Di recente, riordinando una libreria nella casa di mia madre a Firenze, la casa di famiglia dove sono cresciuta, mi è tornato per le mani una copia di Metello di Vasco Pratolini. È la prima edizione Vallecchi del 1955 (il libro fu ultimato nel 1952 ma uscì nel 1955), probabilmente arriva dalla biblioteca di mio nonno Ardengo. Ho mollato lo straccetto per la polvere, la pila di libri da scegliere e sistemare sugli scaffali e ho iniziato a leggere. Ricordavo poco della storia, probabilmente l’avevo letto all’età del liceo, quindi qualche decennio fa. Mi ha preso fin dalla prima pagina e addio libreria: ho passato il resto del pomeriggio e del dopocena per finirlo.
Ma qui non voglio certo fare una recensione di un romanzo che credo sia tra i più ristampati e popolari di Pratolini, per quanto possa essere popolare oggi – almeno fuori dalla Toscana – un autore che la Bur Rizzoli Contemporanea continua a pubblicare – almeno i titoli più conosciuti, ovvero Le ragazze di Sanfrediano, Il quartiere, Cronaca familiare, Cronache di poveri amanti e Metello, ovviamente – ma di cui vende un migliaio di copie l’anno. Un autore che necessiterebbe di non cadere nell’oblio, come ha recentemente scritto Alberto Rollo sulle pagine culturali di «La Repubblica» in un bell’articolo che rievoca lo scrittore toscano e ne caldeggiava la riscoperta.
Voglio invece parlare di Metello come figura simbolica, perché torno a pensarci ogni volta che leggo sulle cronache i resoconti dei primi tentativi di sciopero dei riders di Deliveroo, degli autisti di Amazon, dei fattorini delle consegne a domicilio, guidati dalle nuove applicazioni e da algoritmi che li costringono a condizioni di lavoro disumane e a orari impossibili.
Mi torna in mente Metello quando leggo che Amazon in America si è scusata per aver mentito sul fatto che i fattorini talvolta devono urinare nelle bottiglie per mancanza di tempo.
Cosa c’entra? Riassumo velocemente. La storia di Metello è presto detta: Metello Salani è un orfano di madre morta di parto e padre renaiolo morto in un incidente sul lavoro, affogato in Arno mentre scava la ghiaia dal greto del fiume. Preso a balia e cresciuto da una famiglia contadina, quando questi emigrano in Belgio per non morire di fame, il ragazzo torna a Firenze e diventa muratore, sotto l’ala di Betto, un anarchico che era stato amico del padre. Grazie a questo padre putativo Metello scopre la lotta di classe, la coscienza degli operai che si organizzano per rivendicare diritti e qualche centesimo di paga in più. Sono gli anni dei primi scioperi, che culmineranno nel grande sciopero generale del 1902 sotto il governo Giolitti. La parte finale di Metello è ambientato proprio durante il 1902. Il ragazzo ormai giovane uomo, sposato con Ersilia, figlia di militante conosciuta durante una retata di arresti, diventerà socialista, delegato della Camera del Lavoro e guiderà la rivolta degli edili in uno degli scioperi che si susseguirono in quell’anno (ferrovieri, sigaraie, metalmeccanici…), durante il quale le forze di polizia appoggiano i padroncini e i caporali e arrestano gli scioperanti. Lo stesso Metello finisce in cella nel carcere delle Murate. Storie personali e amori, tradimenti e riconciliazioni (con la moglie Ersilia e il fratellastro Olindo che passa dalla parte dei crumiri e volta le spalle agli scioperanti che picchettano il cantiere) sono la trama del romanzo, ma sullo sfondo i temi forti sono quelli della scoperta del conflitto di classe, della solidarietà operaia, della prova generale di un nuovo strumento di lotta come lo sciopero.
Per quanto riguarda Metello tutto è bene quel che finisce bene. Quando uscirà di prigione tornerà a lavorare e prometterà alla moglie, intanto incinta di un altro figlio (il primo si chiama Libero, era il tempo in cui li chiamavano anche Idea Socialista o Anarchia) che non si occuperà più di politica. E il lettore intuisce che la promessa non sarà mantenuta, perché il Novecento è stato il secondo degli ideali e l’individuo retrocedeva di fronte a loro.
Per quanto riguarda i moderni operai, i lavoratori a cottimo di Amazon e delle altre compagnie della Gig Economy il discorso è più complicato, perché quelle parole e quei concetti – non parliamo di ideali, che sono finiti con le ideologie – non li rappresenta più nessuno. E questo è un tema importante. Perché le parole, come sanno bene i lettori, tutti i lettori e non solo quelli di libri, hanno un significato che va ben oltre la loro identità semantica. Se una parola non la usiamo più, si perde il significato e quindi anche il concetto che le sta dietro.
Quando parto con questi ragionamenti penso che ci vorrebbe qualcuno che raccogliesse quelle parole e desse loro una nuova vita. Magari in un nuovo Metello 2.0, ecco. E chissà che qualcuno non lo stia già scrivendo, sarebbe una bella cosa.
Caterina Soffici
È nata nel 1965 a Firenze. Vive tra Londra e un paese sulle Alpi della Val d’Aosta. Ha un marito, due figli e un cane. È editorialista de «La Stampa», collabora con «Tuttolibri» e altri giornali. Crede nel potere delle parole di cambiare il mondo e per questo tiene corsi di scrittura al Ministry of Stories, il laboratorio di East London per bambini e ragazzi di ambienti svantaggiati, dove si lavora sulla creatività, il racconto e la memoria. Per Feltrinelli ha pubblicato Ma le donne no (2010), Italia yes Italia no (2014) e il romanzo Nessuno può fermarmi (2017). L’ultimo romanzo Quello che possiedi (Feltrinelli, 2021) è ambientato a Firenze.
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