I riferimenti letterari nelle canzoni di Lucio Dalla, tra abissi e paradossi
Chi era davvero Lucio Dalla (1943-2012)? O meglio: “quanti” era Lucio Dalla, diviso com’era tra il suo desiderio di attenzione e l’amore per pubblico, tra fede e spirito critico, tra cantautorato e anima pop? E quali sono i riferimenti letterari ricorrenti nelle sue canzoni? Su ilLibraio.it un approfondimento che prende le mosse da “E ricomincia il canto”, raccolta di interviste a cura di Jacopo Tomatis, per sondare tratti e paradossi dell’artista bolognese.
Dalla come sono pochi, Dalla permaloso, Dalla bello sguardo, sguardo che ogni giorno perde qualcosa. Se chiude gli occhi, lui lo sa: stella di periferia. Dalla con gli amici, Dalla che vorrebbe andar via… Lucio grosse scarpe e poca carne, Lucio cuore in allarme, con sua madre, una sorella, poca vita, sempre quella. Se chiude gli occhi, lui lo sa: lupo di periferia. Lucio col branco, Lucio che vorrebbe andar via…
Sembra un gioco, eppure parlare di Lucio Dalla (Bologna, 4 marzo 1943 – Montreux, 1º marzo 2012) è impossibile, senza avere in mente la sua natura quasi duplice, alteregotica, le sue note sempre affini, i testi di certe canzoni, i suoi riferimenti a un intero mondo e a poche persone care, la sua evoluzione anno dopo anno e suggestione dopo suggestione.
Icona del cantautorato italiano e allo stesso tempo della musica pop, con gli stadi pieni per ogni concerto e decine di trasmissioni radiofoniche e televisive pronte a ospitarlo, se volessimo paragonarlo a un libro, Lucio Dalla avrebbe i margini larghi e un font semplice, con il quale raccontare senza fare chiasso storie di quotidiana malinconia. Difficile riassumerne i riferimenti letterari, però, così come il filo rosso della sua poetica: “Dalla, con le sue contraddizioni, è stato davvero tutti”, scrive non a caso Jacopo Tomatis nell’introduzione a Lucio Dalla. E ricomincia il canto, raccolta di interviste pubblicata da il Saggiatore.
La verità è che Lucio Dalla stesso ruotava intorno a più idee nucleari, come ha spiegato in diverse occasioni nel corso del tempo. A Radio 2, nel 1973, per esempio, diceva a Luciano Simoncini che le sue canzoni “sono quasi tutte canzoni di mare, o canzoni di porto, o canzoni che parlano di quell’ambiente. Appena posso raccontare, racconto di mare. E vorrei parlare di ‘Itaca‘, che ho immaginato mettendo in discussione Ulisse come eroe“.
Due anni dopo, rifletteva invece con Elena Doni di Radio 1 sul fatto che “l’amore è tutto. Molte mie canzoni, che non sono canzoni dichiaratamente d’amore, sono… come si può dire: ricerche comunicative d’amore, sono cantate con amore, parlano di situazioni dell’uomo. È sempre un fatto estremamente sentimentale. Io credo nel sentimento come componente fondamentale dell’ideologia“.
La tradizione omerica e quella biblica sembrano, quindi, i suoi primi, sommersi, capisaldi letterari. Non per niente Lucio Dalla era credente (“il che è molto importante”, sottolineava a Luca Corsi su Nuovo Sound nel 1981), di una fede che aveva a che fare con il popolo, con il futuro e con la speranza. Affamato di attenzione e polistrumentista dalla formazione jazz, dichiarava d’altronde di esibirsi perché c’era chi nelle sue canzoni ritrovava frammenti di esistenza, ipotesi sul domani, condivisioni senza artifici, perfino tra la “gente che sta a Rimini a mezzogiorno del 15 agosto”.
Nella sua comunicazione dall’ambizione sovrapersonale, con un linguaggio che già negli anni Settanta definiva “mediterraneo“, Lucio Dalla sembra inoltre ereditare uno dei princìpi della letteratura medievale, così poco autorecentrica e in grado di contaminare in ogni genere di testo il grave e l’umile con sagacia: “In fondo io non sono un caso”, dichiarava lo stesso cantautore, “io credo fondamentalmente nell’uomo, mi interessano soprattutto i problemi dell’uomo. Che sono i problemi miei, ma in quanto uomo e in quanto io credo di essere un uomo come gli altri”.
Ed è a partire da queste premesse che si sviluppa in maniera imprevedibile quello che potremmo definire il “triplice paradosso Dalla“. Se, infatti, da una parte sosteneva di essere uno, e nemmeno più importante di chissà chi, dall’altra è pur sempre vero che dietro a ogni sé stesso ce ne sono decine di altri, specialmente se si fa dell’arte il proprio mestiere la propria vocazione.
Lucio Dalla è stato dunque un interprete di esistenze e di stati d’animo e, in quanto tale, si è trasformato in molteplici volti, partendo da ciò che conosceva, per poi spiccare un salto di accesso alla dimensione creativa. In tal modo è passato dalla dimensione ridotta di sé a una tridimensionale complessità corale, che arricchisce e sublima l’esperienza del singolo, arrivando “un attimo prima che [certe cose, ndr] diventino inconscio collettivo”.
E ancora: anche tenendo presente che Lucio Dalla aveva individuato alcuni pilastri di riferimento nel suo paradigma compositivo, va riconosciuto che nessuno di loro è mai stato rivestito dalla polvere d’oro della sacralità.
Prendiamo il pubblico, al quale il cantautore ha rivolto le seguenti parole durante un’intervista con Lina Coletti a L’Europeo: “[…] purtroppo, il pubblico è rimasto ai tempi di Fiorin fiorello: ragiona per cliché, per categorie, gli manca il gusto della scoperta per uno che sa fare il suo mestiere a prescindere dall’aspetto fisico, vuole ancora riempirsi gli occhi con un’immagine che io non ho. E quando dico immagine dico immagine di ordine estetico, familiare, eccetera”.
O consideriamo Dio stesso per come Lucio Dalla si rapporta a lui in Comunista, brano contenuto nell’album Cambio del 1990, che in origine era intitolato Ho cambiato la faccia di un dio e le cui parole, scritte da Paolo Roversi, erano già apparse nello spettacolo Il futuro dell’automobile e altre storie: “Canto l’uomo che è morto, / non il Dio che è risorto. / Canto l’uomo salvato, / non l’uomo sacrificato. / Canto l’uomo risorto, / non il Dio che è lì morto. / Canto l’uomo che è solo / come una freccia nel suolo, / l’uomo che vuole lottare / e che non vuole morire”.
Prima di diventare un maestro ispiratore in tutto il mondo, Dalla era dunque un nano che ora restava sulle spalle dei suoi giganti e ora scendeva giù per terra, a sbirciare il mondo da una prospettiva sua, indipendente, quasi dissacrante nei confronti di quanto altri al suo posto avrebbero forse ritenuto intoccabile.
C’è infine un terzo e ultimo paradosso, ancora più pregnante di quello per cui Lucio Dalla si sentiva appartenere più a Roma che a Bologna – “io sono nato a Bologna forse per caso, ma il mio territorio d’azione in senso affettivo, in senso psichico è Roma. Era scritto forse che io venissi qua perché questa è la mia vera città. Per quanto Bologna sia una città splendida, meravigliosa, organizzata, con delle strutture perfette, una città fatta, sembrerebbe, a misura dell’uomo… Io si vede che non sono l’uomo adatto per stare a Bologna“, raccontava sempre a Elena Doni nel 1973.
Parliamo dell’abisso delle sue canzoni, un abisso che sembra poco spaventoso, forse perfino superficiale nel senso etimologico del termine. L’equilibrio fra testo e note, nella sua produzione, non sembra infatti toccare le vette di impegno civile di Giorgio Gaber o di Fabrizio De André, né il lirismo struggente di Francesco De Gregori o di Lucio Battisti, e nonostante questo, a osservarlo meglio, “com’è profondo il mare” nel quale Lucio Dalla ha sempre navigato.
Benché il suo universo sembri a un primo sguardo una “commedia americana”, nel tuffarcisi dentro ci si accorge che, in realtà, è uno di quelli in “l’America è lontana” e torna solo come l’aggettivo di una sottana, o come un’eco tra le lampare e la scia di un’elica, restando però estranea a ogni piazza Grande in cui la gente cerca di “capire cosa succede dentro e cos’è che lo muove”, o “da dove viene ogni tanto questo strano dolore”.
Ben al di là dei luoghi comuni, in più punto più intimo di qualunque “dramma falso”, Lucio Dalla è stato in effetti un poeta dell’impercettibile, che ha “sempre ritenuto che il respiro sia più forte del tuono“, senza per questo smettere un attimo di respirare.
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