Vedere il tempo: Roberto Calasso e la lettura come meditazione
Roberto Calasso porta avanti ormai da quasi quarant’anni un lavoro letterario in più volumi, tanto elusivo che persino l’affibbiargli un nome preciso risulta difficile. In apertura di ciascun volume, l’insieme di questo lavoro viene semplicemente definito “l’opera”. Avviata nel 1983 con La rovina di Kasch, e proseguita con Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore (2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019), e La Tavoletta dei Destini (2020), l’opera è tanto difficile da classificare quanto lo è il presentare il contenuto dei volumi che la compongono: ognuno, infatti, ruota attorno a uno specifico “tema”, che può andare dalla mitologia greca (Le nozze di Cadmo e Armonia, Il Cacciatore Celeste) a quella indiana (Ka, L’ardore), dall’arte dei grandi scrittori (Kafka in K., Baudeleaire in La Folie Baudelaire) a quella dei pittori del Settecento (Il rosa Tiepolo), fino a riflettere apertamente sul mondo attuale (L’innominabile attuale). La difficoltà nel definire che cosa, di preciso, si stia leggendo quando si legge Calasso, si manifesta poi anche a livello del contenuto dei volumi, dal momento che i libri si presentano come raccolte di frammenti di testo di lunghezza variabile a carattere narrativo, saggistico, citazionistico e iconico, accostati gli uni agli altri per ragioni tutt’altro che esplicite.
Ciò che può scoraggiare chi si avvicina all’opera, dunque (ma che forse è fonte di curiosità per quella legione di lettori insonni che, secondo Nabokov, segue sempre l’emergere della buona letteratura), non è tanto la lettura del singolo volume, dal momento che l’opera si presenta accessibile a livello linguistico, quanto la possibilità di mapparla nella sua totalità, cioè di comprendere “di che cosa parla” questo zibaldone prossimo alle cinquemila pagine. Anche il più scettico dei bibliofili, infatti, faticherebbe a trattenersi dal chiedere “di cosa parla” un’opera a cui qualcuno, chiunque, lavori incessantemente da quarant’anni: c’è un piano unico? Un senso ultimo? Un tema finale, un messaggio, per questa impresa portata avanti per quasi mezzo secolo?
Molto è stato scritto a riguardo, da nomi notevoli come Italo Calvino e Umberto Eco e recentemente anche da accademici come Elena Sbrojavacca, il cui monografico, Letteratura Assoluta: Le opere e il pensiero di Roberto Calasso, uscito di recente per Feltrinelli, è senza dubbio uno strumento utile per navigare l’opera. Lo stesso Calasso non si è mai trattenuto dal presentare prospettive sul proprio lavoro, come sembrano suggerire alcuni suoi scritti sul valore della letteratura (La Letteratura e gli Dei), e le numerose interviste rilasciate nel corso degli anni, in cui egli avrebbe definito l’opera «una saga familiare dove i protagonisti non sono solo i personaggi, ma certe parole, idee, immagini, gesti» (“Il riso viene dal diavolo”, Corriere della Sera, 10 dicembre 2012). I personaggi, si potrebbe affermare semplificando, sono gli dei; le parole sono il lessico dell’India vedica; le immagini sono quelle ricorrenti nelle più disparate mitologie e riemergenti in un’Europa agli albori della modernità; i gesti sono il sacrificio, la scrittura, la creazione artistica e il sesso.
I meglio informati, come Sbrojavacca, hanno analizzato l’opera nella sua interezza individuandone i perni tematici. Con un tentativo riduttivo e forse criminale, qui, ci si potrebbe arrischiare a dire che tutti i libri ruotano attorno al tema della mente, e attorno a due particolari attività psichiche: la connessione e la sostituzione. La connessione consiste principalmente nella costruzione di analogie e reti di analogie, di cui Calasso vede esempi nella costruzione di complessi narrativi mitologici come quello greco, in alcune pratiche rituali dell’India vedica, e nell’attività artistica di alcuni pittori e scrittori, se non forse nell’attività artistica in generale, soprattutto se letteraria. Secondo il polo analogico del pensiero, infatti, “a sta per b come la scheggia di granito staccata dalla montagna” (La rovina di Kasch, p. 273), a indicare che la scheggia di granito somiglia e rimanda alla montagna, senza esaurirne né sostituirne la natura. Affiancata a questo polo del pensiero, e direttamente dipendente da esso, è quell’attività psichica che, anziché connettere, come l’analogia, sostituisce: il polo digitale, come lo definisce Calasso, è il pensiero secondo cui “a sta per b”, nel senso di “a è sostituibile con b” (Il Cacciatore Celeste, p.130), ovvero “a sta per b, e implica che a annulli b e lo uccida, talvolta per scoprirne il funzionamento” (La rovina di Kasch, p.273). A questa modalità di pensiero sono affidate la concettualizzazione, l’indagine filosofica occidentale e la sua erede scientifica – o, almeno, lo sono per la maggior parte, visto che la condizione di possibilità per la sostituzione digitale è sempre il poter stabilire una compatibilità fra oggetto sostituito e suo sostituto tramite analogia.
Per Calasso, però, nonostante la priorità dell’analogia sul piano temporale, entrambi i poli sono aspetti fondamentali del pensiero (L’ardore, p.422). Tuttavia, in corso d’opera, Calasso sembra lamentare più volte la predominanza, a partire dall’epoca moderna, della modalità digitale del pensiero su quella analogica, tema ricorrente nei libri che si occupano più direttamente della modernità, come Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire. Questo solleva un problema non indifferente, se ci avviciniamo all’opera di Calasso: come leggerla? Ogni esegesi è, infatti, prima di tutto, un tentativo di sostituzione, ovvero di traduzione della letteratura su un piano diverso da quello della pura superficie del testo. “Di cosa parla” l’opera? Dietro questa domanda c’è sempre il tentativo di traslare il testo su un piano altro da quello del testo, operando per l’appunto il genere di sostituzione che si mette in atto quando si dichiara che “a significa b”. In ogni esegesi è implicito il problema della “verità” e “correttezza” delle interpretazioni, e, di conseguenza, è implicito un tentativo di traduzione di un’opera da un vocabolario a un altro. Ma se supponiamo la traducibilità completa di un’opera d’arte su un piano concettuale, allora l’opera viene ridotta a mera esemplificazione di contenuti: le vicende che vi leggiamo sono rilevanti solo in quanto rappresentano qualcos’altro in relazione a cui l’opera acquisisce un senso – si tratti di un messaggio politico, sociologico, religioso o filosofico. Se il fine dell’opera è spiegare tramite esemplificazione, e l’opera è traducibile nei concetti che dovrebbe spiegare, allora è sostituibile da essi, e l’aspetto estetico del lavoro è ridotto a pura decorazione atta a veicolare significati, cessando, a tutti gli effetti, di essere un fine in se stessa.
Peraltro, nel concettualizzare un autore come Calasso, a suo agio fra le più disparate tradizioni religiose, si rischia di trasformarlo, suo malgrado, nell’ennesimo perennialista in cerca di una dimostrazione definitiva dell’esistenza di qualche piano metafisico superiore, sulla base della nota fallacia autoritaria secondo cui, se diverse culture sono d’accordo nel ritenere una cosa vera in diversi punti del tempo e dello spazio, allora essa deve necessariamente essere vera. Il sospetto è lecito, considerato che Adelphi pubblica uno dei padri putativi del perennialismo, Renè Guenon, studioso rispettabile che ha avuto in Italia una serie di tristi epigoni nei tradizionalisti evoliani che tutt’ora sopravvivono, in un incognito purtroppo sempre meno incognito, bazzicando librerie esoteriche di varie città italiane, o, più recentemente, nella loro versione giovanile, annuendo agli sproloqui su YouTube di lacrimosi psicologi canadesi improvvisatisi guru dell’essere e del caos – qualunque cosa siano, poi, l’essere e il caos. È Calasso, dunque, un altro filosofo platonico-barra-neoplatonico che, appoggiandosi con ricerche di dubbia solidità metodologica a astrusi testi classici, misteriose filosofie orientali e sconosciute leggende maori, tenta di ribadire ancora una volta che esistono cose che non esistono – le idee (platoniche!), la magia, gli dei?
Fortunatamente no, e proprio per via della sua refrattarietà alla concettualizzazione eccessiva. Calasso non vuole spiegare nulla: i suoi libri non sono saggi, come lui stesso ha ribadito più volte, ma “narrazioni”. Per approcciare la sua opera, allora, vorrei proporre l’operazione un po’ piratesca di sostituire a una domanda ambigua un’altra altrettanto ambigua, nella speranza che la seconda ci aiuti a superare alcune difficoltà incontrate nel tentare di rispondere alla prima. Invece che sul “di cosa parla?” vorrei concentrarmi sul “che cosa fa?” l’opera di Calasso. Che tipo di effetto tenta di produrre nel lettore e con quali mezzi? Che tipo di esperienza di lettura propone, e perché? L’opera è, appunto, un libro che parla anche di libri, cioè è letteratura che parla anche di se stessa, e nel parlare di se stessa, presenta forse un modo specifico in cui richiede di essere letta.
Concettualizzare l’opera di Calasso, pensandola solamente come un’opera “su” qualcosa, significa tralasciare l’aspetto fondamentale dell’indagine fenomenologica dell’esperienza di lettura dell’opera, insieme agli indizi offerti dall’opera su se stessa. Se Calasso scrive “su” qualcosa, cioè, se l’opera è riducibile semplicemente a un insieme di nuclei tematici, allora Calasso sarebbe poco più che un altro strumentalizzatore di culture e religioni che, dietro un’apparente maschera di filologo, starebbe tentando di vendere al lettore la propria mal celata agenda filosofica – cosa che lui stesso sembra voler scongiurare. Calasso si avvicina invece al lettore in maniera più soffice e meno aggressiva di quanto non faccia il discorso puramente teorico del perennialismo. La sua priorità sembra infatti quella di istituire una meta-indagine sulle ragioni e le origini di quelle costruzioni di pensiero onnicomprensive di cui anche il perennialismo fa parte: ciò su cui Calasso si concentra, infatti, è più che altro il meccanismo analogico che ci permette di riconoscere somiglianze fra certe manifestazioni culturali o religiose, più che la possibilità di dimostrare, a partire da queste somiglianze, l’esistenza di un sostrato metafisico comune a tutte – o la correttezza di una qualsiasi tradizione filosofica al di sopra delle altre.
La differenza è sottile, ma fondamentale: se il perennialista ritiene le proprie approssimazioni di pensiero prove dell’esistenza di qualcosa (“dio”, il “sacro”, le “idee”, ecc.), per Calasso è invece l’atto mentale di compiere tali approssimazioni – di associare, cioè, tramite analogia – a costituire il fatto fondamentale degno di attenzione. In un capitolo de L’ardore, forse il libro più tematicamente complesso dell’opera, Calasso discute brevemente la mitologia maori, misteriosa per il fatto di essere estremamente complessa e apparentemente isolata dal punto di vista culturale, e scrive: «Il primo passo sta nel riconoscere la vastità, complessità, precisione, acutezza, articolazione su molteplici piani dei sistemi di corrispondenze. Il secondo sta nel domandarsi perché, in situazioni e tempi tanto diversi, il pensiero ha sentito il bisogno di assumere quelle forme» (L’ardore, p.342). La stessa domanda va posta all’opera di Calasso: perché essa assume la forma che ha? Che cosa tenta di far esperire al lettore, tramite la propria forma?
A partire dalle fonti dell’opera, indicate solo in fondo a ciascun volume, e dall’impostazione non-accademica del suo lavoro, è evidente come Calasso infatti non sia interessato alla correttezza delle sue speculazioni, ovvero alla corrispondenza (sostitutiva) fra i pensieri presentati e stati di fatto effettivi: i suoi libri non sono ricerche filologiche né saggi, per quanto ben ricercati, e l’accademico di professione vi riconoscerà senza dubbio generalizzazioni troppo azzardate. Ma Calasso non propone mai le proprie riflessioni come “corrette” o “vere” o “accurate”: la questione della verità, nei suoi libri, non si pone. L’opera cerca, prima di tutto, di intessere una rete di associazioni, presentando al lettore, in maniera diretta e in atto, i due poli del pensiero. Da una parte il polo digitale, responsabile, se vogliamo, dell’aspetto frammentario, analitico, filosofico dell’opera; dall’altro quello analogico, responsabile dell’unità narrativa che tiene assieme i frammenti di testo, i singoli volumi in cui sono contenuti, e volendo, l’intera opera. L’obiettivo di Calasso non è tanto quello di spiegare, analizzare o presentare i due poli del pensiero, quanto di creare, nell’opera, uno spazio letterario in cui il lettore possa esperirli direttamente. Se, però, il polo analogico è quello responsabile dell’unità dell’opera, allora per rispondere alla domanda “che cosa fa?” l’opera di Calasso, è necessario guardare a quali operazioni analogiche suggerisce.
Che tipo di esperienza è, il leggere questo libro assemblato in più libri, a loro volta composti di citazioni, segmenti mitologici, aneddoti storici, dipinti e riflessioni dell’autore? E come vi agisce, informandolo, il pensiero analogico? A guardarla da vicino, tutta l’opera sembra animata da un unico principio formale che si manifesta tanto al livello dell’ordine dei volumi, quanto al livello della disposizione delle singole frasi: la paratassi. Tutto è posto su un unico piano, come lo sono i dati bruti di un’esperienza percettiva, o quelli dell’esperienza cognitiva iniziale di una qualsiasi lettura, prima di iniziare a tessere connessioni o a proiettare significati. Tutto è presentato allo stesso modo, in apparente piattezza. Non ci sono intensificazioni stilistiche né punti centrali, non ci sono introduzioni pedanti né conclusioni trionfali pescate fuori dal mare magno delle idee indimostrabili e delle approssimazioni di pensiero. Ci sono quelle che Calasso chiama “immagini”, ovvero pennellate di pensiero disposte in frasi, che crescono e si diramano in una struttura frattale: la paratassi è replicata ovunque, dal microcosmo delle strutture sintattiche al macrocosmo della struttura dell’opera nella sua totalità, cioè nella relazione che intercorre fra i libri che la compongono.
La prima cosa che si nota dello stile di Calasso, infatti, è proprio la paratassi spinta all’estremo, come mostrano alcune caratteristiche sintomatiche della sua scrittura. Una costruzione ricorrente nell’opera, ad esempio, là dove si rischia di introdurre una subordinata di troppo, è quella latina del nesso relativo, in cui una subordinata relativa viene separata dalla principale tramite un punto, come nella frase seguente: «Dove va ciò che sparisce? Va nell’invisibile. Che alla fine pullula di presenze» (Il Cacciatore Celeste, p.19). Qui il pensiero, altrimenti lineare, della frase «nell’invisibile, che pullula…» è spezzato: «nell’invisibile. Che pullula…». Sarebbe forse eccessivo considerare una scelta stilistica possibilmente innocua come marchio definitorio dell’opera, ma la tentazione di farlo è grande: il nesso relativo stabilisce infatti una paratassi fittizia, in cui due frasi vengono forzatamente separate e poste sullo stesso livello, nonostante un elemento interno della seconda, il pronome relativo («che»), si riferisca comunque a un elemento della prima («l’invisibile») – come la scheggia di granito alla montagna, potremmo dire. Un procedimento simile sembra essere presente a tutti i livelli dell’opera: i singoli frammenti all’interno di un volume, apparentemente separati e posti, paratatticamente, su uno stesso livello, si richiamano continuamente l’un l’altro in termini tematici e verbali. Lo stesso avviene, poi, su scala più ampia, per i singoli volumi, i cui contenuti possono essere legati tra loro in modo più o meno esplicito: non solo temi simili vengono ripresi da un volume all’altro, ma si intrecciano fra loro, così che Ingres può diventare un pittore zen (La Folie Baudelaire, p.103), Proust un neoplatonico (La Folie Baudelaire, p.330), Flaubert, assieme a tutti gli artisti, un samnyasin, il rinunciante vedico (L’ardore, p.282). Se poi è vero che le singole frasi non tentano di prevalere l’una sull’altra, così nessuno dei libri che compongono l’opera sembra essere più centrale di un altro, tanto che ognuno può essere fruito da solo, senza necessità di leggere o aver letto le altre parti dell’opera. Ma in tutti i volumi si rinvengono le stesse forme, le stesse pennellate di colore, gli stessi personaggi con nomi diversi. E questi contenuti, di cui tutte le parti e le parti delle parti dell’opera partecipano, sono forse gli dei di cui Calasso parla. Forse sono queste pennellate di pensiero i veri personaggi della sua “saga familiare”, ed è la loro ripetizione, il loro ricorrere continuo nel discreto che è il mondo, che permette al lettore di «vedere il tempo», nel senso di vedere il costituirsi della vita come narrazione unitaria, come accade al marinaio Sinbad ne La Tavoletta dei Destini, quando osserva «una distesa gremita da centinaia di protuberanze coniche» (p.41), che nella loro somiglianza terrorizzano e confondono. Sono la ripetizione e il ricorrere delle figure, dei temi, dei personaggi e dei gesti che permettono al lettore di riconoscere in se stesso il meccanismo di associazione analogica richiesto per collegare tra loro le singole frasi, i singoli frammenti di testo e i singoli volumi dell’opera.
A livello superficiale, l’aspetto più perturbante dell’esperienza di leggere Calasso è che si ha la sensazione di non aver letto nulla, di non aver capito “quale sia il punto”. Allo stesso tempo, però, proprio nella lettura si fa esperienza di come la mente costruisca da sé legami fra i diversi frammenti di cui sono composti i volumi, e poi, espandendo, legami che i volumi intrattengono fra loro, finché non ci si accorge di aver costituito dentro di sé una serie di connessioni analogiche che unificano l’opera intera. Si compie così nel lettore precisamente quell’esperienza di meditazione analogica che, per Calasso, si ritrova nella lettura dei Veda, nella contemplazione che crea il mondo di Plotino, nell’intelligenza trasformata degli scrittori e degli artisti in generale: si scopre, nel leggere l’opera di Calasso, l’esperienza psichica del costituire il mondo in narrazione coerente. Questa operazione spontanea della mente ci viene non tanto spiegata o presentata tramite concetti alla maniera di un pensiero filosofico, quanto fatta esperire direttamente in un esercizio meditativo coincidente con la lettura stessa dell’opera.
Roberto Calasso, quindi, come tutti i buoni scrittori, chiede per la sua opera un genere nuovo e diverso di lettore, e veicola, tramite la scrittura, non significati, ma esperienze. Che cosa fa, dunque, l’opera di Calasso, questo grande edificio barocco di cultura, a cavallo fra tutte le epoche della storia, a suo agio in tutte le biblioteche del mondo? Semplicemente (ma mai banalmente): fa pensare.
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