Nikolaj Gògol’, l’acuto narratore dell’avvilente mediocrità umana
«E si copriva la faccia colle mani, il povero giovane, e molte volte, in seguito, durante la sua vita, tremò vedendo quanta inumanità sia nelle creature umane, quanta feroce volgarità si nasconda nella mondanità raffinata e illuminata, e, Dio mio! persino negli uomini che il mondo tiene per nobili e onesti».
Misterioso e ambiguo scrittore russo dell’Ottocento, Nikolàj Vasil’evič Gògol’ ha diviso la critica, che, ancora oggi, non ha un’opinione unanime riguardo la definizione della sua opera. Alcuni critici lo considerano il capostipite di quella scuola realista che si sarebbe vigorosamente sviluppata in Russia, altri vedono in lui uno scrittore prettamente romantico. Il suo è però un romanticismo russo, tendente cioè a sconfinare in una raffinata ironia che abbandonerà i canoni della tradizione romantica europea e si volgerà presto verso una resa naturalistica della vita quotidiana, in cui solo qualche volta si possono cogliere delle venature emotive e sentimentali.
Nato il 20 marzo del 1809 a Soročincy, nel governatorato di Poltava, in Ucraina, è noto in tutto il mondo per la sua aspra satira di quelle “anime morte” che si aggirano nel mondo facendo mostra della loro bassezza e mediocrità e a cui l’autore guarda con attonita lucidità riuscendo a strappare un amaro sorriso pur nella drammaticità degli eventi narrati.
La sua produzione letteraria influenzerà profondamente i più grandi scrittori russi e lo stesso Dostoevskij affermerà, riferendosi alla sua generazione di intellettuali, che «siamo tutti usciti dal cappotto di Gògol’».
Quel cappotto che dà il titolo ad uno dei suoi racconti più celebri diventerà il simbolo di una letteratura volta ad analizzare con amarezza e rammarico la crudeltà di una società pronta a giudicarti per quello che possiedi. E diventa un modello letterario di comicità provocatoria e irrispettosa nei confronti degli uomini, qualunque sia il loro ceto sociale di appartenenza, derisi spietatamente per la loro inconsapevole insulsaggine.
Un maestro nel descrivere personaggi infimi che diventano, grazie alle sue abilità narrative, il simbolo di una condizione umana disperata perché ingabbiata eternamente nello squallore della mediocrità.
Questo pallido figlio dell’Ucraina apre molte strade alla letteratura e fornisce un quadro spietato della natura umana facendo sì che la sua opera assuma un valore universale in grado di interpretare meravigliosamente le contraddizioni di tutti i tempi.
La sua educazione risentirà della fervente religiosità della madre e dallo spirito buontempone del padre, ereditando da quest’ultimo il piacere della battuta spiritosa e l’osservazione satirica della realtà. Nello stesso tempo, però, le ossessioni religiose della madre insinueranno in lui un feroce senso di colpa per aver dedicato la sua opera a satireggiare un’umanità che avrebbe invece dovuto comprendere. Quella vena di torbido misticismo, che lo spinge precocemente sino ai limiti della pazzia, emergerà nei suoi insoliti gesti e porterà i critici a dividersi nell’analizzare i suoi scritti in cui alcuni di loro intravedono un messaggio filantropico che darà vita ad una nuova corrente letteraria, quella degli “umiliati e offesi”.
Scrittore straordinario, il suo stile è caratterizzato da un’ enorme potenza creativa da cui scaturisce una prosa espressiva dall’andatura incalzante di suggestioni sonore e pittoriche che rendono coinvolgente la lettura delle sue opere.
Letteratura realista o filantropica? Un dubbio destinato a permanere in chi ha letto le sue principali opere e vuole affibbiare a tutti i costi un’etichetta a racconti e romanzi che mostrano sarcasticamente la mediocrità umana in tutta la sua assurdità e tristezza. I suoi scritti sfociano spesso nel grottesco e nel magico e i suoi personaggi sono cristallizzati e sopraffatti dall’ossessione per il denaro. Il sistema che l’uomo stesso ha creato ostacola ogni possibilità di potenziamento delle qualità umane sollecitando quel processo di degradazione spirituale latente in ogni essere umano.
Figlio di un piccolo proprietario terriero, dopo aver concluso gli studi letterari, si trasferisce nel 1828 a Pietroburgo e inizia a lavorare come burocrate senza però mai abbandonare la sua passione per la letteratura, potenziatosi sotto il cielo grigio della nordica città russa in cui decide di andare a vivere per inseguire il suo sogno romantico, presto deluso, di grandezza.
L’anno seguente pubblica il suo primo idillio in versi e, in seguito al giudizio estremamente negativo della critica, compra tutte le riviste in cui era stata pubblicata la sua prima opera e le brucia affinché non rimanga alcuna traccia del suo primo scritto.
Profondamente amareggiato parte per la Germania e ritorna l’anno dopo a Pietroburgo dedicandosi agli immobili pubblici e ai suoi piccoli possedimenti.
Conosce lo scrittore romantico Aleksandr Puškin e comincia a scrivere, nelle notti solitarie che trascorre in un’umile stanza d’affitto, dei racconti che gli procureranno una discreta notorietà. Pubblicati sotto il nome di “Veglie alla fattoria di Dikanka“, saranno accompagnate da un coro di elogi che esalteranno il suo animo e lo condurranno ad abbandonare spavaldamente ogni altra attività lavorativa, tra cui quella di insegnante di storia in un collegio femminile.
Scrive freneticamente e si afferma definitivamente come l’unico genio sbocciato in Russia dopo l’apparizione del grande scrittore Puškin.
Rivelatosi con alcuni racconti ucraini, continua la sua attività letteraria con una serie di storie pietroburghesi che destano l’ammirazione generale per il loro realismo e la struggente carica di empatia umana con cui ritrae i casi di piccoli esseri umani, schiacciati dal conformismo e da un sistema disumano, come succede al protagonista del racconto “Il cappotto“.
Il 19 aprile del 1836 supera brillantemente la prova del palcoscenico nella rappresentazione della sua commedia “L’ispettore generale“, feroce satira della burocrazia statale zarista. L’opera, considerata oggi uno dei capolavori teatrali di tutti i tempi, suscita accese contestazioni in tutti gli ambienti pietroburghesi e Gògol’ viene accusato di lesa maestà. Molte porte si chiudono, gli amici scompaiono e i giornali di regime lo attaccano senza pietà. Solo l’amico Puškin reca conforto al nevrotico e sensibile scrittore che, dopo lo scatenarsi di tali polemiche, comincia a domandarsi se non abbia esagerato con la satira e ritiene sia necessario concedersi un periodo di riflessione distante dalle polemiche.
Dal 1838 al 1846, tranne brevissime interruzioni, viaggia in Europa e trascorre la maggioranza del tempo a Roma, dedicandosi soprattutto alla stesura del romanzo “Le anime morte” di cui ne pubblica solo la prima parte nel 1842. Deluso da quella tirannia del denaro che vede dilagare ovunque, la sua salute fisica comincia rapidamente a crollare e quella psichica a degenerare.
Non ancora quarantenne avverte un senso di fallimento e, influenzato dall’ossessione religiosa della madre, durante la stesura della sua opera “Le anime morte“, viene colto da una crisi mistica che lo induce a trascorrere un anno di pellegrinaggio a Gerusalemme. Da lì raggiunge la Russia e da quel momento decide di non viaggiare più. Lavora febbrilmente alla seconda e terza pagina del romanzo, ma è attanagliato da rimorsi e scrupoli che gli arrestano la mano e lo costringono a rivedere spesso i brani scritti. Una notte, annientato dal tormento e dall’angoscia e aiutato da un anziano servitore, scaraventa nel fuoco i manoscritti della terza parte. Vedere le pagine divorate dal fuoco trasmette a Gògol’ un senso di purificazione che idealmente distrugge tutti gli errori compiuti nella sua esistenza. Così commenta la sua produzione letteraria già pubblicata: «Le mie parole sono state un’offesa all’umanità, un insulto al Signore. Niente di quanto ho scritto merita di essere conservato. Peccato che non possa distruggere interamente la mia opera, ma a questo penseranno i posteri. Io ho fatto quello che ho potuto, ho dato un esempio».
Finalmente riesce a dormire tranquillo, poche ore di quiete che le sue nevrosi ed il suo temperamento estremamente sensibile, prima del definitivo riposo. Lodi e accuse hanno minato il suo animo, particolarmente vulnerabile per quel senso di colpa che la madre gli aveva trasmesso.
Si spegne a Mosca, dopo un periodo di deleteri digiuni che debilitano irrimediabilmente il suo fisico, il 21 febbraio del 1852. Così abbandona la scena del mondo lo scrittore il cui riso amaro dà una sferzata alla Russia e che dopo aver raccolto l’eredità di Puškin, la butta via, considerandosi un fallito.
Come i suoi personaggi, incapaci di adattarsi ad un mondo dominato dalla sopraffazione e dall’avidità di denaro e destinati a soccombere concludendo la loro vita nella follia, così termina la vita di questo grande scrittore, inadatto a sostenere lo squallore di una società sempre più decadente e priva di impeti spirituali.
Tra le sue opere principali, in cui si riesce a mescolare in modo straordinario l’elemento fantastico a quello realistico, ricordiamo, oltre al già menzionato racconto emblematico “Il cappotto“, la tormentata opera incompiuta “Le anime morte” e la commedia “L’ispettore generale”, non bisogna dimenticare le raccolte “Arabeschi” e “I racconti di Pietroburgo“. Nella sua opera si riscontra un’arte molto raffinata e tormentato che sceglie la semplicità per tessere un filo sospeso tra romanticismo e realismo, tra l’apparentemente distaccata osservazione della realtà e i voli di una fantasia che cela con l’uso del grottesco, la sua carica commovente di pietà umana.
Di seguito una raccolta delle citazioni più significative tratte dall’enorme produzione letteraria di quello che è stato considerato il maestro della letteratura in lingua russa ed in cui, al contrario di animali e oggetti, gli esseri umani sembrano frantumarsi in una serie di fattezze fisiche che si animano separatamente come se fossero delle maschere dotate di vita propria.
E Pietroburgo rimase senza Akakij Akakievič, come se non ci fosse mai neanche esistito. Si dileguò, scomparve un essere che non era protetto da nessuno, a nessuno caro, e che non interessava nessuno; che non aveva richiamato su di sé l’attenzione neppure del naturalista, il quale non manca di infilzare nello spillo anche una comune mosca e studiarla al microscopio; un essere che aveva sofferto umilmente ogni beffa dei compagni d’ufficio, e che era disceso nella tomba senza aver compiuto nulla di notevole nella vita, ma a cui, tuttavia, sia pure all’estremo declino della vita, era comparso fuggevolmente l’ospite luminoso nelle parvenze di un cappotto, ravvivando per un fugace istante la sua misera esistenza; ma sul cui capo si era poi abbattuta ineluttabilmente la sventura, così come essa si abbatte sopra i potenti della terra!…
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Vedete fino a qual punto, nella Santa Russia, tutti sono contaminati dall’imitazione: ciascuno mette in ridicolo il proprio superiore – e poi lo scimmiotta.
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Ma di lunga durata non v’ha nulla al mondo, e anche la gioia, nell’istante che segue al primo, già non è più tanto viva; al terzo istante diventa ancor più debole, e da ultimo insensibilmente si fonde col nostro stato d’animo abituale, così come sull’acqua il cerchio generato dalla caduta di un sasso si fonde, da ultimo, colla liscia superficie.
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Mi ero accorto che nelle mie opere avevo riso gratuitamente, senza un perché. Quando si ha da ridere val meglio ridere forte di quel che merita che tutti ridano.
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E si copriva la faccia colle mani, il povero giovane, e molte volte, in seguito, durante la sua vita, tremò vedendo quanta inumanità sia nelle creature umane, quanta feroce volgarità si nasconda nella mondanità raffinata e illuminata, e, Dio mio! persino negli uomini che il mondo tiene per nobili e onesti.
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Ora, a me non piace parlar di musica né di canto. Mi sembra che tutti i trattati e i resoconti musicali debbano apparir noiosi ai musicisti stessi: la più gran parte della musica è ineffabile e inanalizzabile.
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Hanno un bell’essere stupide le parole dello sventato: esse, a volte, sono sufficienti per confondere l’intelligente.
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Minacciosa, orrenda è la vecchiaia che vi sta innanzi, e nulla ridà indietro! La tomba è più misericordiosa di lei, sulla tomba sta scritto: qui è sepolto un uomo; ma nulla si legge sui freddi, insensibili tratti dell’umana vecchiaia.
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Sempre nella vita, dovunque, fra gl’irti strati suoi piú bassi, ruvidi di miseria e bruttati di muffa, o tra le freddamente uniformi, noiosamente forbite classi superiori – dovunque, almeno una volta, interviene sul cammino dell’uomo un’apparizione, dissimile da tutto quello che gli è accaduto di veder finora; e, almeno una volta, desta in lui un sentimento, dissimile da tutti quelli ch’è destinato a provare nel corso della vita.
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Vi sono persone che esistono in questo mondo non già come un oggetto a sé, ma come supplementari moscature o screziature d’un dato oggetto. Se ne stanno sedute sempre a quel posto, tengono sempre in quella posizione la testa: stai lí lí per scambiarle per un mobile, e pensi che da quando soli nate non è uscita mai una parola da quelle labbra. E invece in qualche altro luogo, nelle stanze delle cameriere, o in dispensa, verrà fuori né piú né meno… ohoh, oh!
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[…] quel sonno mirabile, di cui dormono solo i fortunati che non sanno che siano né emorroidi, né pulci, né troppo elevate capacità intellettuali.
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Ma non questa è la sorte, e ben altro è il destino dello scrittore, che osa evocare alla luce tutto quello che abbiam sempre sott’occhi, e che gli occhi indifferenti non percepiscono: tutto il tremendo, irritante sedimento delle piccole cose che impastoiano la nostra vita, tutta la profondità dei gelidi, frammentari, banali caratteri di cui ribolle, amaro a tratti e tedioso, il nostro viaggio terreno; e colla salda forza dell’implacabile cesello osa prospettarli ben in rilievo e in limpida luce agli occhi del mondo! […] giacché non riconosce, il giudizio contemporaneo, che sono allo stesso titolo mirabili le lenti che contemplano i soli, e quelli che rendono i movimenti degl’invisibili microrganismi; non riconosce, il giudizio contemporaneo, che grande profondità di spirito occorre a illuminare una scena tolta dalla vita vile, ed elevarla a perla della creazione; non riconosce, il giudizio contemporaneo, che l’alto, ispirato riso è degno di stare a paro coll’alto impeto lirico, e che un abisso lo divide dalle smorfie del pagliaccio da fiera! Non riconosce questo, il giudizio contemporaneo, e tutto inscrive a carico e a rampogna del misconosciuto scrittore: senza consensi, senza echi, senza simpatie, egli, come il viaggiatore senza famiglia, si ritrova solo lungo la strada. Aspro è il corso della sua vita, e amaramente egli sente la sua solitudine.
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E si palesò chiaramente che genere di creatura sia l’uomo: saggio, intelligente e assennato in tutto quello che tocca gli altri, ma non se stesso. Che lungimiranti, ben fondati consigli sa porgere nei casi difficili della vita! – Che testa perspicace! – grida la folla: – che carattere incrollabile! – Ma lascia che su questa testa perspicace s’abbatta qualche sciagura, e che venga a trovarsi lui in persona nei casi difficili della vita, e vedrete dove va a finire tanto carattere! s’è già bell’e smarrito, l’uomo incrollabile, e n’è scappato fuori un miserevole pusillo, un inconsistente, debole fanciullo, o semplicemente un minchione, come diceva Nozdrëv.
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Cosí diranno molti lettori, e rimprovereranno l’autore d’inverosimiglianza, o daranno dell’imbecille ai poveri funzionari, giacché l’uomo è generoso di questa parola imbecille, e pronto a somministrarla venti volte al giorno al suo prossimo. È sufficiente, di dieci lati, averne uno un po’ sciocco, per esser spacciato imbecille a onta dei nove buoni. Ai lettori riesce facile trinciar giudizi guardando dal loro angolo tranquillo, da una sommità da cui è tutta aperta la visuale su tutto quanto avviene in basso, dove l’uomo scorge soltanto gli oggetti vicini. Anche negli annali universali dell’umanità vi sono addirittura molti secoli, che, si direbbe, andrebbero cancellati e annullati, come superflui. Molti errori si sono compiuti a questo mondo, tali che, si direbbe, ora non li farebbe neppure un bambino. Che strade tortuose, cieche, anguste, impraticabili, lontane dal giusto orientamento, ha scelto l’umanità nel suo conato di pervenire alla verità eterna, mentre pure aveva innanzi tutta aperta la retta via, simile a quella che conduce alle splendide stanze, destinate all’imperatore in una reggia! Piú larga di tutte l’altre vie, piú fastosa era questa, rischiarata dal sole e illuminata tutta notte dai fuochi: ma fuori di essa, nella fitta oscurità, ha proceduto il flusso degli uomini. E quante volte, già guidati da un pensiero che scendeva dai cieli, essi hanno ancora saputo deviare e smarrirsi, hanno saputo nel pieno fulgore del giorno cacciarsi un’altra volta nei fondi impraticabili, hanno saputo un’altra volta spandersi l’un l’altro negli occhi una cieca nebbia, e vagando dietro ai fuochi fatui, hanno pur saputo spingersi fin sull’orlo dell’abisso, per poi, inorridendo, domandarsi l’un l’altro: – Dov’è l’uscita? dov’è la via? – Ora tutto appare chiaro alla generazione che passa, e si meraviglia degli errori, ride della semplicità dei suoi antenati, e non vede che un fuoco celeste irradia tutti questi annali, che grida da essi ogni lettera, e che di là, penetrante, un dito s’appunta proprio su essa, su essa, la generazione che passa. Ma ride la generazione che passa, e sicura di sé, orgogliosa, dà inizio a una nuova serie di errori, sui quali a loro volta rideranno i posteri.
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Cos’è tutto ciò che ho scritto fin oggi? Mi sembra di scartabellare un vecchio quaderno di scuola dove in una pagina noti negligenza, in un’altra impazienza e abborracciature; la mano timida e incerta del principiante, e il modo di fare ardito dell’insolente… È ormai tempo di accingersi a lavorare sul serio. Oh, quale meraviglioso significato hanno avuto tutte le circostanze e le vicissitudini della mia vita! Quale via di salvazione sono state per me le amarezze e le avversità… La mia lontananza attuale dalla patria è voluta dall’alto, da quella stessa sublime provvidenza che tutto mi concede per la mia educazione. Questa è una grande svolta [perelom], una grande epoca della mia vita.
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Noialtri, vedete, ci siamo civilizzati, abbiam frequentato l’università: eppure, a che siamo buoni? Dite, che cosa ho imparato io? A vivere regolatamente non solo non ho imparato, ma peggio ancora, ho imparato l’arte di buttar via il piú denaro possibile in ogni sorta di nuove raffinatezze e comforts, e ho fatto l’abitudine a oggetti d’un certo genere, che per averli ci vuol del denaro. Forse perché io non ho studiato con profitto? No, giacché lo stesso è accaduto anche agli altri compagni. Due, tre fra tutti ne han ricavato un’utilità reale, ma anche questo, forse, perché erano di per sé intelligenti: tutti gli altri, vedete, non fanno che affaticarsi a imparare ciò che rovina la salute e scrocca il denaro. Verità di Dio! E sapete che mi viene in mente? Certe volte, credete, mi fa l’impressione che l’uomo russo sia in certo modo un uomo perduto. Vorremmo far tutto, e non riusciamo a far nulla. Sempre ti dici che da domani comincerai una nuova vita, da domani ti metterai a regime; e nulla ne vien fuori: quella sera stessa farai una scorpacciata tale, che sarai buono soltanto a sbattere gli occhi, e non potrai neppure rigirar la lingua: starai lí come un allocco, guardandoti intorno: questo è garantito! E tutti cosí.
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Da tempo avevo il sospetto che i cani fossero più intelligenti degli uomini; ed ero perfino convinto che potessero parlare, ma che, soltanto, ci fosse in loro una specie di cocciutaggine. Sono dei grandi politiconi: osservano ogni cosa, non perdono una sola mossa di una persona.
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L’uomo è creatura siffattamente mirabile che non puoi mai enumerarne tutte le virtù d’un sol fiato e, più lo scruti, più cose singolari discopri – e il descriverle non avrebbe mai fine.
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Che forza strana e ammaliante, e trascinante, e piena d’incantesimo in questa parola: viaggio! E com’è pieno esso stesso d’incantesimo, il viaggio!
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Vale la pena soltanto di fissare lo sguardo più attentamente nel presente, il futuro sopraggiungerà all’improvviso da solo. È sciocco chi pensa al futuro prima che al presente.
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L’avarizia com’è noto ha una fame da lupo e quanto più s’ingrassa tanto più si fa insaziabile.
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