Notte tenebricosa (Giorgio Manganelli, Graphe.it, 2021)
Supponiamo dunque che la notte sia una grandissima pentola; ne verr , in un primo ordine di immagini, che noi in essa stiamo addentro, e dunque siamo cibo: crudo, per certo, ma che per giaculatoria di millenni va cuocendosi, e insaporendosi, e dorandosi a cattivare appetiti; e potremo dire essere cibo variamente lavorato: e forse le foglie d’ottobre quando croccano, saranno prefigura dell’universo cotto, ma per essere fragili e rade, in tanta acerbit di oggetti, non durano e si disfano. E allora diremo: essendo noi cibo, commisto di verdure e carni mobili, di che ci saleremo? E qui vi copia di estrose risposte: salati da meteoriti, dir taluno, che piovono dal cielo, che ha nelle stelle i buchetti della capovolta saliera; e aggiunger : di l dalla pentolissima, per certo una gran mano scuote e arrovescia su di noi la celeste pepaiola, che avr forse forami pi lati e radi: che noi diciam pianeti; altre ilarit : ci sale la deiezione degli angeli, che scende su di noi come rugiada, o piova, o polvere cosmica; o non sar sale le rocce che inabitiamo, messe qui a sciogliersi, con noi infitti nel mezzo, a quelle inutilissime e pittoresche? E come saremo noi rimestati? Coi tremuoti, inventa uno, che sarebbero sommovimenti che la gran massaia d al pianeta, per meglio rassettarvi le pietanze. Ma seguiamo quest’altra invenzione: chi dir essere la notte codesta massaia, potr aggiungere: essa tonda, pingue, o piuttosto paffuta; e infatti, come costume delle cuoche, ci va assaggiando, per tastar la nostra cottura; e i morti notturni saranno i deliziosi bocconcini della oscura risdora; che, quelli, inghiotte, ma altri risputa, come crudi e indizi di crudit , e sono i suoi sputi le stelle filanti agostane; a chi dir perch agostane? si potr ribattere: che la notte allora attizza i suoi calori sul fornello del mondo, e spera di pi in pi alacre consumazione dei cibi, e tenta, impaziente, e spazientita s’adira. Ma chi inventa un focolare mondiale, ha daporlo o sotto di noi, o dall’altra parte della notte; nel primo caso, potr dire: il subterragno, antipodale sole mobile focolare che da sotto cuoce via via le varie paste planetarie, e la pentola notturna ruota del pari, turibolata da qualche angelo cuoco; o se sar dall’altra parte della notte, non saranno le stelle indizi dei forami, e della vecchiezza della pentola? Oh no: dir taluno; laggi , nel fondo della pentola, gi si gonfiano le cr pes, i soffioni ben cotti, e noi ci stiamo avvicinando, e un giorno noi splenderemo della medesima perfetta cottura sul fondo di essa pentola. O anche: il cibo che si prepara vuole spezie e sughi, e stelle e pianeti e la focacciosa luna sono dosi, lieviti, pepizie, che per lo spazio ci vengono addosso a insaporirci dei loro esiziali splendori; e che il buon sapore vuole siffatte manipolazioni eteree. E a chi ribattesse, essere l’universo dilatato ed espansivo, l’ingegnoso oratore replicher : no, ma solo esser quello svolat o di pepe e sale, come quando il cocitore ne fa getto subitaneo, e quelli svolano un poco, prima di posarsi sulle fin allora sciape vivande.
E ancora: la nostra vicenda di maturazioni e morti non rientra nel concetto di destino, ma s di ricetta; e i cicli della storia, le rivoluzioni e i precipitosi affrangimenti, sono regolati da un supremo Artusi, ove si legge: Sbattansi guerre dodicimila, cervella millanta… . E magari certi bizzarri sommovimenti, certi estri di miracolanti sentenziosi, saranno come sperimenti di inacetire, o maderizzare, o rosolare ora qua ora l , perch codesto souffl vuole cure e invenzioni. Se la notte pentola, essa certamente la pi congrua a nostri modi e estri: e l’esser tutta tonda vuol dire che ci vuole tutti equamente cotti, e forse che vuol di noi fare salsa o purea o finanziera o cibreino o crema o budino o zuccotto; e si dir : non pentola, ma forma, quale ospita e imbraga in mentite, effimere sculture zabaglionati biscotti o domestiche cioccolate; tutta la gran confusione del nostro mascalzonesco coesistere cibesco, il mangiarume untume, l’umanesimo vanesio e incommestibile, vengono travasati piamente in quella gran forma negricante, e le stelle vi stanno a mo’ di canditi, di zucche, di zibibbi illuminosi, da sovrapporsi alla nostra canaglia irsuta, ridotta a bene ordinata calotta, liscia e idonea ad ospitare quelle celesti letizie. E sar la luna la ciliegia per cui s’azzuffano gli infanti. O pensiamo una notte affatto destellata e illune: il predicatore educativo, il didattico didatta proclamer : Noi siamo il grasso e impuro ripieno degli anolini, dei cappelletti, da ridurre a forma ordinata e schietta! . E non saranno le aureole, di cui si fregia anche un mentito pianeta, messo a far da spia in mezzo a noi, non saranno modelli di domestici, astrali ravioli?
Come recipiente, la notte tenebricosa terr forse pi del tegame, e la nostra inesatta tondit mieter la nipponica solarit dell’ovo: indizio ovvio che ci troviamo coinvolti in un solstizio di magro, che gli dei non hanno riscosso lo stipendio, o che, a punizione dei nostri peccati, essi ci danno prova di dedizione e umilt cibandosi di noi a mo’ di uovo, anzich di sapida cotoletta alla bismarck. O forse, i siffatti noi, l’irato Iddio ci classifica come infimo cibo, da latteria degli angeli; o, incarnandoci in hamburger buttato a sfrigolare sulla piastra della notte, ci passer alla tavola calda dei diavoli itineranti, frettolosi di un boccone all’angolo di una strada, innaffiato di un peperoncino d’abisso.
Ma chi consideri la notte lunata, avrà a sua mercé copia di apoftegmi illuminosi: che la luna piena sia truciolo di burro, buttato a rosolare la nostra familiare fettina; o cuocervi ovo; o la luna, cipolla a insaporire la nostra insipidit ; e allora le stelle potranno essere lacrime della massaia che cesella detta cipolla; o spruzzata d’olio in cui quella si deve rosolare; o la luna sar frittata, e noi la guardiamo avidi, essendo affamati da tempo di tanta frittata; o forse focaccia ben lavorata, che un aio punitore – ma giusto, – ci fa sfilare davanti, a nostra confusione: visto, cosiffatte frittate sono all’universo, e voi non siete che un escrementizio immondezzaio di cibi mal cotti o affatto crudi. E qui ancora; se noi siamo minestra, la notte sar certo pentola; ma se siamo carne, non sar pentola a pressione? Ne danno indizio i lampeggiamenti estrinseci e lontani, e un certo vaporar delle membra, e forse la canicola ci matura al gran banchetto. O è forno in cui le nostre viscere, e membra, si consumano in delizia nutritiva; o non sar allora il morto volontario l’attendente del cuoco, o il volonteroso saltimbocca che si precipita dove l’ustione è totale, a dorarsi, croccarsi, disfarsi in butirrosa delizia? Ma ci si ammonisce che la cottura vuole i suoi tempi, e forse il maturissimo saltimbocca ci verr restituito in impervio tournedos. E qui l’ingegnoso chiosatore potrà aggiungere: nel serbatoio cibesco della notte, i nostri nascere e morire e rinascere sono configurabili come arguzie gastriche. Non da insetto si sale in mamma, di mamma in mantide: ma da fettina in pollo, da pollo in bistecca, in trota alla mandorla, in fonduta alla bourguignonne, e fegato alla monferrina: che sono tutti gradi di santità maggiore, o minore dannazione. Un martire della mitezza e del perdono, si guadagna, non gi la palma del martirio, ma la salvia; il rosmarino insapora il provvisorio decesso del pensatore; e la rara paprika arrossa i nobili fuochi di un rissoso demente; sebbene sia da chiedersi non vi siano decadenze allarmanti, se un generale non scenda a purea di patate, un pontefice a liscoso e taciturno scorfano, un asseverativo cauto in verme da serpe, un governativo a puzzola incommestibile. E vedi quanti moniti e chiose, e come colorite: vai inacetendo, oliati, per quell’anima origano e chiodi di garofano, cuociti adagio, togli la scorza, pepe nel culo, amico mio! E allora nella notte gran contenitore di noi cibarie le sere si calcoleranno da certe inavvertibili mutazioni: alle lunghe et del rosolamento seguiranno i bruschi insulti del pepe, i sommovimenti del si rivolti cos che equamente cuocia da entrambi i lati , i rimestamenti, i versamenti di broda, i concuocimenti di salse, le mescianze di spezie, le impastature, i sgocciolamenti, gli sfriggimenti, le dorature.
Ma s’è detto: la notte come contenitore; come luogo, insomma, in cui il cibo indugia e matura; ma allora, dirà taluno; perché non fantasticarla architrave, o forse tettodi cui la sfilza delle stelle è architrave, cui noi siamo appesi come busecca di strutto, come gentile culatello? O forse la notte è un vaso, una albarella in cui maturiamo come la toma langarola, quaranta giorni in grappa o olio, prima di spalancarci alla delizia dei tendenti. E la storia niente pi che le sagge e argute ventilazioni cui i vecchi espongono i loro salami, affinch si asciughino debitamente, ed escano salsi ed acri dalle loro cotenne, duri come membri di giovane sposo, ma assai pi sobri e pazienti. E se la notte la dispensa, vien fatto, dir il didatta, di tendere l’orecchio, a intrasentire negli spazi astratti i fragori dell’apparecchiato imminente banchetto; e forse certi disastri cosmici di cui favolano gli astromanti non saranno che le disastrose defecazioni degli dèi; o, più rispettosamente, lampade che si fulminano, corti circuiti, come in ogni domestico luogo, terrestre o meno.
O piuttosto si pensi la notte come frigorifero: dove noi sostiamo per i necessari secoli, in attesa che il nostro padrone torni affamato dall’ufficio, e per non svegliare la sposa, metta mano a far sandwich della nostra pochezza. E può essere che ciò non accada per molti secoli ancora, giacchè sua moglie è solerte e desta, e l’orario d’ufficio comodo e agevole; e noi ci chiediamo non illegittimamente se, in tanta sosta nelle tenebre officiose della nostra imbalsamatrice calotta, noi non verremmo perdendo molti dei nostri gusti; e deposta la salsa nequizia, la piccante lussuria, l’agrodolce accidia, la pastosa rissosità, la pourriture sarcastica, la lascivia bont al sangue, noi non riusciamo insipido cibo da supermarket, in cellophane asettico, buono per il dubbio sapore di una areola, ma non per l’onesto piatto di un onesto lavoratore. E forse ci getterà nell’immondezza dei virtuosi; o ci affogher , con un moto di sdegno, in una indigesta maionese di piume d’angelo, o una rubra di divino sangue sacrificale. Non sarà il sangue di Cristo salsa per insaporire la povertà delle nostre membra sciape?
O non sar già la notte codesto secchio delle immondizie, pattumiera, ruera, in cui le nostre carni e vegetali e cristalli si accumulano in disordinato orrore, cibi scartati, timbrati come commestibili, o addirittura marci e iniqui, seme di botulismo e tifo, quartiere di putrescenza, colonia di putredine, disfatto regno di pestilenza, lazzaretto di re e geni, lebbrosario di voluttà, averno di gloria? Non siamo noi già fuori, totalmente fuori, là dove è detto che le tenebre sono continue, dove la notte perfetta; e non aspettiamo noi, mentre perfezioniamo la nostra putrescenza nel solido cesto notturno, la mano rozza ma esatta dell’uomo che ci condurrà alla nostra conclusione di cenere – o forse ci dar in pasto a bestie d’oro, alle linci che si librano nei deserti del cielo, i cui stomachi non temono il nostro male, i cui palati sono insensibili alle asprezze del nostro sapore. Ma taluno dir : quale equivoco; noi stiamo sì imputridendo, ma non nel secchio, ma nella cantina della notte, come si conviene a saggi formaggi, o a macerati funghi sapienti, o a tartufi, tuberi baffuti; la nostra dannazione nei piani del gran gastronomo, come i vermi nei formaggi d’Oristano.
La notte il nostro scaffale, e le nequizie, le stoltezze cui ci invita, e poi i rimorsi e gli affanni e le doglie del parto, tutto ci ci matura e insaporisce, e la nostra dispensa ci fornisce quella turpe consolazione, quella disperata acredine, quella fraternit incestuosa, quel costante orrore, quelle dimensioni umilianti, che nutrendoci e lavorandoci di rancore, di blasfemi oltraggi, di querule querimonie, ci porta, sfatta delizia, maturo brie, al palato che non teme confronti, al vero Signore che se ne intende. Ma allora la notte sar la medesima cosa dell’inferno?
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