Gibran Khalil Gibran
L’ardore di cogliere la verità profonda in un personaggio e, al tempo stesso, di specchiarvi se stesso e l’umana universale vicenda anima la produzione poetica dell’autore libanese, al cui centro regna un Gesù trasfigurato.
«Un uomo venuto dal Libano diciannove secoli dopo» è l’ultimo in una sequenza di personaggi che narrano, gridano, tacciono, intessono congetture e sogni sulla figura, l’opera e la fama di Gesù di Nazaret, ciascuno secondo la propria esperienza o prospettiva. È il tema di Gesù Figlio dell’uomo, l’opera che Kahlil Gibran pubblicò, in inglese, nell’autunno del 1928, cinque anni dopo Il profeta e sull’onda di quel successo. Se il resto degli ottanta monologhi è posto sulle labbra di personaggi coevi, documentati o immaginari (Pietro, la Maddalena, una vicina di Maria, Tommaso, la sposa di Cana, Barabba, la mamma di Giuda), nell’epilogo parla lui stesso, il poeta pittore nato all’ombra dei cedri nel 1883 ed emigrato bambino in America, che, come certi artisti in ritratti corali, svela tra i personaggi il proprio volto.
«Sette volte sono nato e sette volte sono morto / e ora nuovamente vivo, e ti guardo, / guerriero tra i guerrieri, / poeta dei poeti, / re al di sopra dei re, / nudo fino alla cintola a fianco dei compagni di viaggio. / … / Vengono crocifissi, e nessuno assiste alla loro agonia. / Volgono il viso verso sinistra e verso destra, / e non trovano nessuno che prometta l’ingresso in un regno. / Ma un’altra volta e un’altra ancora si farebbero crocifiggere / perché il tuo Dio fosse il loro Dio, / e Padre loro il Padre tuo».
Posto a confronto con il canone, questo Gesù risulta eterodosso, se non altro per l’insistita volontà, da parte dell’autore, di sfatare i fraintendimenti o addirittura i tradimenti che sarebbero stati perpetrati a danno della Sfogandosi con l’amico e più tardi biografo Mikhail Naimy, Gibran contestava che la tradizione ne avesse fatto «una dolce signora con la barba». Se dal canto suo lo definisce «poeta dei poeti», non è per allinearsi a chi ne sottolinea la mitezza, ma il contrario: il massimo dell’energia coincide per Gibran con il massimo della poesia, in quanto aderenza al dettato primario della natura e di Dio. Il Gesù che emerge dai monologhi va visto infatti, e in primo luogo, come soggetto poetico, e la stessa chiave può aprire, al di là delle tante letture che ne sono state fatte, un efficace spiraglio interpretativo sia dell’opera sia della vita di Kahlil, nel loro intimo intreccio.
Se il Gesù di Gibran è fantastico ancorché suggestivo, come viene giustamente notato dalla critica cattolica (tra i nomi più illustri Castelli e Ravasi), il Gibran di Gesù Figlio dell’uomo è invece scopertamente vero, forse al di là delle intenzioni. Quanto più si appassiona nel cercare di restituire al personaggio la dimensione etica e insieme estetica che crede essergli stata sottratta, tanto più si lascia prendere la mano da questa tentazione di bellezza, con una densità di paradossi, ossimori, endiadi e parallelismus membrorum che in altre opere (e nel canone scritturale!) sono piuttosto simmetrie alluse, sapientemente sospese.
Si stava allontanando, in quegli anni, la cometa della sua vita: l’amica, agente, mentore, mecenate Mary Haskell, che dal 1904 lo aveva seguito, portandolo a quel sereno approdo, anche formale, che è Il profeta. Nel 1929, a una festa per il suo quarantaseiesimo compleanno organizzata presso l’amico artista messicano José Clemente Orozco, Gibran dichiarò di rimpiangere l’irruenza creativa degli esordi. In realtà siamo nella fase ultramatura della sua produzione, che suddivisa tra due idiomi, l’arabo madrelingua e l’angloamericano di adozione, era iniziata nel primo con un saggio poetico sulla musica (1905) e nel secondo con una raccolta di parabole dal significativo titolo, Il folle (1918), raggiungendo nel Profeta (1923) sia l’equilibrio tra le due culture, sia quello tra il dire e l’evocare.
Sempre nel 1929, Gibran sottopose a Naimy il progetto di un libro composto di quattro storie: su Michelangelo, Shakespeare, Spinoza e Beethoven. «Che ne diresti se ciascuna delle storie fosse l’inevitabile esito del dolore, dell’ambizione, del senso di distacco e, infine, della speranza che sempre agita il cuore umano?». L’ardore di cogliere la verità profonda di un personaggio noto, e al tempo stesso di specchiarvi se stesso e l’umana universale vicenda, anima Gibran sin dalla fase giovanile, ma solo in Gesù Figlio dell’uomo assume forma di un’opera compiuta. Più volte, ai suoi confidenti, Kahlil racconta di avere incontrato il Nazareno in sogno, sempre in situazioni di grande prossimità (Gesù gli si avvicina con i sandali impolverati, condivide con gusto il crescione selvatico, discorre con lui di argomenti qualsiasi); addirittura Kahlil ci si è immedesimato quando, bambino, ha subito una brutta frattura della scapola ed è rimasto ancorato per quaranta giorni a una specie di barra orizzontale, alla quale si è sentito crocifisso. Se anche non lo dichiarasse esplicitamente, il suo modo di esprimersi, sia nelle opere sia nell’eloquio, ricalca l’andamento delle Scritture, peraltro inseparabile dai moduli espressivi della letteratura semitica. Il “ma” che ricorre, oltre che nel lessico, nella tendenza di Gibran all’antitesi, riecheggia l’espressione secondo lui più significativa di Gesù ai discepoli: «Ma io vi dico». Così il Nazareno annunciava la propria novità rispetto ai luoghi comuni.
Dal canto suo Gibran, nato da famiglia maronita, educatoin contesto musulmano e, più tardi, eclettico, ha sempre rifiutato di apporsi una qualsiasi etichetta, ribellandosi quando altri ci hanno provato, non solo in ambito religioso, ma anche politico, culturale e, addirittura, metrico. Se nella formazione, tanto letteraria quanto artistica, ciò lo ha portato a scegliere la libertà di proposte flessibili (a Parigi l’Académie Julian, a Beirut certi corsi del Madrasat al-Hikmat), nell’età adulta, refrattario alla “cristallizzazione” di formule e man-made laws, vittima forse a sua volta di fraintendimenti e di filtri non suoi, ma consapevole di cosa significassero nella storia i fondamentalismi, non ha mai voluto “ismi” di alcun genere. Neanche il buddismo: lo dicono i biografi, lo ammettono autorevoli studiosi che, confrontando i suoi scritti con la dottrina del Nirvana, giungono alla stessa conclusione a cui giunge chi analizza il suo Gesù o le sue assonanze sufite, bahai, induiste o altro.
Nelle elaborazioni sulla trascendenza che Kahlil condivide con Mary Haskell si legge un credo in Dio penetrante e radicato, ma dottrinalmente innominato; e le sue allusioni letterarie alle molteplici “nascite”, come il famoso finale del Profeta, traducono anzitutto la fiducia nel potere vitale e unificante – e con ciò sacro – della parola poetica.
«Un ponte tra Oriente e Occidente»: così lo vede, non senza una sfumatura autobiografica, il critico libanese Suheil Bushrui; ma forse Gibran troverebbe limitante anche questa definizione. Barbara Young, che gli fu vicina negli ultimi anni, dedicandogli a sua volta una biografia, sceglie di intitolarla con le sue stesse parole, sigla di appartenenza e insieme di alterità: This Man from Lebanon. L’uomo venuto dal Libano diciannove secoli dopo non ha ancora concluso la sua appassionata ricerca sul Figlio dell’uomo e su se stesso. È forse questo, a 77 anni dalla morte (avvenuta a New York nel 1931), a garantirne la non comune vitalità, attraverso e nonostante le molte edizioni e ristampe. Una divulgazione talvolta a suo sfavore, che tra l’altro contribuisce a perpetuare su di lui e sui suoi aforismi, citati talvolta in modo distorto, curiosi equivoci e luoghi comuni. Errori anche banali, emblematici del suo detachment: la vicenda erratica dell’acca (sono corretti l’originario Gibran Khalil Gibran o l’anglicizzato Kahlil Gibran, ma non l’ibrido Gibran Kahlil Gibran), le inesattezze sulla sua età e l’errore sulla sua data di nascita, che è il sei gennaio e non il sei dicembre come alcuni continuano a scrivere. Per non parlare delle credenze, fedi e filosofie che gli vengono attribuite, proprio in forza della sua capacità polisemica.
Il dialogo con le anime
È il 17 giugno 1895. Un ragazzino di dodici anni fa la fila a Ellis Island. In una babele di rumori, pacchi, odori, ansie, Kahlil lancia richiami per non perdere la mamma Kamila, il fratello maggiore Boutros e le due sorelline Mariana e Sultana; comunica in qualche modo con i funzionari portuali; ma soprattutto dialoga con se stesso, con le ombre profonde della Valle Sacra, con i cespugli del monastero di Mar Sarkis, con i fiumi incassati nelle gole, con le cime coperte di neve e di cedri che, ancora presenti, erano già mito. Mentre lo sottopongono ai controlli sanitari, lui corre incontro alla pioggia impetuosa dei suoi monti, al Mediterraneo appena scorto in cima all’erta salita a dorso di mulo, alle stelle che «lassù proiettano ombre»… Quelle ombre ridisegna sulla bruma di “Al-Nayurk”, iniziando così a trasfigurarla in mist, simbolo ricorrente nei suoi scritti, intraducibile forse anche per l’assonanza con misticismo e mistero. Così comincia ad amare la terra nuova, alla quale riconoscerà sempre il merito di averlo sostenuto e fatto crescere.
È difficile trovare una vicenda esposta quanto la sua a interferenze sociali e culturali, ed è difficile enumerarle tutte; ma è nel monologo interiore, avviato in età precocissima, che si innestano le successive esperienze, e non viceversa. Nel dialogo con le anime, dolente ma rasserenante, trovano un solco familiare anche i lutti che ben presto lo colpiscono. Quando Kahlil racconta alla Haskell – incontrata subito dopo – la morte di Sultana, di Boutros e della mamma, il tono, più che di tragedia, è di trasfigurazione, sia degli eventi, sia delle figure, sia del contesto domestico. Non a caso il ritratto a memoria della madre morente – colei che, stando al racconto, lo introdusse a Leonardo e a san Tommaso d’Aquino – è intitolato Verso l’infinito. A vent’anni, nei primi timidi colloqui con la direttrice di scuola che lo invitava a esporre nel proprio istituto, traspare già il riconoscimento della poesia e dell’arte come crinale tra nostalgia e futuro. Fu Mary a sua volta, per Kahlil, lo spartiacque tra i salotti neoplatonici di Boston e la crescita in forme espressive anche tecnicamente più mature, quando lo mandò a Parigi a studiare belle arti come primo atto di amorosa pedadogia.
Nella capitale francese, com’era stato a Boston e come continuerà a essere dopo il trasferimento a New York, Kahlil continua a dar prova di un singolare approccio alle idee e alle persone: più che l’acquisizione di una conoscenza, spesso la sorpresa di un riconoscimento, un’intuizione, quasi un’agnizione, sia in positivo (Rodin, i romantici, Nietzsche, con cui tuttavia non si va oltre una parentela di simboli) sia in negativo (ad esempio Tagore, alla cui opera rimproverò la scarsa «coscienza mondiale»). Significativo anche il modo di relazionarsi alle presenze femminili: i rapporti più stabili saranno quello con la Haskell, che trascende il piano della fisicità, e con May Ziadah, con la quale corrispose diciannove anni nella madrelingua senza mai incontrarla di persona, e alla quale scrisse che la vera comunicazione avviene tra i nostri «doppi invisibili». Kahlil parla anche di anima, nella cui immortalità crede fermamente, come crede alla verità che si svela al di là della soglia terrena: ma nei suoi contesti sfumati questa e altre parole, che pure usa in traslato (resurrezione, incarnazione), perdono la consistenza teologica loro propria.
Sul piano letterario, la preminenza del dialogo interiore lo portò molto presto a elaborare una sequela originale, benché ovviamente non asettica, di personaggi e personificazioni riconducibili sia a moltiplicazioni di identità e di “maschere” (Folli, Eretici, Precursori, Scavatori di Fosse, Greater Self e Pigmy Selves) sia alla fiducia nel congiungersi e ricongiungersi degli esseri e di tutto l’Essere: due movimenti solo apparentemente contraddittori, evidentissimi nella sua pittura. Se ogni cosa è visibile in due o più aspetti, d’altro canto Gioia e Dolore, come molte coppie di opposti, sono due aspetti dello stesso volto. Mentre, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la letteratura occidentale propone modelli di frantumazione dell’io che sfociano tra problematicità e incomunicabilità, in lui (che conobbe e ritrasse anche Jung) prevale il moto della conciliazione, nell’emblema dinamico di un half-embrace. Ciò è evidente – talora più nella forma che nel contenuto – in quasi tutte le raccolte di aforismi e parabole, ma soprattutto nel poemetto Il profeta, nel quale l’esile cornice narrativa è pretesto per la ricomposizione dei vari aspetti enunciati nei sermons, e la partenza del protagonista Almustafa prelude a un più grande ritorno.
Esperienza forte dovette essere il riapprodare in Libano nell’adolescenza: in una terra dove, quindici chilometri a nord di Beirut, è presente una rupe con diciannove iscrizioni in quasi altrettante lingue, il paesaggio stesso suggerisce il dialogo con «i fantasmi delle ere», come scrive in una poesia. Più avanti, tornato in America per rimanervi, Gibran ambienterà in quel Libano la scena culminante del suo unico romanzo, Le ali infrante, pubblicato nel 1912, ispirato a una frase della madre. Un antichissimo tempietto conserva i resti di due affreschi: in una parete Venere-Astarte di ascendenza fenicia, nell’altra una Crocifissione bizantina; proprio davanti a quest’ultima l’eroina rinuncia all’amore terreno in vista di un più sublime amore, quello che veramente unisce.
Il costruttore di aquiloni
Settembre 1922. Gibran e Mary, ritrovandosi al solito dopo l’estate, si raccontano come hanno trascorso le vacanze. Lei, tornata dal Sud, gli confida la corte pressante dell’uomo che di lì a quattro anni diventerà suo marito; lui, tornato dal mare, la rassicura comunque vada: «La relazione tra te e me è la cosa più bella della mia vita. È la più splendida che io abbia conosciuto in qualsiasi vita. È eterna». Forse proprio Nantasket, la spiaggia di Boston dove Kahlil trascorse alcune estati con la sorella – sempre più spesso negli ultimi anni, quando la salute declinava – gli ispirò una splendida affermazione di poetica, riferita nel diario di Mary allo stile del Profeta: «I poeti dovrebbero prestare orecchio al ritmo del mare. È il ritmodel libro di Giobbe e di tutte le parti magnifiche del Vecchio Testamento. Quel duplice modo di esprimere un’idea che era tipico degli ebrei. Si dice, e poi si dice nuovamente, in modo solo un poco diverso. Come accade per le onde del mare. Sai quando arriva una grande onda, frusciando, e porta con sé i sassolini con il loro caratteristico rumore. Poi alcuni dei ciottoli ruzzolano indietro, con un rumore più lieve, una specie di sottocorrente di suono; e arriva frusciando una seconda ondata, minore della prima… Poi, pausa. E ben presto, ecco un’altra onda, e tutto si ripete».
Dinanzi al ritmo puro, lo stesso delle forme arcaiche di. poesia, Gibran, che stringendo una meteorite disse di percepire la vita dell’intero universo, somiglia al protagonista di 2001 Odissea nello spazio, quando, scartati il teatro e la lirica che pure ha a disposizione nell’astronave, si fa accompagnare da una musica “senza architetture”, e la spoliazione va di pari passo con la semplicità dell’infinito. Racconta Kahlil a Mary: «Sì, le persone che stavano in spiaggia devono aver capito che cercavo la solitudine… perché gli adulti raramente si avvicinavano. Ma ci sono novantasette bambini su quella collina. E devo aver fabbricato, per loro, qualcosa come… sessanta o settanta aquiloni! Tutti i tipi di aquiloni: grandi, piccoli, colorati, bianchi. E aquiloni siriani. Hai mai visto gli aquiloni siriani?».
Facile visualizzare, su quella spiaggia, molti pronunciamenti del Profeta: «Vorrei che andaste incontro al sole e al vento più con la pelle e meno col vestito…». Oppure: «Se è Dio che vuoi conoscere, non essere per questo solutore di enigmi; guardati intorno, invece, e lo vedrai giocare con i tuoi figli». I bambini, notando la sua perizia nel fabbricare aquiloni, gli chiesero di essere giudice nella gara finale; e il trofeo, un enorme aquilone- segnale, andò al ragazzone grassoccio di una famiglia numerosa che viveva là tutto l’anno. Forse il poeta aveva letto nei suoi occhi l’anelito che era anche suo: «Non c’è desiderio più profondo del desiderio di rivelarsi. Tutti vogliamo che la piccola luce che è in noi sia tratta da sotto il moggio. Il primo poeta deve aver sofferto intensamente quando gli abitatori delle caverne si mettevano a ridere delle sue folli parole. Avrebbe dato arco e frecce e pelle di leone, tutto ciò che possedeva, solo per comunicare ai suoi compagni di umanità l’intensa emozione e il trasporto che il tramonto gli creava nell’anima. E tuttavia, non è questa oscura pena – la pena di non essere compresi – che genera l’arte e gli artisti?».
I ragazzi si allontanano uno a uno dalla spiaggia: comincia a far freddo, è la stagione del ritorno a scuola. Molti anni più tardi, le gare tra aquiloni, che nelle biografie di Gibran costituiscono un episodio marginale se mai menzionato, saranno al centro di un famoso struggente romanzo. Gibran non poteva prevederlo, ma è qualcosa del genere che intende quando dice: «Ancora un poco, una pausa tra gli aliti dell’aria, e un’altra donna mi darà alla luce». Più che il ritorno in una terra definita, è l’unione trascendente, quella tra Goccia e Oceano, tra Sabbia e Schiuma (titolo del 1926) il richiamo del mare al quale Almustafa obbedisce, non senza lasciarne l’invito alla donna che ha creduto in lui: «Quando Amore ti chiama, segui il segno».
Altro non spiegherebbe, se lo si intervistasse oggi. Ripeterebbe forse, lanciando un aquilone o, come nel giugno 1912, guardando il Cambridge Street Bridge: «Costruire un ponte… ecco cosa voglio fare: costruirne uno così robusto e solido che lo si possa attraversare per sempre».
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