«Rese amabile il libro almeno quanto lui stesso lo amava scrivendolo»: bellissime parole trovate da Anna Luce Lenzi, la darzologa più insigne, per Penny Wirton e sua madre, prima prova di fronte al tribunale dei piccoli affrontata da Silvio D’Arzo, “giovin signore” dei nostri letterati partiti troppo presto per l’aldilà. Anche la veste grafica e il prezzo nella media della collana «Letture» – fra le più valide ed einaudiane – ci tengono ad agghindarlo per bene: con malinconie minori si potrà allora affrontare lo scritto che del Penny fu il nucleo, riportatoci adesso dai morti per via filologica; morti come quelli che a Pictaun ancora vanno a zonzo per il cimitero, o come è usa fare la mamma del Gec protagonista, levatrice incantata che chiama i bimbi da un altro mondo alla nascita su una terra comunque altra rispetto alla nostra. Tutto si ambienta, infatti, in un Settecento già nostalgico, senza re né cavalieri, senza duelli; fa tuttavia eccezione la ciurma specialissima che invade la scena da metà del libro in poi, fra cui svetta Cipriano Nard, vero «Maggiordomo dei Mari» che, in così breve spazio, sa arraffarsi un suo posto accanto ai protagonisti di Casa d’altri. Non è poco. Al Gec che scopre, giocandosi l’infanzia, le classi sociali, Cipriano oppone memorabilmente la classe, lo stile: forse in linea con la versione del marxismo preferita da D’Arzo, quella «gramsciana, riconducibile anche a Conrad», a chi «fa la sua traversata con esemplare dignità». L’avventura per D’Arzo ha, infatti, sempre molto a che fare coi libri: si potrebbero immaginare le sue navi salpare per la California sognata a Recanati, piuttosto che per gli arcipelaghi della letteratura di genere. Il vero tesoro qui scovato si rivelerà, allora, un’assonanza gentile e inedita fra «pirateria» e «cortesia», certo più britannica che salgariana. Per D’Arzo si può quindi parlare di scrittore emarginato e per questo assolutamente inclusivo, che proprio non vuole lasciare in pace chi legge, pur tenendosi al suo livello, rasoterra: l’estenuato lavorio formale e quell’allocuzione continua che fanno tanto del suo tono sono allora i capisaldi di un narrar debole in verità assai solido; l’impressione che si ha è quella di un autore meno che onnisciente, ma ancora fermo e saldo al suo posto, di fronte all’amico che lo legge. E solo tenendo in mente la nominata «amabilità» di D’Arzo – come mostra il suo status ormai indiscusso di «scoop replicato» – si può accettare la virata retorica del finale apposto da Eraldo Affinati (il quale, a onore del vero, si tiene lodevolmente al largo dell’imitazione, qui così facile, in apparenza), in cui si vuol chiamare ad angelo custode un D’Arzo filantropo ed engagé piuttosto improbabile. Ma D’Arzo stesso, d’altronde, sosteneva «il giusto orgoglio di fare da voi stessi, la scoperta».
La sua venne fatta col dolore di un enfant prodige che, in quanto tale, bambino si sarà sentito assai poco; come fu autore per l’infanzia su proposta altrui, del suo editore (anche se Vallecchi lo riteneva fin troppo «magico» per i piccoli lettori d’allora: ottimo segno per quelli futuri). Tutti dolori e ritardi che sono anche buone premesse, contravveleni al melenso dei «libri brutti e sciatti e balbettanti», naturali nemici, come era allora l’Italia, di quella Contea inglese che intitola i saggi darziani e fa la scena del Gec; Italia che per l’autore, fatta ricognizione nei territori della letteratura per l’infanzia, era paese unius libri: le pagine del Gec sanno di proiettare anche le ombre del Pinocchio, ed è la rara concessione di un autore provincialissimo che scelse Europa e America anche nei risvolti più neri. Nelloo stesso incipit del Gec riecheggia il Dickens natalizio come, a un dato punto della traversata, «la Morte – in forma, io penso, di gabbiano – calò a posarsi in mezzo a quelle vele» porta con sé lo spettro dell’Ancient Mariner. In un’altra sua favola, Tobby in prigione, all’obbligatorio felici e contenti finale si aggiungeva un «memori dei loro morti», che è anche la dote prima del D’Arzo saggista.
Fra la selva di lirismi irenici che sta al fondo di tante scritture italiane, il reggiano almeno portò il suo alla superficie, facendo narrativa lirica espressamente come canto, e a fior di pagina. E su un dato formale eclatante l’introduzione curiosamente non si pronuncia; basta un minimo di orecchio per il più nazionale dei versi, e la trama fonica del libro, infatti, si svela: pagine su pagine di endecasillabi instancabili e quasi stancanti, fra ipometri, ipermetri e dialefi che sta al giudizio degli addetti ai lavori bollare come prova di incertezza o di maestria. Curiosissimo: scomposto e ricomposto, il Gec darebbe allora un poema vero e proprio, con un suo «stile da traduzione» che alla memoria riporta forse le lasse cavalleresche più che l’oggi inflazionata Spoon River – comunque letta e assorbita pressoché all’istante da un D’Arzo in fuga dalla guerra e dal dolore – o i collinosi mari di Pavese. «C’era molto Mozart nel suo Stevenson» ha scritto un famoso poeta suo recensore: il «magico» D’Arzo, insomma, cantilena un sortilegio per tutto il libro, per tenere fuori il buio. Secondo proposta di Alberto Bertoni, l’autore italiano a lui stilisticamente più simile sarebbe invece un altro provinciale esondato dai propri confini, e ancora più cupamente: il Federigo Tozzi di cui lo stesso editore Vallecchi andava stampando le Opere. Un viaggiatore letterario che cerchi la strada per l’Europa attraverso la provincia (quasi obbligatorio per chi bazzica il Novecento italiano) è anche a loro che deve rivolgersi.
Una volta interiorizzato il ritmo, è difficile restar bene aderenti alla lettura: ne nasce, spontaneamente, una fruizione di livello sempre doppio, a suo modo esperienza davvero radicale, che si spinge ai confini del nonsense carrolliano. Pure, «uno scrittore di così riposta fibra morale non può essere altro se non l’eccezione alla regola», e anche alla regola futura, come ha notato Massimo Raffaeli in un intervento contro l’ipotesi d’un D’Arzo postmoderno ancora più improbabile: non bastano note a piè di pagina, titoli di capitolo “all’inglese” o un oggetto narrativo indefinibile come Una storia così (ristampato or ora da Corsiero, ma recuperabile accanto a più materiale in Contea inglese, presso gli stessi tipi) per ascrivere qualcuno alla scuola dei puri giocatori. Il bottino dell’avventura sarebbe stato speso generosamente in Casa d’altri, dove cantilena della prosa e cupezza d’ambientazione si fonderanno in una visione purgatoriale definitiva, che meno “per bambini”non si può immaginare. Ma chi sa se, oltre a regalarci quell’«Eneide del XX Secolo» che andava apprestando e si annunciava comunque moralissima, l’autore avrebbe continuato il viaggio negli «orizzonti inaspettati, vastissimi» di questa letteratura, magari tornando al primo amore lirico (si ascoltino, nel Gec, i pochi e timidi versi prosastici dialogare perfettamente con la prosa metrica che li circonda) e inventandosi così delle nursery rhyme di pregio, come da noi non se ne son fatte. Si spera in qualche altro scaffale nascosto, qualche baule.
Gec dell’avventura” | Silvio D’Arzo, Eraldo Affinati | Einaudi | 2020| pagine 178 | euro 18,50
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