Passione per la verità (Edith Stein, EMP, 2014)
1. Storia di una famiglia ebrea
Crocerossina in Austria
Infuria la prima guerra mondiale e molti giovani tedeschi rischiano la vita o muoiono sui vari fronti del conflitto. Edith, che sta preparando la tesi di laurea, decide di sospendere le ricerche e si offre come volontaria nelle file delle crocerossine. La sua domanda è accolta e viene inviata in Austria, nell’ospedale militare di Mährisch-Weisskirchen per le malattie infettive, dove trascorre nove mesi. È un’esperienza forte, che Edith racconterà poi in Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici: l’infanzia e gli anni giovanili, un libro sulla sua infanzia e giovinezza, scritto con l’intento dichiarato di far conoscere «l’umanità ebraica, dal momento che quanti non vi appartengono conoscono così poco di essa». Lo scrive in gran parte nel 1933, dopo che i nazional-socialisti di Adolf Hitler hanno preso il potere (gennaio 1933), cioè in un momento in cui a causa delle prime leggi razziali gli «ebrei tedeschi sono stati strappati alla tranquilla ovvietà dell’esistenza e costretti a riflettere su se stessi, sulla loro natura e sul loro destino». Edith, sospesa dall’insegnamento, torna a Breslavia e si dedica alla stesura del libro, che rimane però incompleto, perché nel maggio del 1935, poco dopo aver professato i primi voti, Edith interrompe il lavoro per portare a termine lo studio
filosofico Essere finito ed Essere eterno, e non lo riprenderà più.
Ecco alcuni brani che descrivono l’esperienza umana e spirituale di Edith nell’ospedale militare austriaco.
Ma la cosa che preferivo era il contatto con i pazienti, anche se presentava qualche difficoltà. Nel nostro ospedale erano rappresentate tutte le nazioni della monarchia austro-ungarica: tedeschi, cechi, slovacchi, sloveni, polacchi, ruteni, ungheresi, rumeni, italiani. Anche gli zingari non erano rari. A questi si aggiungeva talvolta un russo o un turco. Per la comunicazione tra il medico e i pazienti c’era un libriccino contenente le domande e le risposte che ricorrevano quotidianamente, in nove lingue, che divenne familiare anche per me. Un giorno, mentre stavo andando alla piccola cucina, udii ad una certa distanza il dottor Pick che, accanto al letto di un ammalato, diceva a sorella Emma: «Stia attenta, lei lo sa di certo!». Poi parlando da una parte all’altra della stanza mi chiese: «Sorella Edith, come si dice “sudare” in ungherese?». Io gli dissi di rimando il vocabolo che non sapeva, senza fermarmi. Ci si aiutava con queste quattro parole e con il linguaggio dei segni.
Ci sarebbero state maggiori difficoltà se la gente avesse avuto bisogno di fare conversazione. Tuttavia la maggior parte di essi erano in una condizione che escludeva tutto ciò. Il loro completo abbandono e il bisogno di assistenza mi rendeva particolarmente caro il mio lavoro. Molto presto imparammo a conoscere la differenza di nazionalità. Non avevamo neppure un tedesco del Reich nel nostro reparto. In seguito invece ne ho avuto qualcuno come paziente. Noi infermiere tedesche esultavamo quando trovavamo un compatriota in un trasporto. Ma dopo averli avuti un paio di giorni nella nostra stanza di degenza, ci facevamo piccole piccole. I nostri compatrioti erano critici e pieni di pretese, e riuscivano a mettere in agitazione tutta la corsia se qualcosa non gli andava a genio. Le «popolazioni selvagge» erano docili e grate. Mi facevano tanta pena i poveri slovacchi e ruteni, che erano stati strappati dai loro pacifici paesi e spediti al fronte.
Che cosa potevano saperne loro delle sorti del Reich tedesco e della monarchia asburgica? Ora giacevano là e soffrivano senza sapere perché.
Gli ungheresi, tanto elogiati per il loro valore sul campo e cortesi e cavallereschi nei nostri confronti, erano i pazienti che si lamentavano di più. Se un nuovo arrivato si lagnava a voce alta al primo cambiamento delle bende in sala operatoria, gli si diceva: Nein sabot, Magyar! (Non è permesso, magiaro!) e il lamento cessava per qualche istante. Non ci si era sbagliati sulla sua nazionalità. I cechi, tanto odiati per aver «tradito» la causa tedesca, imparammo a conoscerli come i più pazienti e anche i più disponibili.
Una volta dovevo trasferire un paziente di grossa corporatura e privo di conoscenza in un altro letto per poter rifare il suo. Di solito portavo da sola sul letto accanto gli ammalati quando erano coscienti e non troppo pesanti; non era difficile se li si afferrava bene. Ma in questo caso era impossibile. Dal momento che non c’erano infermiere nei pressi, pregai un giovane tedesco-boemo di aiutarmi. Stava già bene e passeggiava oziosamente per la corsia. Era sempre gentile come un bambino e molto devoto a me. «Sorella», rispose imbarazzato, «lo farei volentieri per amor suo. Ma non posso, mi disgusta troppo». Allora un ceco si avvicinò spontaneamente. Non riusciva ancora a tenersi saldamente in piedi come l’altro. «Anche per me non è facile», disse, «ma bisogna pur aiutare un uomo malato».
Uno slovacco, che a casa sua era un contadino benestante, aveva un grosso ascesso a una gamba, ma, nonostante i forti dolori, rifiutava di farsi operare per paura del taglio. Il dottore si irritò a tal punto per questo che non andò più a vedere la sua gamba. Un giorno, durante l’ora del pranzo, andai da lui e insistetti tanto per convincerlo – con le quattro parole che sapevo di ceco e con il linguaggio dei segni – finché si dichiarò pronto all’incisione. Prima della visita preparai tutto il necessario accanto al letto. Le infermiere facevano spallucce; erano convinte che il dottor Pick avrebbe rifiutato. Quando egli arrivò e come al solito chiese se vi fosse qualche novità particolare, io risposi tranquillamente che c’era da fare un’incisione. Lui procedette all’operazione senza spendere una sola parola e il buon Wessely fu liberato dai suoi patimenti. (Wessely e Sumtery – Felice e Triste – erano nomi che ricorrevano spesso).
Talvolta in corsia veniva anche un cappellano militare in uniforme e faceva il giro dei letti. Devo dire che ispirava poca fiducia; non notai neppure che si fermasse più a lungo presso qualche ammalato. Non lo vidi mai portare a un malato la comunione o dispensare l’olio santo. Purtroppo io ero talmente ignorante per ciò che riguardava queste cose che non mi venne neppure in mente di chiedere qualcosa in proposito o preoccuparmene […].
Con tutte le infermiere avevo rapporti cortesi e camerateschi, pur tenendomi ad una certa distanza da loro. A ciò mi avevano portato le esperienze fatte durante quella «serata di festa» e altre cose che osservai in seguito. Sicché intimamente ero veramente sola. Il sapere che c’era anche Grete Bauer era una consolazione: lei proveniva dal mio stesso ambiente ed era arrivata qui con la stessa disposizione d’animo. Credo che fosse la prima domenica mattina che andai con lei e sorella Alwine a fare una piccola passeggiata verso «Sant’Antonio», come propose Alwine. Il Santo aveva il suo posto sul pendio di una collina, un poco sotto la cima. Ci sedemmo ai suoi piedi e di lì godemmo di un’ampia panoramica sull’ameno paesaggio. Attraverso Weisskirchen serpeggiava la Beezwa, un grazioso fiumicello montano. Sulle due sponde si ergevano catene collinose, le propaggini dei Beschidi. Sopra una dorsale piuttosto estesa si vedeva in lontananza un’antica rovina, il castello di Helfenstein. Era una regione estremamente fertile quella in cui ci trovavamo: la «Hanna morava», un vero e proprio giardino. Sempre ad una certa distanza si estendevano i rigogliosi campi di grano, e nelle profonde gole si trovavano delle valli prative con una ricchezza di fiori che non ho visto quasi in nessun altro luogo. A volte andavamo là il mattino presto, prima di cominciare il servizio, a prendere i fiori per abbellire le nostre corsie. Le infermiere facevano a gara nel tenere i reparti il più possibile accoglienti e graziosi.
Grete Bauer e Alwine dividevano la camera, situata nel liceo scientifico, con altre due infermiere. Questo quartetto si teneva saldamente unito e lontano dalle faccende delle altre infermiere. Era fedele alla superiora, che lo chiamava la sua «piccola comunità». La sera, dopo il servizio, a volte mi invitavano da loro. Sorella Klara era un’abile infermiera di mezza età, alta, spigolosa e brutta, con una voce profonda e modi virili, ma di buon cuore e dotata di un umorismo ristoratore. La sua aiutante, Lotte Neumeister, una ragazza alta e bionda, figlia di un medico di Breslavia, era attaccata a lei da un amore geloso. Talvolta a queste serate partecipava anche sorella Margareta, ma spesso i suoi doveri di superiora non le concedevano neppure le piccole pause di ricreazione. Al gusto di sorella Klara corrispondeva l’osservanza di abitudini goliardiche. Aveva addirittura i berretti con i colori e le mazze. Il «materiale» era costituito da caffè forte che veniva preparato in camera. Inoltre c’erano sigarette e dolci. Questi ultimi li prendevamo in una piccola pasticceria al mercato durante la pausa per il pranzo. C’erano cose prelibate, perché gli austriaci sono dei ghiottoni. Nella pasticceria incontravamo abitualmente un paio di ufficiali nelle loro eleganti uniformi. Bevevano due bicchierini di liquore in piedi, mangiando la torta: una scena sorprendente per chi portava in sé le idee tedesche sull’«eroismo». Anch’io mi abituai presto al caffè forte e alle sigarette. I nervi avevano bisogno di stimolanti quando si usciva dalle corsie.
Dopo due settimane al reparto di tifo, mi affidarono il servizio di notte. Nella nostra corsia lo svolgevamo a turno. Allora si andava al reparto per 14 giorni solo di notte – dalle 7 di sera alle 7 del mattino – e ci si riposava durante il giorno. Alle 9 del mattino c’era il pranzo per chi svolgeva il servizio di notte, poi si dormiva fin circa le 6 di sera per cenare alle 6 e mezzo e poi andare al reparto. Per la notte si veniva muniti di un bricchetto di caffè, due spesse fette di pane imburrato e un uovo; c’era anche una stanza da letto, dove mi trasferii. Se si avevano buone amiche che provvedevano a portarti il pranzo, si poteva mangiare all’ora consueta e farsi portare il cibo a letto. In tal modo non si era costretti a trovarsi sul posto alle 9, ma si poteva restare un po’ di più all’aria aperta. Perché ancora più che al sonno si anelava alla luce, all’aria e al sole.
La prima sera, mentre mi stavo recando alla scuola di equitazione con il mio bricchetto di caffè, incontrai il dottor Pick con un collega. Mi augurò buona fortuna per la notte e disse all’altro: «È qui da due settimane e già si assume la responsabilità di 60 ammalati di tifo». Ma mi aspettava ancora di più. La capoinfermiera mi fece chiamare per chiedermi se potevo fare delle iniezioni. Io avevo imparato come si faceva, pur non avendole fatte spesso. Mi pregò di badare un poco anche alla seconda corsia; la polacca che aveva lì il turno di notte (il piccolo caporale) non si intendeva di iniezioni. Dovevo dare un’occhiata anche alla terza corsia perché là c’era solo un’aiutante. Infine, mi affidò anche la piccola stanza di isolamento, dove era stato trasferito un paziente dalla nostra corsia a cui avevano diagnosticato una difterite. Era uno zingaro, che ci aveva già dato molte preoccupazioni, perché rifiutava qualsiasi cibo. Era spaventosamente dimagrito, e il suo viso scuro era diventato pallidissimo. La difterite gli diede il colpo di grazia. Ma non morì durante il mio turno di notte. Invece, la piccola polacca venne, piena di paura, a prendermi durante la prima notte per portarmi al letto di un moribondo. Il poveretto, in agonia, non riusciva a farsi capire da lei: era tedesco e lei non capiva quella lingua. La mandai subito dal dottore che faceva il turno di notte da noi e nel frattempo praticai un’iniezione. Il dottore venne immediatamente, ma non c’era più nulla da fare. Poté solo attendere e poi accertare la morte.
Era la prima volta che vedevo morire qualcuno. Il secondo caso di decesso lo vidi nella nostra corsia: quando, dopo qualche giorno di servizio notturno, arrivai di sera al reparto, le infermiere mi accolsero con la notizia che era stato trasportato un moribondo nella nostra corsia; esse avrebbero voluto risparmiarmelo per quella notte. Ricevetti l’istruzione di fargli una iniezione di canfora ogni ora. In questo modo prolungai per diverse notti la scintilla di vita fino al mattino dopo. Era un uomo grande e forte; giaceva sempre immoto e privo di conoscenza. Quando era arrivato era già così. Nessuno di noi lo vide mai aprire gli occhi o lo udì pronunciare una parola. Anche l’ultima notte gli feci diverse iniezioni. Tra una iniezione e l’altra stavo ad ascoltare il suo respiro dal mio posto – improvvisamente cessò. Andai presso il suo letto; il cuore non batteva più. Ora dovevo fare ciò che ci era stato prescritto in casi del genere: raccogliere i pochi oggetti che aveva ancora con lui per consegnarli all’Amministrazione militare (la maggior parte delle cose venivano ritirate ai pazienti al loro arrivo e serbate fino a che non venivano dimessi); chiamare il dottore e farmi rilasciare il certificato di morte; andare dal guardaporte con il certificato e far venire gli uomini con una barella a portar via il morto; infine togliere tutta la biancheria del letto. Mentre stavo ordinando le sue poche cose, un foglietto cadde fuori dal suo taccuino: sopra c’era una preghiera per la conservazione della sua vita che la moglie gli aveva dato. Ciò mi colpì profondamente. Solo in quel momento capii che cosa avrebbe significato quella morte dal punto di vista umano. Ma non potevo fermarmi. Raccolsi le mie forze per andare a chiamare il dottore. Dovetti andare nella sua stanza a svegliarlo. Un paravento nascondeva il letto; là dietro si vestì e poi uscì. Era il dottor Andersmann, un giovane polacco del reparto di chirurgia. Mi guardò e disse, compassionevole: «Sorella Edith, si sieda un attimo, ha un aspetto smorto e sfinito». Poi compilò il certificato di morte seguendo le mie indicazioni e venne con me per accertare la morte. Poi rimasi di nuovo sola e mi occupai delle altre cose che c’erano da fare. Un’impressione inquietante mi fecero i portatori che venivano a prendere il defunto, così, di notte. Speravo solo che nessuno degli ammalati ci facesse caso; su di loro avrebbe fatto un’impressione spaventosa. Il mattino dopo fui in grado di accertarmi che effettivamente nessuno aveva visto nulla. Gli stessi vicini di letto si stupirono per il posto vuoto […].
Quando arrivavo la sera in corsia, facevo prima un giro per i letti. Nella cucinetta trovavo abitualmente gli ungheresi che stavano bene. Mi salutavano gioiosamente e ridevano quando dicevo: «È qui che si è riunito il club ungherese?». La cosa che li attirava maggiormente in quel luogo era la grande pentola con il vino rosso. Il «club tedesco» si riuniva presso il letto del giovane tedesco-boemo, che non poteva ancora alzarsi. Si raccontavano storie del fronte, imprecando contro la situazione politica. «Dopo la guerra mi immatricolerò in Germania», diceva il giovane. La sua casa non era lontana dal confine con la Baviera.
Passavo tra le file di letti e mi accertavo delle condizioni dei malati gravi. Quando veniva l’ora di dormire per i pazienti e non c’era niente di particolare da fare, mi mettevo seduta alla piccola scrivania a scrivere lettere o a leggere. Avevo portato a Weisskirchen solo due libri: le Idee di Husserl e Omero.
Proprio dietro a me, nella prima fila di letti, c’era un ceco, un uomo di mezza età, piccolo e delicato. Aveva i piedi talmente congelati che alcune dita sembravano carbonizzate e bisognò amputarle. Non dormiva quasi mai e per tutta la notte teneva la pipa in bocca. Io lo lasciavo tranquillamente fare, malgrado fosse proibito fumare. Non potevo togliergli anche quella consolazione.
Anche Mario giaceva per lo più insonne, con i suoi grandi occhi brillanti. Una volta mi fece un cenno e con altri segni mi fece capire che avrebbe voluto dettarmi una lettera. Probabilmente aveva osservato che a volte scrivevo. Presi carta e penna e mi inginocchiai presso il suo letto. Poi egli formò le parole con le labbra – non poteva neppure sussurrare – mentre io gli guardavo la bocca con ansiosa attenzione, scrivevo e gli mostravo ogni frase che avevo finito perché lui la rivedesse. In tal modo riuscimmo a scrivere una lettera in un buon italiano per le sue sorelle. Era certamente la prima notizia che ricevevano a casa da che era malato. Non molto tempo dopo il dottor Pick gli riferì durante la visita che le sorelle gli avevano scritto. Le molte pene che ci eravamo date per Mario vennero ampiamente ricompensate. Dopo diverse settimane, l’ostinata malattia arretrò, egli riacquistò la voce – una voce davvero energica – e fu in grado di mangiare con appetito, e finalmente anche di alzarsi. A quel punto fu trasferito in una baracca insieme con il suo amico, anche lui giovane commerciante di Trieste. Nel suo caso la malattia si era manifestata fin dal principio in una forma leggera. Era un infermiere, una persona molto gentile e di buon cuore; si era reso volentieri utile, avvolgendo le fasce di garza a regola d’arte e rendendoci altri piccoli servizi. I due giovani venivano spesso a trovarci dalla loro baracca; si rinforzavano a vista d’occhio e il romantico Mario si rivelò infine un autentico birbone.
Per alcune notti, fui molto occupata con un paziente che delirava gravemente. Quando era stato trasferito al reparto era già privo di coscienza, sembrava tranquillo, ma era afflitto da visioni angosciose. Quando mi avvicinai a lui, mi afferrò il camice, gridando: «Sorella, mi aiuti, mi aiuti!». Una notte voleva continuamente scappare via. Non mi restò altro che legarlo saldamente. Stesi un lenzuolo da una parte all’altra del letto e ne legai le estremità alle colonnine. Il paziente, inquieto, mi sbirciava ancora con la testa di fuori, ma per il resto era prigioniero. Ad ogni modo, dopo averci lavorato per un po’ di tempo – era un uomo forte – i nodi si allentavano e io dovevo ricominciare daccapo il lavoro. In quella occasione mi stupì un dottore, che aveva il turno di notte ed era venuto a controllare che cosa c’era che non andava nel reparto. Questo dottore era un tranquillo medico di campagna che certamente non aveva mai visto un caso di tifo. Si indignò per il fatto che io fossi sola in corsia ad assistere quell’ammalato così difficile da frenare. Quando poi vide che pulivo il letto, gridò spaventato: «Sorella, prenderà il contagio!». Sorridendo, gli indicai la nostra bacinella con il sublimato. Per dare tranquillità a me e all’ammalato, gli praticò infine una iniezione di morfina. L’effetto, però, non fu proprio quello desiderato. Il paziente ora giacque quieto, ma cominciò a cantare a voce alta, svegliando anche gli altri, i quali, il mattino dopo, dissero che era stato così piacevole che l’infermiera si fosse seduta accanto al loro letto e avesse cantato la ninna-nanna.
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