, di imparare a fare con le scarpe ai piedi tragitti più lunghi della corsia dei freschi della Coop, di differenziare le lavatrici perché di colpo la vita non è più solo un’alternanza di pigiami.
In tutto questo, è successa anche un’altra cosa.
Hanno scongelato noi scrittori.
Dopo un anno e mezzo di presentazioni online, stanno ricominciando gli incontri in presenza.
“Ricominciando”, fra l’altro, è un eufemismo. “Ricominciando” fa pensare a una ruota che pian pianino riprenda a girare, a un alluce che sfiora l’acqua della piscina prima che ci si reimmerga con cautela, bagnando bene prima la pancia, e si riprovi a dare qualche bracciata. Un accidente. Io ho un libro fuori da un mese e il mio calendario fino a settembre sembra il tour della reunion di Simon & Garfunkel. Merito di un ufficio stampa particolarmente efficiente, certo; ma l’impressione è che là fuori ci sia tutto un mondo di gente ansiosa, veramente bramosa, di incontri vis-à-vis, di interazioni in 3D, di mimica facciale e scambi di battute e tutte quelle cose che fanno la differenza con gli scorsi diciotto mesi di faccioni dipinti su un tablet.
Anche noi scrittori siamo ansiosi. Oh, potete scommetterci. Non vediamo l’ora. Quello che stiamo iniziando a capire, però, è che non è così facile. È come se dovessimo reimparare tutto un codice su cui da un sacco di tempo non ci tenevamo in allenamento, e che già di suo, prima, non è detto che ci venisse naturale. Un po’ come ricordarsi le regole della circolazione stradale dopo un anno che non si guida – e magari dopo che, a suo tempo, la patente la si è pure presa con fatica.
Provo a spiegarmi.
Per capire cosa intendo forse posso proporvi una palettata di affaracci miei e portarvi indietro con me al 2015, il primo anno in cui mi sono dovuta confrontare con quell’effetto collaterale del pubblicare un libro con un bravo editore che prende il nome di “fare presentazioni in pubblico”.
Nel 2015 io ero esattamente come adesso: una scribacchina, patologicamente timida, logorroica repressa come il 70% dei patologicamente timidi, socialmente imbranata, e in più totalmente impreparata a parlare dei miei affari creativi privati – cioè dei miei libri – con altri esseri viventi che non fossero me medesima allo specchio. L’idea che potesse esserci gente interessata non solo a leggere, ma persino a sentirmi parlare delle mie storie e dei miei personaggi, mi gettava in uno stato semistuporoso e faceva di me una boccheggiante carpa appena pescata.
Nel maggio 2015, in successione rapidissima, 1) Garzanti ha pubblicato il mio primo libro, 2) mi è stato sottoposto un calendario fittissimo di incontri in biblioteche e librerie.
Ora, io, che conosco la mia imbranataggine sociale dall’interno e anche la lunga tradizione familiare che la accompagna (una zia una volta mi confessò: “Ma credi di essere l’unica timida, fra i Basso? Guarda che io mi congelavo anche solo se al citofono, quando rispondevo ‘Sono io’, mi chiedevano ‘Io chi?’”), ho un po’ il sospetto di essere stata un caso abbastanza limite; tuttavia, dai, siamo seri. Gli scrittori non sono animali sociali. O meglio: se c’è una categoria professionale nella quale è più frequente trovare dei timidoni impacciati, è quella degli scrittori (e degli ingegneri, ma questo è un altro discorso. Vi faccio presente che, per non farci mancar niente, fra i Basso si contano molti timidi e anche molti ingegneri). Quindi, mutatis mutandis, secondo me la mia esperienza può essere stata un filo sopra le righe, okay, ma non così tanto sopra le righe rispetto alla media dei miei colleghi.
E insomma, a me è andata così: nell’estate del 2015, come il classico bambino che viene buttato in piscina perché impari a nuotare o muoia, io ho arrancato a cagnolino fra una marea di incontri pubblici, ora esagerando a fare la persona seria e contegnosa, ora esagerando dall’altra parte, cioè scatenando la mia logorrea, ora azzeccando il giusto mezzo e poi passando i due giorni seguenti a ripercorrere paranoicamente con la memoria l’ultimo evento pubblico per accertarmi di avere davvero azzeccato il giusto mezzo, ora sprofondando nella vergogna ribeccando nel replay mnemonico qualche gaffe o roba che avrei potuto dire meglio, ora decidendo di avere davvero azzeccato il giusto mezzo, cedendo all’euforia, abbassando la guardia e facendo dunque uno schifo all’evento seguente.
Viene da chiedersi: dopo quanto tempo hai imparato?
Non ho imparato.
Dal 2015 al 2019, è andata costantemente così.
Certo, apprendi qualche malizia: “Se il conduttore cerca di interromperti, lascialo fare, perché probabilmente stai blaterando da un quarto d’ora senza rendertene conto e lui non ha il coraggio di mollarti un calcio sotto il tavolo”. “Se è una tavola rotonda, fai di tutto per non sederti a un’estremità, ché se il giro di risposte comincia dal tuo lato sei fregato, devi sparare la prima cretinata che ti passa per la testa mentre tutti gli altri avranno il tempo di organizzare una risposta brillantissima che farà sembrare te un pitecantropo appena strisciato fuori dal brodo primordiale”.
Però è un work in progress che non si ferma mai: ogni volta devi passare in rassegna le tue armi (“Battuta spiritosa: check. Propensione a buttarla in caciara o sull’aneddoto personale, che fa sempre simpatia: check”) e i tuoi punti deboli (“Logorrea. Tendenza a sminuire la tua preparazione. Senso di inadeguatezza. Logorrea l’ho già detto?”) e scendere in campo sperando che Dio te la mandi buona e che non piazzi sulla tua strada l’Opinionista Spocchioso o l’Intervistatore Lugubre (quello che intervista solo scrittori tristi).
Ti tieni in esercizio.
Bene o male ce la fai.
E poi arriva il 2020.
E col 2020 arriva la pandemia e con la pandemia l’isolamento e con l’isolamento arriva Zoom.
Ora. Scommetto che a questo punto è chiaro. Un anno di presentazioni online è come un anno di immobilità a letto per un bambino di due anni che ha imparato a camminare ieri e ancora, quando corre, a volte sbanda sbilanciato dal pannolino. Per intenderci: quando presenti il tuo libro online, è grasso che cola se vedi la faccia del tuo intervistatore. Di quelle del pubblico, neanche a parlarne. E neanche puoi seguire le domande, i commenti, le interazioni degli ascoltatori in chat: se lo fai, ti distrai, dunque un bravo moderatore ti nasconderà alla vista ogni chiacchiericcio virtuale e ti farà apparire a schermo solo le tre o quattro domande dal pubblico più significative, al momento opportuno.
Poi magari, a evento concluso, vai a rivederti la diretta, quando naturalmente non è più diretta ma rimane online. Vai a controllare come te la sei cavata. Rivedi la tua facciona, deformata dalla lente della videocamera del telefono, muovere la bocca con la tipica espressione ittica che assumi quando parli guardando te stesso che parli, e ti accorgi che intanto dal pubblico c’è stato tutto un turbinio di commenti, di battute, di esclamazioni e di spunti, che tu ovviamente non hai visto e dal quale non hai dunque potuto trarre la minima linfa per ravvivare il tuo blablabla.
Da un lato sei felice perché c’era gente, c’era movimento, c’era condivisione.
Dall’altro ti senti come il chitarrista alla festa del liceo: il tizio che suonava da solo, mentre tutti gli altri ballavano e si divertivano e qualcuno pomiciava pure.
Questo per mesi.
Ora è arrivata l’estate, sono arrivati i vaccini, sono arrivati gli incontri in presenza.
E noi scrittori, surgelati da mesi sui display come dietro al vetro delle celle frigorifere delle macellerie, siamo stati tirati fuori.
Come le bistecche per cena.
Il che significa, sempre in metafora ma neanche poi tanto, che ci dobbiamo scongelare. Che dobbiamo reimparare tutto da capo. Che dobbiamo rifare, possibilmente in fretta, tutto il percorso che la prima volta ci ha richiesto anni. Reimparare a parlare guardando le facce delle persone di fronte a noi. Reimparare a cogliere i segnali, gli umori, l’interesse. Reimparare a tenere il filo del discorso senza farci distrarre da “che simpatica quella adolescente in fondo a sinistra: avrà 14 anni, non so neanche bene cosa ci faccia qui, l’avrà trascinata la mamma, però quando ho fatto quella certa battuta è stata lei che ha riso per prima”. Reimparare a non farsi trascinare dall’entusiasmo e blaterare diciotto minuti per una domanda.
Io spero sinceramente che sia come andare in bicicletta – anche se ho smesso pure di andare in bicicletta e francamente non ho idea se quello che si dice sul saper andare in bicicletta sia vero. Ho il sospetto che sia un po’ come reimparare ad andare in bicicletta, sì, ma in centro a Shanghai in un giorno di smog pesante.
Be’, tanto lo scopriremo presto. Vi faccio sapere, magari ve lo racconto di persona.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani Sarca: L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Scrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittore, La scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.
Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta.
Ora torna con Il grido della rosa, la seconda avventura della protagonista di questa nuova serie di romanzi. Veniamo alla trama del nuovo libro: manca poco all’uscita del nuovo numero della rivista di gialli Saturnalia. Anita è intenta a dattilografare con grande attenzione, il suo lavoro le piace ogni giorno di più. Non solo perché Sebastiano Satta Ascona, che le detta la traduzione dei racconti americani pieni di sparatorie e frasi ad effetto, è accanto a lei. Ma soprattutto perché questa volta le protagoniste sono donne detective, brave quanto i colleghi maschi. Ad Anita sembra un sogno. A lei che le restrizioni del regime fascista stanno strette. A lei che ha ritardato il suo matrimonio per lavorare. A lei che legge libri proibiti che parlano di indipendenza e libertà. A lei che sa che quello che accade tra le pagine non può accadere nella realtà.
Nella realtà, se una donna aspetta un bambino fuori dal matrimonio, rischia che suo figlio venga adottato. E, se viene trovata morta davanti al cancello della villa dei genitori affidatari, si è trattato di un incidente. Quasi come se fosse andata a cercare una brutta fine. Questo accade a una ragazza di nome Gioia. Una ragazza che Anita non conosce. Ma non le importa. I suoi investigatori non attendono che ci sia qualcosa di personale per agire. Basta un indizio a far partire la loro intuizione. E così è per lei. Deve capire cosa sia successo veramente…
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