PREMIO NOBEL. Abdulrazak Gurnah, scrittore profugo contro il colonialismo
Come tutti, è stato colto di sorpresa. Come la maggior parte di quelli che l’hanno ricevuto, anche Abdulrazak Gurnah quando ha risposto al telefono e dall’altro capo della cornetta ha sentito che qualcuno voleva conferirgli il Nobel, ha pensato ad uno scherzo. Ma increduli sono stati anche la stragrande maggioranza dei commentatori, dei critici, dei giornalisti occidentali quando hanno letto che era stato lui a vincere il Nobel per la Letteratura del 2021 e si sono chiesti: “E lui chi è?”. Poco di cui stupirsi, se si abbandona per un attimo la lettura eurocentrica del corso degli eventi: come ha notato qualcuno sul web, probabilmente anche il più incallito lettore dell’Africa orientale si sarà posto la stessa domanda quando nel 1959 fu Salvatore Quasimodo ad essere insignito della stessa onorificenza.
Classe 1948, Gurnah ha vissuto fino ai diciott’anni a Zanzibar. Nel 1964 la “rivoluzione di Zanzibar”, un’insurrezione popolare che durò meno di un giorno, rovesciò il sultanato e instaurò una Repubblica socialista; poco dopo, nello stesso anno, nonostante le differenze etniche e culturali tra i due Paesi, Zanzibar fu annessa alla Tanzania per formare un unico Stato. Fu in quel periodo che la minoranza araba dell’isola iniziò a subire pesanti discriminazioni da parte della maggioranza della popolazione nera, e molti arabi di Zanzibar furono costretti a fuggire: tra loro, anche il giovanissimo Gurnah, che approdò in Inghilterra come rifugiato senza niente con sé a parte il sogno della scrittura, proprio come un personaggio del suo romanzo “Sulla riva del mare”, che arriva all’aeroporto di Heathrow solo con una scatola di incenso tra le mani e capace di pronunciare soltanto una parola, “Asilo!”.
A differenza di molti suoi colleghi di varie nazionalità profughi nel mondo, Gurnah rinuncia già dal suo primo romanzo alla sua lingua madre, lo swahili, e si converte alla lingua del Paese che lo ha accolto, l’inglese. Un’operazione mai facile per uno scrittore, soprattutto per un neofita di una cultura completamente diversa da quella natale. Molte sfumature, atmosfere, inclinazioni, declinazioni, vengono necessariamente perdute quando si passa da una lingua a un’altra, tanto più se ci si trasloca dalla lingua con la quale si è cresciuti, nella quale si è stati allevati, a una lingua immediata e lucida di un Paese come l’Inghilterra. Ciononostante, Gurnah ha evidentemente superato mirabilmente quest’impresa, e la sua adozione “nella” nuova lingua, grazie alla felicità della sua penna, è sembrata sin dalla sua prima opera un fatto del tutto naturale.
D’altronde, della lingua Gurnah possiede una conoscenza accademica. In Gran Bretagna Gurnah studia Inglese e si laurea e lì fa ritorno, dopo una breve esperienza di insegnamento nei primi anni ’80 in Nigeria, per conseguire un dottorato nell’Università di Canterbury. Successivamente assume l’incarico di docente di Inglese e di letterature post-coloniali presso l’Università di Kent, titolo che ha conservato fino al suo recente pensionamento.
Abdulrazak Gurnah è il quinto autore africano a vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Prima di lui solo Wole Soyinka (Nigeria, 1986), Naguib Mahfouz (Egitto, 1988), Nadine Gordimer (Sudafrica, 1991) e John Maxwell Coetzee (Sudafrica, 2003).
Gurnah è uno scrittore nero. E questo sembra non essere sfuggito a nessuno, primi fra tutti gli assegnatari del Premio, che su questo e sul carattere ideologico della sua produzione letteraria sembrano aver voluto porre l’enfasi. “Per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”, questa è la motivazione che l’Accademia di Svezia ha dettato per giustificare una scelta tanto inattesa. Colpisce l’utilizzo di un aggettivo così controverso, “compassionevole”, tanto più se ci si rivolge a quel popolo di diseredati senza terra già troppo spesso vittima di ipocriti pietismi nel mondo occidentale. Così come colpisce che sia citato il contenuto “politico” delle sue opere e non ne siano approfonditi lo stile e l’eredità meramente artistica della sua scrittura, che indubbiamente sono altrettanto degne di considerazione. Se è certo che la scelta è ricaduta su di lui per motivi letterari, in quanto “uno dei maggiori scrittori viventi al mondo”, la sua immagine artistica è stata paradossalmente oscurata dalle motivazioni degli accademici svedesi e dall’eco mediatica che queste hanno suscitato. Del resto, Gurnah è uno scrittore africano solo in parte: resta sempre principalmente uno scrittore britannico, che in inglese scrive, parla, insegna. Studi post-coloniali, in particolare: da qui la sua conoscenza della questione in maniera tanto cristallina e analitica da poterla trasportare nei suoi romanzi senza appesantirli, lasciando alla fiction la sua funzione artistica. Uno scrittore naturalizzato britannico, certo, ma pur sempre un profugo. Da profugo ha potuto indagare la questione dei rifugiati dall’interno, dal suo cuore stesso, e non può risultare, pertanto, stucchevole, perché quando parla di fuga, di abbandono, di migrazione, parla di un dolore che è anche il suo. Questo rende interessante la produzione di questo Nobel: che parli dal cuore dell’Europa (o quasi) al suo cuore profugo, che riveli a un continente che si sente investito dalle tragedie dei rifugiati di appartenere profondamente a quel destino di rifugiato – oltre che a un passato colpevole di colonialismo.
Resta il fatto, però, che la letteratura non è ideologia e che l’Accademia svedese avrebbe potuto scegliere termini migliori per suscitare nel mondo il desiderio di leggere le sue opere, di entrare in contatto con la sua viva scrittura.
Tra i suoi romanzi più famosi, “Paradiso” (1994), selezionato per il Booker Prize e per il Whitbread Prize, che racconta la vicenda del giovane Yusuf, venduto come schiavo dal padre a un ricco mercante e costretto ad accompagnarlo in un viaggio attraverso il continente africano: qui scoprirà la sofferenza e la morte che devastano la sua terra e soprattutto si renderà conto degli effetti del colonialismo e dello sfruttamento degli Europei. Il romanzo di formazione politica del giovane Yusuf si intreccia alla storia romantica dell’amore di Yusuf per la schiava Amina.
“Sulla riva del mare”(2001) è una storia di due nostalgie gemelle, quella di un profugo appena arrivato in Europa senza più niente se non una scatola d’incenso e la disperazione, e quella di un docente universitario per il quale la terra natia è sempre più quasi solo un ricordo, un vero alter ego di Gurnah. Per entrambi, la terra da rimpiangere e la felicità perduta si chiamano Zanzibar.
E’ una storia d’amore che attraversa le generazioni il filo conduttore di un altro titolo affascinante di Gurnah, “Il disertore” (2005): qui è un Inglese il protagonista, che, smarritosi nel deserto, viene salvato da un giovane arabo, Hassanali, e finisce per innamorarsi della sorella di lui, Rehana: un incontro tra l’uomo bianco venuto da erudito in Africa a esplorare il deserto e un mondo impenetrabile sulla riva dell’Oceano Indiano.
Il suo ultimo romanzo, per ora disponibile solo in inglese, “Afterlives”, affronta il tema del colonialismo tedesco in Africa. “I tedeschi hanno ucciso così tante persone che il Paese è disseminato di teschi e ossa e la terra è inzuppata di sangue”, fa dire a un suo personaggio. Le vicende private dei personaggi si intrecciano inesorabilmente alle repressioni e alle sanguinose torture e violenze imposte dai colonizzatori.
In Italia, i libri di Gurnah che sono stati tradotti, pubblicati da Garzanti, sono pressoché introvabili, se si escludono alcuni virtuosi circuiti bibliotecari. Sono già aperte le scommesse su chi si accaparrerà i diritti della produzione del nuovo Nobel nero. La competizione nel sottobosco editoriale dev’essere accesa, come anche accadde per la Nobel per la Letteratura di un anno fa, Louise Gluck: sicuramente meno ignota alle nostre latitudini di Gurnah, eppure diffusa in Italia soltanto da una minuscola casa editrice campana, Dante&Descartes. In pochi giorni, il mondo editoriale si accorse del suo talento e nel giro di poche settimane i suoi titoli più famosi erano già diffusi sul mercato librario da una delle maggiori case editrici del nostro Paese su raffinate copertine bianche, rosse e blu. Aspettiamo dunque che anche Gurnah riceva gli stessi onori e stampe altrettanto vivaci e curate. Anche lui, intanto, è ufficialmente salvo dall’oblio letterario: a questo serve il Nobel, non è mai di una questione di denaro. Pagine Esteri
*Valeria Cagnazzo (Galatina, 1993) è medico in formazione specialistica in Pediatria a Bologna. Come medico volontario è stata in Grecia, Libano ed Etiopia. Ha scritto di Palestina su agenzie online, tra cui Nena News Agency. Sue poesie sono comparse nella plaquette “Quando un letto si svuota in questa stanza” per il progetto “Le parole necessarie”, nella rivista “Poesia” (Crocetti editore) e su alcune riviste online. Ha collaborato con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna. Per la sezione inediti, nel 2018 ha vinto il premio di poesia “Elena Violani Landi” dell’Università di Bologna e il premio “Le stanze del Tempo” della Fondazione Claudi, mediante il quale nel 2019 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Inondazioni” (Capire Editore). Nel 2020, il libro è stato selezionato nella triade finalista del premio “Pordenone legge – I poeti di vent’anni”.
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