Transizione ecologica (Gaël Giraud, EMI, 2015)
Capitolo 11
LIBERIAMOCI DAL VITELLO D’ORO
[…]
Certo si può pensare, come Hobbes o, più di recente, Jean-Pierre Dupuy, che grandi collettività
come l’Europa non arriveranno mai a trovare l’accordo su un ideale positivo, su un concetto di
giustizia condivisa o di felicità comune. In tal caso si può formulare, con Dupuy, l’auspicio che
questi uomini e queste donne arrivino almeno a mettersi d’accordo sulla catastrofe che li attende.
Per unire le loro forze precisamente in vista di evitare la catastrofe climatica. Bisognerebbe allora,
per prima cosa, allertare l’opinione pubblica sui pericoli provocati dal riscaldamento climatico. La
difficoltà inerente a questa antropologia di ispirazione hobbesiana e pessimista è che essa
scommette comunque sul fatto che l’Europa, davanti alla possibilità dell’autodistruzione, non
sceglierà il suicidio. È in effetti una scommessa che siamo tutti tenuti a fare, almeno da dopo
Hiroshima. Ma, visto che una scommessa bisogna farla, perché allora non sperare di più? Sperare
che un ideale positivo, quello della transizione ecologica, sia in misura di mobilitare le forze, il
coraggio di essere cittadini del nostro continente… Che cosa stiamo aspettando?
Vivere da «figli della luce» oggi
Noi aspettiamo, in verità, che i professionisti della finanza di mercato, i loro creditori e azionisti,
come pure i politici che, in buona parte, hanno dimissionato dalle loro responsabilità nei confronti
della sfera finanziaria, girino le spalle al Vitello d’oro. Fintantoché la finanza deregolata prometterà
rendimenti del 15% l’anno, il risparmio non potrà essere investito in un programma
d’industrializzazione verde, che potrà essere redditizio solo sul lungo periodo. Il risparmio, pur
abbondante in Europa, resterà imbrigliato nel circuito del casinò internazionale dei mercati. Spetta
dunque a noi, in Europa, in seno alla società civile, nelle nostre Chiese, esigere dalla politica che
adotti le misure che s’impongono per regolare i mercati finanziari. Quando l’Europa industriale
capirà che i mercati deregolati rischiano di portarla alla perdita?
Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha chiesto, nell’autunno del 2011 [Per una
riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica
a competenza universale], delle riforme molto precise. Primo, l’introduzione di un’imposta sulle
transazioni finanziarie. Se l’avessimo fatto nel 2008, il problema dei debiti pubblici in Europa
sarebbe risolto. Secondo, la separazione dei mestieri di banca d’investimento e di banca di deposito
(cfr. cap. 10). Terzo, la ricapitalizzazione sotto condizione delle banche: ciò significa che,
contrariamente a quanto abbiamo fatto in Francia nel 2008, quando lo Stato vola in soccorso di una
banca privata in fallimento deve entrare nel suo consiglio d’amministrazione per esercitare un
diritto di controllo sull’uso che del denaro del contribuente sarà fatto.
Già nel 1931 papa Pio XI ci avvertiva in termini vigorosi nella sua enciclica Quadragesimo anno.
Non esitava a denunciare la
[…] concentrazione della ricchezza, […] l’accumularsi […] di una dispotica padronanza
dell'economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e
amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. (105)
Una tale concentrazione di forze e di potere […] è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di
concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno
curanti della coscienza. (107)
[…] la libera concorrenza cioè si è da sé stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la
egemonia economica. (109)
Questa non è la dittatura del collettivismo sovietico, cui Pio XI dedica pagine altrettanto sferzanti,
ma quella dell’alta finanza.
Nell’attuale contesto dei debiti pubblici europei, la parabola dell’amministratore scaltro nel
Vangelo di Luca (16,1-13) oggi può essere letta così: anche quell’amministratore ha gestito male il
denaro che gli era stato affidato. Rinunciando a esigere il rimborso di un credito che non gli è
costato nulla, rimettendo una parte dei crediti del suo padrone, restaura il legame sociale e protegge
la relazione di amicizia che lo lega agli altri. Oggi, essere un «figlio della luce scaltro» non vuol
dire giocare nel casinò sui dark pools per poi far cadere la mannaia sul bilancio dello Stato così da
sfuggire al proprio fallimento. Vuol dire contribuire alla costruzione dell’Europa di domani.
L’abbiamo visto nel capitolo 5: gran parte del denaro che una banca commerciale presta viene
creato nel momento stesso in cui essa lo presta. È una semplice operazione di scrittura al computer.
Una simile creazione senza costi, o quasi, si avvicina alla creazione ex nihilo di Dio. E può infatti
infondere in alcuni banchieri un senso di onnipotenza. Il presidente-direttore generale di Goldman
Sachs, Lloyd Blankfein, nel 2009 dichiarava: «Io sono solo un banchiere che fa il lavoro di Dio».
Ma l’analogia con il potere creatore del Dio della Bibbia si trasforma in una sinistra parodia quando
questi stessi banchieri sono capaci di pretendere il salasso dei loro debitori per recuperare un denaro
che a loro non è costato quasi niente. Il Dio d’Israele, invece, Colui che Cristo chiama «Padre», crea
e dà la vita gratuitamente, senza nulla chiedere in ritorno, in una sovrabbondanza amorosa.
La gioia della povertà
La logica della concorrenza mercantile (inscritta nel cuore delle istituzioni europee) si fonda
sull’antropologia pessimista dell’Homo œconomicus e, al tempo stesso, sul diritto di proprietà
privata. Prendersi cura dei beni comuni significa, al contrario, secondo l’etimologia latina
dell’aggettivo, prendere atto di ciò che è cum munus: ricevuto con il dono (munus). Ricevuto in
quanto dono per tutti. Significa mettersi nella prospettiva del Padre che, secondo Mt 5,45, fa
«sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni».
È facile capire come il passaggio dalla logica mercantile a quella dell’equilibrio kantiano debba
necessariamente interrogare il concetto stesso di proprietà privata. Non che si debba barattare la
società di proprietari menzionata fin dal primo capitolo con il collettivismo. La governance dei beni
comuni, ridiciamolo, richiede una politica ortogonale all’opposizione tra proprietà privata e
collettivismo. Lo mostrava già chiaramente la categoria dell’uso, in opposizione a quella della
proprietà, proposta dai teologi e dai giuristi francescani dal XIII secolo.
Fu Ugo di Digne, a quanto risulta, il primo a caratterizzare la povertà francescana in termini di usus.
La «legge naturale» prescrive agli uomini – così argomentava – di avere l’uso delle cose necessarie
alla loro conservazione, ma non li obbliga affatto ad averne la proprietà.
Non è infatti la proprietà degli alimenti e dei vestiti a conservare la natura, ma l’uso; pertanto è
possibile sempre e dovunque rinunciare alla proprietà, all’uso mai e in nessun luogo.
Bonaventura da Bagnoregio riprenderà l’argomento considerando che i frati minori, dal momento
che hanno deciso di seguire Cristo nella sua «altissima povertà», rinunciano a ogni diritto di
proprietà pur mantenendo l’uso dei beni che gli altri concedano loro. Una bolla di papa Gregorio IX
[Quo elongati, 1230] fornisce il fondamento magisteriale della distinzione tra uso e proprietà: posto
che i frati minori non hanno «proprietà né comune [collettivismo] né privata [società di proprietari],
ma che l’Ordine ha l’uso degli utensili, dei libri e delle cose che è permesso avere», il papa,
secondo Bonaventura, «ha separato la proprietà dall’uso, conservando la proprietà per sé e per la
Chiesa e conservandone l’uso per la necessità dei frati».
Sappiamo che, a dispetto della bolla di papa Nicola III [Exiit qui seminat, 1279] che conferma la
distinzione tra uso e proprietà, tale distinzione diverrà problematica quando papa Giovanni XXII
[decretale Ad conditorem canonum, 1322] farà valere che esistono però beni il cui uso ne comporta
la distruzione. E qui l’usus non può essere separato dalla proprietà. Il cibo, per esempio. È un modo
di sottolineare che non tutti i beni possono divenire commons. La distinzione tra uso e proprietà
rimane però centrale per una categoria di beni oggi in pieno sviluppo: i beni in condivisione. Il
Velib’ a Parigi e il Velov’ a Lione [esempi di bike sharing]. Parimenti, l’ascensore finanziato da
ogni comproprietario proporzionalmente all’uso che ne fa non avrebbe alcun fondamento giuridico
se non si potesse operare una differenza tra uso e proprietà. Negli Stati Uniti, i common interest
developments, residenze o piccole città private gestite in comproprietà, testimoniano che è possibile
estendere la logica della comproprietà a un intero agglomerato urbano. Più in generale, il concetto
di common in quanto bene rivale ad accesso libero suggerisce che la distinzione tra uso e proprietà
non deve essere stabilita in baso a ciò che viene consumato, ma in base alla fonte di tale consumo:
non il pesce, quindi, ma la zona di pesca.
Questa fin troppo breve digressione sulla teologia medievale francescana suggerisce che non ci
fanno difetto, in Europa, le risorse spirituali per vivere l’istituzionalizzazione di commons europei.
La tradizione francescana, tra altre, potrebbe rivelarsi al riguardo decisiva: orienta lo sguardo al
rispetto del creato (di cui ormai ben conosciamo la fragilità); ci libera dalla preoccupazione (in parte
di origine aristotelica) di far coincidere i segni che utilizziamo (parole, moneta, istituzioni politiche
ecc.) con un cosmo il cui ordinamento sarebbe preesistente all’esercizio della libertà umana e alla
storia (santa) dei nostri compromessi politici; suggerisce infine che lo spogliamento (dalla proprietà
privata in favore di un diritto d’uso) è fonte di gioia!
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