Ritratto di Luciano Bianciardi, lo scrittore anarchico nelle emozioni ma cristallino nella parola
Piccolo-borghese nato a Grosseto ma randagio nell’animo, coscientemente rinunciò alla grandezza per rimanere ”uomo tra gli uomini”. Acuto giornalista e scrittore finissimo, arrivò a rifiutare anche Montanelli e il suo Corriere. Il suo stile? Un ossimoro: ”Gaddiano e classicista”
Bianciardi è oggi un punto cardinale nel panorama letterario del secondo Novecento italiano. Il Saggiatore ne ripropone in un unico volume tutti i romanzi, i saggi, i racconti e i diari, le molte vite di un irregolare entrato nel canone: dagli anni giovanili dell’impegno nella natia Grosseto – da cui nacquero il libro-inchiesta I minatori della Maremma e il primo romanzo Il lavoro culturale – al trasferimento a Milano; dal racconto del lato oscuro dell’industria editoriale nell’Integrazione al capolavoro La vita agra, in cui confluirono tutta l’alienazione e la «solenne incazzatura» del periodo trascorso nel capoluogo lombardo. Fino alla fine, con la riscoperta-rifugio dell’epopea risorgimentale in Aprire il fuoco, romanzo ucronico in cui sulle barricate delle Cinque giornate di Milano, al fianco di Carlo Cattaneo, sfilano Enzo Jannacci e Giorgio Bocca. Curato da Luciana Bianciardi e arricchito della nuova prefazione di Matteo Marchesini, Il cattivo profeta raccoglie tutte le sfumature di un autore che, facendo della sua esistenza appassionante letteratura, è riuscito a immortalare le illusioni, i tic e le miserie dell’infinito presente dell’età post-industriale.
Luciano Bianciardi (Grosseto, 1922 – Milano, 1971) è stato uno dei massimi scrittori italiani del secondo Novecento. La sua opera narrativa comprende Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), La vita agra (1962), La battaglia soda (1964), Aprire il fuoco (1969). La sua produzione saggistica comprende I minatori della Maremma (1956), scritto con Carlo Cassola, e il reportage Viaggio in Barberia (1969). Ha tradotto, fra gli altri, Faulkner, Steinbeck, Miller, Bellow e Barth.
Prefazione di Matteo Marchesini a Il cattivo profeta di Luciano Bianciardi (Il Saggiatore)
I nostri scrittori nati negli anni venti, gli ultimi a conoscere una canonizzazione non meramente accademico-editoriale, hanno attraversato in poco tempo un numero straordinario di traumi storici e stagioni culturali. Cresciuti tra prosa d’arte e fascismo, adulti tra neorealismo e dopoguerra, sono maturati poi durante il boom, perdendo le speranze palingenetiche della giovinezza. Spesso hanno trasformato le narrazioni degli esordi in levigati apologhi o in ibride, lutulente opere-mostro, invecchiando tra le ideologie antistoriciste e approdando magari a un maneggevole postmodernismo. È una parabola che si può riconoscere in Pasolini, Sciascia, Calvino: cioè negli autori più celebri di questa generazione. Specie il primo e il terzo, in modi speculari, hanno finto di poter guardare la Storia dall’alto, cavalcando le mode anziché subirle, ed elaborando un sistema stilistico onniattrattivo, coerente come un marchio. Eppure nessuno di loro è dotato di una lingua limpida e prensile come l’assai meno noto Luciano Bianciardi.
Bianciardi sa cogliere le metamorfosi dell’epoca senza perdere lo sguardo di chi si sente un uomo qualunque tra gli uomini, né si ritiene mai investito d’insostituibili mandati tecnici o sociali. Un amore inattuale per i buoni studi storico-letterari, e una quotidianità vissuta a lungo in cerca di amici fraterni (non di modelli, o alunni, o chierici-compagni illuminati) sono forse i tratti che lo hanno salvato dalle sclerotizzazioni identitarie dei colleghi, e che al tempo stesso hanno determinato la sua incapacità ad amministrare un proprio fruttuoso Ruolo. Così, questo maremmano bizzarro ma attaccatissimo al senso comune è stato prima dimenticato e poi tradito dai volgarizzatori del suo antagonismo. Speriamo dunque che questa edizione del Saggiatore serva a leggerlo o a rileggerlo al netto del marketing tendenzioso a cui rischia di cedere ogni «operazione outsider».
Il piccolo borghese Bianciardi, classe 1922, matura il suo liberalsocialismo studiando nella Pisa di Capitini, Russo e Calogero. Dopo la guerra insegna al liceo di Grosseto, la sua città, e lì dirige la Biblioteca Chelliana, inventandosi un Bibliobus per portare i libri nelle campagne. Collabora a Belfagor, Il Mondo, Il Contemporaneo; e nel ’54, per l’Avanti!, stende con Cassola un reportage sui minatori. Quindi s’imbarca nell’impresa Feltrinelli, ma si fa subito scaricare, e da allora sceglie una vita randagia di pubblicista e traduttore (innumerevoli le versioni dall’inglese: London, Faulkner, Steinbeck, Bellow, Huxley, Robbins, Barth…).
Tra il ’57 e il ’60 escono i suoi primi romanzi-pamphlet, Il lavoro culturale e L’integrazione. Intanto, precedendo Eco e Warhol, Bianciardi ha già offerto impeccabili analisi semiologiche della «mediocrità» di Mike e del quarto d’ora di celebrità televisivo. Lungo gli anni questa sua vocazione barthesiana, filtrata sempre da un linguaggio chiaro e referenziale, si esercita tra l’altro in una pionieristica rubrica intitolata «Telebianciardi». Allo scrittore bastano pochi dettagli di costume per raccontare i rapporti che si stabiliscono tra maschi e femmine, o tra realtà e pubblicità, nel mutevole quadro del miracolo economico. Un esempio: «Lo sanno benissimo i fabbricanti di auto, che già in partenza battezzano il prodotto con un nome di donna: la Giulietta, la Giulia, la Primula, la Bianchina, la Topolino. Non sono forse gli stessi nomi che si sentivano prima di quel fatidico 20 settembre, in via Fiori Chiari?».
Di queste doti epigrammatiche e filologiche trabocca La vita agra, che nel ’62 regala a Bianciardi una gloria inattesa, e viene poi portato sul grande schermo da Lizzani. Montanelli chiama lo scrittore al Corriere, ma invano. Lui sceglie Il Giorno, il quotidiano dell’apertura a sinistra; e anziché sfruttare l’immagine dell’arrabbiato, di cui non aveva previsto il sinistro successo, si mette a sfornare cronache sul Risorgimento. Nel frattempo traduce senza sosta, e scrive centinaia di pezzi per la stampa pop: ABC, Kent, Executive, Playmen, Le Ore, AZ… Dal ’70 tiene anche una corrispondenza sul Guerin Sportivo, proponendo funambolici paragoni tra i fatti del calcio e le vicende politiche, storiche o artistiche. Ma questo poligrafismo frenetico nasconde il progressivo autoesilio dal mondo, la distruzione alcolica di una vita cupissima e umorale. Lo scrittore muore nel 1971, a neanche quarantanove anni.
Bianciardi ha saputo essere l’ultimo custode della più forbita tradizione toscana, senza per questo ridursi a linguaiolo. Ed è stato un «arrabbiato» troppo onesto per posare a beat (anzi, a «bitinicco»). È passato per le stanze del potere con l’estraneità allegra e disperata di chi non sa o non vuole né consolidare la posizione acquisita, né costruirsi un’ideologia in grado di giustificare la cattiva coscienza dell’intellettuale che tira avanti tra scritture semigiornalistiche, diritti e «battonaggio» traduttorio. Perciò ha scontato sulla pelle l’alienazione che molti hanno addomesticato coi sofismi, e ha fatto in pratica quel che altri teorizzavano ma non riconoscevano poi nella sua opera: un’opera troppo letteraria e insieme troppo popolare (cioè «dotta e carognona»), troppo concreta e insieme troppo orgogliosa del suo lessico chirurgico per poter piacere ai maîtres à penser di qualunque specie.
In fondo, questo ex azionista e distratto fiancheggiatore del pci è rimasto sempre un anarchico socialisteggiante di fine xix secolo, costretto suo malgrado a fare i conti col nichilismo del pieno Novecento. Come i fautori della seconda Internazionale, Bianciardi mantiene un’ostinata fiducia nella buona divulgazione da dispensa diderotiana; eppure non ignora che il sapere moderno si è ormai trasformato in approssimazione da rotocalco, e che gli ex analfabeti assetati d’emancipazione sono già una massa omologata. Così, quest’uomo fuori tempo e fuori luogo non può né onorare le sue radici etiche né abbandonarle: e da una tale sfasatura, oltre che da contraddizioni più private, si lascia infine lacerare, consumandosi tra ribellione e pigrizia, tra rimorso e accidia. La sua fragilità e la sua coscienza di provinciale lo costringono a ingaggiare un sempre più mostruoso gioco a nascondino coi progetti di gioventù, e gli impediscono di ideologizzare o di bruciare esteticamente il senso di colpa.
Per capire l’ossimoro incarnato da Bianciardi bisogna immaginare l’impossibile. Per esempio, figuratevi un Fortini che, perse le inibizioni di profeta, pubblichi su un settimanale erotico o libertario agili referti krausiani della vita quotidiana degli anni sessanta, o addirittura si mischi a presentatori, sportivi, attori (cioè agli «amici» infilati da Bianciardi in quasi tutti i suoi libri: da Walter Chiari a Carlo Ripa di Meana al portiere Ghezzi). Oppure pensate a un ethos di tipo camusiano, orwelliano o chiaromontiano, ma bagnato nell’acido della satira e screziato da una furia alla Henry Miller (per il goliardico Luciano, «Enrico Molinari»). O ancora, provate a concepire un commediografo all’italiana, un guascone strapaesano che raggiunga di colpo la statura morale di un maestro di scuola d’altri tempi e di un critico della cultura mai arcigno. In poche parole, è come se in Bianciardi lo spirito costruttivo dell’Ottocento e quello distruttivo del Novecento, l’uomo comune e il corsivista scettico, l’utopista e il saturnino fossero polarità mai del tutto scisse, reagenti di continuo l’una sull’altra in una straziata, ironica baruffa.
Perfino alle più alte temperature sperimentali, questo scrittore conserva sempre una lingua cristallina: il suo è un paradossale «gaddismo classicista». Di qualunque cosa parli, Bianciardi rifiuta di eludere l’ingombro irriducibile della propria biografia, trasposta in satura ma mai dissolta in astrazione, e per questo destinata a ferire chi gli sta vicino. Il suo citazionismo è sempre funzionale o esistenzialmente pregnante. Spesso l’intarsio parodico sottolinea lo iato tra un’antica cultura introiettata fin nel subconscio e lo sforzo compiuto per tradurla nel mondo nuovo. Di qui viene l’ossessione metalinguistica, l’orecchio assoluto (diceva Spagnol) per le «deformazioni professionali», l’abilità nel cogliere tic e gerghi. Un’abilità che allo scrittore costa parecchio, dal punto di vista umano e perfino giudiziario. Già a inizio anni cinquanta, quando sulla Gazzetta di Livorno propone una galleria di tipi locali, alcuni di questi tipi vanno ad aspettarlo sotto casa; e più tardi, una sua rubrica pubblicata dall’Unità viene cassata dopo l’uscita del ritratto di un comunista influente. L’egemonia di questo pci oligarchico è ricordata nel Lavoro culturale, dove Bianciardi dice addio ai tempi del «nella misura in cui» e al mito dell’intellettuale organico aleggiante sulle ingenue assemblee di provincia. Ecco un pezzo che descrive con sardonica puntualità il loro gergo, poi sopravvissuto a se stesso per decenni:
Il dibattito, oltre che concreto […] è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo.
Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia […]
Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro […]
Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.
Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali.
Per Bianciardi, il mondo in cui questo gergo conservava un pur vago senso è stato spazzato via dall’esplosione di grisù che il 4 maggio del ’54 ha fatto saltare in aria la miniera di lignite di Ribolla, da lui esplorata con Cassola. Il trauma arriva dieci anni dopo quello subìto durante il bombardamento di Foggia: ma le nuove morti, volute dall’irresponsabile esercito in borghese della Montecatini, sembrano ancora più assurde. Così vengono riepilogati gli eventi nella Vita agra:
il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.
[…] Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.
Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale […]
E quando le bare furono sotto terra […] mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.
A Grosseto, ribattezzata Kansas City, tutto sembra di colpo inutile e insopportabile. Così Bianciardi emigra a Milano. Qui lavora alla rivista Cinema Nuovo di Aristarco, e presto passa dalla satira dei cineclub engagés alla satira della nascente industria culturale. È l’epoca in cui sta esaurendosi la spinta propulsiva del ’45, e nella grande città si sente subito. Ogni volta che il protagonista della Vita agra, arrivato lì con la folle idea di far saltare in aria il «torracchione» della Montecatini, prova a parlare dei morti di Ribolla, si scontra con una disattenzione fisiologica. Ecco il dialogo che ha col suo capo, direttore appunto di un quindicinale di spettacolo: «“Vedi, è un buon tema […] ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo.” “Come sarebbe?” gli chiesi. “Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?”».
Da Cinema Nuovo Bianciardi approda direttamente alla Feltrinelli, la nuova casa editrice comunista nell’ideologia e neocapitalista nei fatti. Qui la riduzione tecnocratica del lavoro culturale è compiuta. Deve confrontarsi ogni giorno con dinamiche di potere insondabili, con mansioni puntigliosamente definite ma in realtà non misurabili. Presto viene licenziato per scarso rendimento e rimane un collaboratore esterno; ma intanto quel microcosmo gli ha suggerito il leitmotiv dei «quartari». Spiega l’alter ego della Vita agra:
E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro.
Non è come fare il contadino o l’operaio […] il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende.
Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un prm? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari […] sono vaselina pura.
Date le premesse, il loro unico metro di giudizio resta «la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su». Metro che vale soprattutto nelle case editrici, sempre «piene di fannulloni frenetici» che fanno un lavoro finto ma si beccano veri esaurimenti nervosi. Il loro universo ci è stato raccontato soprattutto dai critici dell’ideologia, dai marxisti eretici. Ma proprio per questo, lascia ammirati il diverso nitore con cui Bianciardi sa dirci le stesse cose rivitalizzando la forma mentis del letterato d’antan. Si pensi per esempio al rapido epigramma in cui fissa la natura dell’industria culturale moderna, osservando che se prima dell’invenzione della stampa era il lettore che cercava il libro, ora le macchine hanno una tale capacità di diffusione che è il libro a dover inseguire il lettore. Oppure si veda questa definizione dell’engagement, giudicato come un’ultima variante dell’Arcadia che sfocia nella sottocultura: «Al posto dei pastorelli avevano messo i metallurgici […] Ora poi non ci sono neanche più i metallurgici. Ora c’è Charlie Brown, figurati! O James Bond».
Ma la Milano di Bianciardi è una baraccopoli di lusso che avvelena anche le attività più concrete. Dietro il suo presunto efficientismo si cela un’irrazionalità assoluta, che il narratore riduce spassosamente all’assurdo. Lungo le sue vie si aprono e chiudono di continuo le stesse buche; ma la gente, che protesta se un grammofono trasmette troppo alto Vivaldi, non s’interroga più sull’apparente insensatezza dei lavori: il rumore dei martelli («vibratili», come le segretarie aziendali in marcia sopra i tacchi) è un alibi sufficiente. Chi vuole può perfino travestirsi da operaio, scavare o riempire il terreno in una sorta d’insensata parodia keynesiana, e farsi pagare dal Comune senza sollevare sospetti.
Tuttavia al centro dello sguardo bianciardiano resta sempre la metropoli degli intellettuali, sospesa tra ultima bohème e nuove pseudocompetenze. È la Milano dei pittori e del cabaret, della Casa della Cultura e del Derby, un universo urbano che dietro i primi esperimenti del centrosinistra lascia già intravedere le future frivolezze manageriali dei Larini e dei Cardella. Ma soprattutto, quella di Bianciardi rimane la Milano della Feltrinelli. Indimenticabili, a questo proposito, le pagine dell’Integrazione che alludono all’influenzabilissimo editore «giaguaro», quelle che descrivono le interminabili riunioni sulle regole tipografiche, e quelle che parodiano il dibattito tra storicismo e sociologismo. È il tempo in cui gli eventi internazionali gettano scompiglio a sinistra, evidenziando la divaricazione tra credenze professate e abitudini di vita. I terremoti dell’Est europeo si riducono così ai «fatti di piazza Ungheria», cioè alle smanie di intellettuali che si fanno venire la febbre solo perché non capiscono più quale comunicato devono firmare, e si scambiano telefonate di questo tipo: «Sei tu, Mariolina? Cosa dice Peppino? È per la ritrattazione? Bene, ma la formula? Anche i Peverini dici? E Antonio? Sì, lo capisco. Documento e rettifica, no? L’avevo pensato. Pubblichino anche loro il documento, poi segue la dichiarazione che deploriamo l’affare dell’ansa eccetera. Mi sembra la strada migliore. Benissimo. Tu come stai? Dieci giorni? Addirittura. E i conti dell’Ogino Knaus così vanno per aria, no? Eh vi capisco. La bambina come sta? Bene, mi fa piacere. Un salutino a Peppino, quando rientra. Ciao».
Nell’Integrazione (dove, come nel Lavoro culturale, Bianciardi si sdoppia nelle figure di due fratelli) il personaggio che sconta più a fondo il nuovo clima è Marcello, uno studioso cupo e astratto, machiavellico e masochista. Autoironicamente, l’autore gli prepara un destino di amara solitudine: Marcello finisce a scrivere pastoni da Reader’s digest, e lo fa con la ghignante efficienza di chi nasconde nella piattezza della prosa «venduta» esoterici messaggi in bottiglia. Alla fine lo vediamo preda di una tentazione luddista: come un Rastignac impotente svelle un mattone dal terrazzo, e finge di tirarlo contro la città che si agita lì sotto. Invece il suo erede della Vita agra (un io anonimo e senza fratelli, a fronte di un doppio femminile sempre più marcato) approda a Milano meditando già progetti da bombarolo. Poi però li perde. La verità è che finita l’euforia comunista si ritorna anarchici; ma anarchici sfiduciati, cui resta appena la risorsa dell’inazione: «Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha». Però il confine tra non-collaborazione e integrazione è molto labile. All’inizio, il personaggio paranoico del ’62 accetta un alienante lavoro «di concetto» solo per preparare con calma la vendetta che crede gli abbiano affidato. Ma poi l’alienazione diventa la sua vera vita, e l’assalto alla Montecatini è rimandato sine die. Il bombarolo s’intruppa nell’esercito dei milanesi che marciano tutto il giorno dentro rigide «scarpe hegeliane», rischiando a ogni passo d’esser sforbiciati via dal traffico. È risucchiato da una città in cui gli operai sono invisibili e in cui le sezioni del pci, simili a uffici di collocamento, eleggono a capicellula degli estetisti per cani. Lì dove tutto mostra la sua algida facies ippocratica, per salvarsi occorre esercitare un inedito acume semiologico: «La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito». E se ci si rinchiude in casa a sfornare traduzioni a cottimo, si rischia di fare brutti sogni: per esempio, sogni tutti «interpretati» in un inglese che si è incapaci di voltare in italiano. Quando si lavora nella tana, bisogna stare attenti a che il pastiche di parole altrui non sconvolga perfino la memoria della propria infanzia; e l’unico rifugio sicuro è un sonno vuoto come quello della Ragazza Carla del poema coevo di Pagliarani.
In quest’incubo diurno e notturno, l’«attivismo ateleologico» del lavoro d’ufficio è stato introiettato fin nel cuore di un solitario ménage casalingo assediato da «tafanatori» reali o mentali, e sommatosi perversamente al super-Io sgobbone del piccolo borghese di provincia. Questa condizione coatta viene resa da Bianciardi con una serie di pezzi di bravura che investono il lettore a cascata: si va dalla parodia dei narratori americani a quella degli editoriali sociologizzanti, dalle tirate sulla beffarda defecatio post mortem a quelle contro il coito divenuto mero simbolo e privato della sua salutare inutilità. Sublime è poi il colloquio tra il protagonista e una editor imbecille, che pretendendo traduzioni «letterali», non «toscaneggianti» lo rimprovera di avere reso «come on boys» con «sotto ragazzi» anziché con «venire su», e di avere scritto «bottega di falegname» anziché «laboratorio».
L’integrazione e La vita agra, dove il secco sarcasmo diventa quasi un correlativo dell’aridità e della fatuità del reale, sono libri paragonabili forse soltanto alla Vita operosa di Bontempelli (1921), dove viene notomizzata la Milano del primo dopoguerra. Si tratta di approdi (letterari e geografici) da cui non si può tornare indietro senza apparire nostalgici. La capitale lombarda rappresenta una società mostruosa ma dinamica, mentre Grosseto sembra appena un residuo del passato. Nel romanzo del ’60, prefigurando il destino di quella sinistra umanista oggi sempre più simile a una Lega Centro, Marcello avvisa che starsene in Toscana è troppo comodo: significa rifugiarsi in un’Italia «troppo soddisfatta della sua composta perfezione», che «non riesce a trovare alcun aggancio con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente […] e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame […] In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità […] Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia».
Già, il Risorgimento. Mentre affronta la sua lotta impari con Milano, Bianciardi dedica un’attenzione crescente a quel periodo glorioso e ambiguo che vorrebbe aver vissuto. Per anni, il «racconto del 1860» e quello «del 1960» procedono paralleli: da una parte Da Quarto a Torino, omaggio all’esercito forse più colto della storia, e dall’altra l’analisi del «lavoro culturale»; da una parte le indagini appassionate sull’Unità, dall’altra la caricatura della politica di provincia e dell’industria mediatica. Poi i due filoni s’intrecciano. Bianciardi inizia a interpretare la cronaca italiana tra il ’45 e il boom col testo a fronte della «resistenza» garibaldina, filtrata attraverso i quadri e le pagine dei «paesani» Fattori e Bandi. Non a caso il borioso capitano che nel romanzo storico-mimetico La battaglia soda sfotte un reduce dei Mille si chiama Bauducco, proprio come il tronfio manager (ed ex ufficiale alpino) che nell’Integrazione amministra la casa editrice. Entrambi incarnano un ritorno all’ordine: l’uno fa il tecnico di guerra, l’altro il tecnico del marketing. Tutti e due si fingono eredi di un patrimonio ideale (il Risorgimento, il comunismo), ma in realtà parlano già come cortigiani piemontesi o americani. Invece i loro avversari, gli alter ego dei romanzi milanesi e il protagonista della Battaglia soda, una volta chiusa la stagione della speranza – con Custoza o con la guerra fredda – finiscono a marcire tra le scartoffie.
Ma la mescolanza esplicita tra Ottocento e Novecento arriva poco prima del fatidico ’68. È il periodo in cui i nati negli anni venti traggono i primi bilanci: e simbolicamente, mentre Calvino trionfa a Parigi, Bianciardi si ritira a Rapallo. Ora la passione risorgimentale, incanalata al livello più basso in politi testi divulgativi (Daghela avanti un passo!, Garibaldi), al livello più alto confluisce in un antiromanzo ucronico e guerrigliero, che è insieme un esercizio di virtuosismo ossessivo, introverso, catafratto. Aprire il fuoco, uscito nel ’69, resta un unicum nella nostra letteratura. Per concezione può ricordare la Storia di domani di Malaparte o Roma senza papa di Morselli; solo che qui, in più, c’è la vertiginosa oscillazione formale tra flusso di coscienza e referto narrativo – o meglio, come ha scritto Paolo Maccari, tra «dialogo interiore» e stile «americano». Bianciardi osa mischiare le Cinque Giornate del 1848 milanese, filtrate dai ricordi di Giovanni Visconti Venosta, con la cornice storica del 1959. Tra barricate di bus e molotov, Bocca va sfrontatamente a braccetto con Cattaneo, un cantante di nome Gabersic incontra Correnti, Hitler s’affianca a Radetzky, e Pio ix si confonde con Giovanni xxiii. Per eludere la censura dei «giuseppini», ritornati dopo il fascismo, i ribelli inneggiano fiduciosi al pontefice buono firmando le schede del totocalcio col nome Giovanni Papa e marcando solo i primi cinque risultati: due X e tre I. A raccontare ex post questa follia è l’aio dei Venosta, che una volta falliti i moti è andato in esilio a Nesci (eloquente travestimento di Rapallo).
Per dare un’idea del clima, basti pensare che tra le fazioni degli insorti si conta «la cosiddetta linea emme», che s’ispira insieme a «il Mazzini, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse» (gli avversari ci aggiungono il Mussolini). C’è poi chi confida nel re Tentenna e nei francesi, e ci sono «i seguaci del Togliatti», secondo cui «a fare l’Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente», e bisognerebbe dunque allearsi con la Chiesa: «Li vedevi spesso frequentare le sagrestie […] ma era tutta fatica sprecata perché il clero li sbeffeggiava regolarmente». Il famoso sciopero del fumo, invece, viene legato alla nonviolenza dei capitiniani, che intendevano «rifiutarsi di pagare le imposte» e «abbandonare i posti di lavoro per dedicarsi soltanto ai piaceri della carne […] Venivano costoro chiamati i rivoluzionari del non, ma a me sembrava che intanto predicassero bene e razzolassero, come suol dirsi, male, perché li vedevo laboriosissimi, rispettosi degli orari, faticatori anche al sabato sera». Tutt’intorno, i martinitt convivono con le protofemministe, e la rivolta diventa una copula continua. È il sogno anarchico di Bianciardi, molto diverso da quello dei sessantottini, ai quali infatti suggerisce di non sdilinquirsi davanti al Dottor Guevara e di studiare piuttosto il Pisacane, «che è anche più bravo».
Dopo la sconfitta, il protagonista di Aprire il fuoco s’è convinto che bisogna fomentare una insurrezione senza fine – un disordine tranquillo, continuo e dunque non imbrigliabile dai capetti quartari travestiti da rivoluzionari. E soprattutto, non è più tempo di buttarsi sulle sedi istituzionali: «Bisogna occupare le banche e spegnere la televisione». Purtroppo, però, perfino la fantasia più sfrenata riesce a inquadrare i frammenti utopici del presente solo in contesti di senso ottocenteschi. Nota Maccari: «Il passato non torna, e l’utopia non poggia su una realtà in grado di alimentarla». Eppure l’aio dei Venosta, come un teologo negativo, conta sempre su questa rivoluzione inconcepibile. «Son dovuto fuggire quaggiù» dice alla fine «e ancora aspetto il segno, dal finestrone che affaccia, nella camera a pianta pentagonale, sul Manico del Lume. Guardo sempre laggiù, verso il gabellino.»
E dal gabellino autostradale di Rapallo, mentre l’alcol lo consuma, lo scrittore insiste su una rivolta sempre più lontana da quella dei capelloni urlanti o underground, cui oppone la maggioranza silenziosa dei concerti di Bach. Il futuro, comunque, ormai non lo riguarda. A lui resta la sapiente ma fioca gestione dei motivi più cari: quello risorgimentale, certo, ma anche quello antisessuofobico trionfante nel racconto «La solita zuppa», dove s’immagina una società che ha il cibo come tabù e il coito come dovere, e si arriva fino alla blasfema invenzione di una Chiesa che nasconde per secoli la natura culinaria della moltiplicazione dei pesci e dell’ultima cena, interpretandole rispettivamente in senso «napoletano» e omofilo.
Per concludere, però, vorrei citare da un’altra rêverie fantapolitica del ’68, l’articolo «Marines a Rapallo». Vi si mette in scena uno sbarco statunitense, a ridosso di elezioni sospese tra utopia frivola e incubo grottesco. Il pezzo contiene tra l’altro una perfida parodia della gestualità poetica pasoliniana: «Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.” I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai».
Un agrodolce risveglio da un agrodolce sonno: due stati di coscienza negati a molti scrittori coetanei di Bianciardi, di lui troppo più noti e strumentalizzabili.
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