Settembre, andiamo, è tempo d’iniziare. Quello della scuola è un copione che a più riprese la letteratura italiana ha lambito o affrontato di petto. Vien voglia di osare un percorso che provi a dare senso e prospettive al lavoro più bello del mondo e a un periodo della nostra vita comunque importante, spesso decisivo. Nessuna pretesa di completezza: il repertorio è quanto meno sterminato. In via preliminare, vi avverto che i libri di cui tratterò sono ospitati nella mia biblioteca, dove sto raccolto e mi contento; e che i due registri prevalenti della letteratura dedicata alla scuola – anche nel caso di richiami estemporanei in romanzi d’altra ambientazione – sono il comico e il tragico, con al mezzo le loro mille gradazioni, s’intende.
Sul podio
Nel secolo scorso, il racconto a mio avviso migliore per il registro comico – qui nella variante picaresca – è La conquista della Quinta C di Giovanni Mosca. Cinquant’anni dopo i fatti, Mosca rievoca in prima persona la sua prima supplenza datata 1928, quando appena ventenne si era trovato ad affrontare 40 piccole canaglie a tutto intenzionatiemeno che starlo ad ascoltare. Lo ignorano, gli tirano di tutto. Ma sarà lui ad avere la meglio, parlando il loro linguaggio, fionda inclusa. Quanto al registro tragico, e di finzione, svetta il professor Lamis di Luigi Pirandello, protagonista del racconto L’eresia catara (1904). Con i suoi «occhi addogliati… il capo inteschiato», Lamis è un professore universitario che, nel tenere la «formidabile lezione» che ha preparato con tanta cura, non s’avvede che l’aula è stipata, sì, ma solo di «una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nell’aula buja deserta».
Don Luigino
In epoca fascista, scuola e autorità vanno a braccetto. Interprete perfetto di questa diade è il podestà-maestro di scuola raffigurato in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Don Luigino, questo il suo nome, è in classe, sul balcone, e fuma: come podestà controlla i passanti, come maestro tormenta gli scolari con delle lunghe canne «senza muoversi dalla seggiola attraverso la finestra aperta, colpendo, con un colpetto abilissimo e ben aggiustato, la testa o le mani dei ragazzi […] di lassù, con le sue bacchette in mano, egli si sentiva veramente il padrone del paese, un padrone affabile, popolare, giusto». I due poteri si fondono in uno, l’esperienza scolastica diventa indottrinamento, ermetica chiusura. Non a caso Gianni Rodari, nel 1952, la scuola la abolisce proprio. Nel suo Piccoli vagabondi solo la strada saprà rendere i ragazzi veri uomini e donne. La scuola come istituzione è assente, o dimenticata in chissà quale altrove. Ovvero ripensata dalle fondamenta, come nella Barbiana di don Milani.
In coppia
Lui sarcastico, lei drammatica: sulla figura dell’insegnante “i Moravia” si spartiscono equamente i toni. Per entrambi, e si vede, la professione sta perdendo di reputazione. Nel romanzo Agostino, scritto da Alberto Moravia nel 1942, di fronte a un tipo insignificante incrociato in spiaggia, il tredicenne protagonista lo cataloga così: «Poteva essere un professore…». La maestra Ida tratteggiata da Elsa Morante ne La storia (1974), invece, fa l’insegnante solo perché era il mestiere dei genitori. Ha delle competenze, certo, ma non possiede alcuna vocazione, per tacere del coraggio. È una donna piena di timori, come scrive Morante: «I soli a non farle paura erano stati suo padre, suo marito e, più tardi, forse i suoi scolaretti». Ida sta rintanata in un mondo protetto e chiuso, si sente tranquilla solo all’interno di un rapporto familiare, o asimmetrico, quello con i bambini. Vive entro un guscio, eppure la Storia irrompe tragicamente nelle vesti del soldato tedesco che, nella prima scena del libro, abusa di lei.
Il padroncino e il detective
Con Il maestro di Vigevano (1962) Lucio Mastronardi ci presenta un insegnante che tradisce la professione. La moglie Ada insiste per fare l’operaia, cosa che lui non tollera. Poi cede, apre una fabbrica di scarpe, si fa padroncino, aderendo in pieno alla “logica” del boom economico. Il racconto è in presa diretta, il registro prevalentemente beffardo, con un forte retrogusto amaro. Dopo colpi di scena e terribili rivelazioni, il maestro Mombelli tornerà a scuola, l’unico luogo dove, forse, è stato veramente se stesso. Pur opposto, non se la cava certo meglio il professor Laurana di Sciascia in A ciascuno il suo (1966). «Gentile fino alla timidezza», fa il suo mestiere come si deve, attento agli ideali che la professione comporta. Lui è uno che non tradisce la sua missione, anzi. Quando accade qualcosa non gli quadra, l’omicidio di due persone, non può limitarsi ad alzare le spalle. Non è quel che insegna i suoi alunni, sarebbe una contraddizione in termini. Si sente in dovere di indagare. Laurana – insegnante detective, forse il primo nella storia della letteratura – pagherà dazio con la vita alla sua fiducia in un mondo perfetto e migliore. Sarà il capro espiatorio perfetto, come la tragedia insegna ed esprime.
Il riso e l’eccidio
Il comico e il tragico sono ben rappresentati da due libri tanto opposti e distanti quanto complementari. In Ex cattedra (1987) di Domenico Starnone i protagonisti sono gli insegnanti stanchi e delusi figli del ’68; gli alunni vivono in un universo parallelo al quale è inutile bussare, i non-docenti sono l’unica categoria lavorativa italiana definita ex negativo. Nel suo approccio autobiografico e surreale, l’autore sembra allargare le braccia, convinto che a scuola «una risata ci seppellirà». Il tragico viene indagato in ogni suo anfratto ne Il sopravvissuto (2005) di Antonio Scurati. Nella scena che apre il libro, lo studente Vitaliano Caccia uccide tutti i membri della commissione d’esame. Tutti tranne uno, Andrea Marescalchi, che passa il resto del libro a interrogarsi sul perché sia stato risparmiato. Per scelta o per caso? Si interroga a fondo, Marescalchi, indaga il mistero dell’educazione per andar oltre le sterili teorie dei media e dei cosiddetti esperti di settore. No, ci deve essere dell’altro. Il professore comprende che l’intero sistema scuola è malato, e si trova quasi a parteggiare con l’omicida fuggiasco. In fondo, la disciplina da lui insegnata, la filosofia, richiama un dover essere, un possibile mondo migliore. Per qualcuno con più coraggio e dedizione ciò significa, necessariamente, ribellarsi. Allora la colpa, forse, non è dello studente, e nemmeno del sistema inteso come voce generale. No, è sua, del sopravvissuto. Vitaliano Caccia ha soltanto preso drammaticamente sul serio la lezione di Marescalchi.
La bella di matematica
E gli studenti, chiederà qualcuno? Non è che per caso ce n’è qualcuno che ha saputo restituire il mondo della scuola in buona letteratura? Ebbene sì, ce l’abbiamo. La bella di matematica è un romanzo di Alessandro Cecconato. È suscito nel 2012, quando l’Autore aveva solo 18 anni. Alda Adda, la cosiddetta “bella”, viene descritta così: «…la Adda presentava una bruttezza che non riuscivamo ad attribuire a nessuna regione del mondo a noi nota […]. Bassa un metro e poco più, a volte non veniva vista all’entrata in classe e quindi non riceveva neppure il saluto, cosa che la offendeva moltissimo: “Macché non me vedete? So’ qua. Sti maleducati, oh!” […]. Quel metro e poco più era condito da capelli mossi e crespi, dal colore particolare dato da un marroncino naturale, da un rosso scuro quasi viola di una vecchia ed evidentemente mal riuscita tinta, e da un nero pece di una più recente». Ebbene, questa meraviglia, capitata da chissà dove, era perdipiù assolutamente digiuna della materia, salvo infilzare gli alunni con una serie di immotivate insufficienze. Tra la “bella” e la classe sarà guerra, ovviamente, fino al colpo di scena finale. Un libro dalla prosa lieve e frizzante come un prosecco di quelle zone (siamo a Treviso), che condisce bene il racconto, ma vive bene anche da sola, a riprova di una maturità stilistica ragguardevole vista l’età dello scrittore. A riprova del valore del romanzo, va sottolineata la umanissima pietas che Paolo, lo studente narratore, mostra nei confronti di una donna che si scoprirà angariata dal marito, ma capace di un riscatto finale sorprendente e fiero.
Elogio del ripetente
Ma la letteratura è in grado di indicarci una qualche via d’uscita per la professione di insegnante? O semplicemente si riduce ai casi limite, alla distanza, alla critica e al dileggio? Partendo dalla propria esperienza diretta, Paola Mastrocola consiglia ai docenti di avere qualcos’altro oltre la scuola. Che si tratti di insegnare il volo alle galline (La gallina volante, 2000) o di raccontare come funziona la scuola al proprio cane, poco importa. L’importante è non chiudersi dentro quelle quattro mura, che si finisce sempre a recriminare, mai felici neanche per sbaglio. Il tono è comico-stralunato, il messaggio rigoroso nella strenua difesa di regole e nozioni. Per Eraldo Affinati, invece, – che ha fondato la scuola Penny Wirton, dove gratuitamente si insegna ai migranti un’unica materia, l’italiano – il maestro deve mettersi in gioco in prima persona. Lo scrittore romano ci ricorda che non esiste la classe, voce astratta, ma tanti e molteplici e singoli soggetti, ciascuno con la propria storia e identità. La città dei ragazzi (2008) ci esorta a imboccare questa direzione individualizzante, badando più al futuro cittadino che al presente scolaro; suggerisce al docente di guardare dappresso il corpo e la mimica di questi adolescenti, di prestare attenzione alle loro fisiche obiezioni, in una chiave a tratti pasoliniana («Quindici anni: l’età canonica dell’inquietudine febbrile, quando il passato è una carcassa d’emozioni perdute, il presente brucia sulla pelle come la cera di una candela accesa e il futuro ti schiaccia contro il muro bloccando sul nascere i tuoi movimenti»). Temi ripresi da Affinati in un libro del 2014, Elogio del ripetente. Senza una relazione piena, diretta e vera con ciascun ragazzo, afferma con decisione lo scrittore, insegnare è un’espressione priva di significato. Il tono per una volta non è né comico, né tragico, ma lirico e civile. Talvolta solo «in classe si realizzano incontri umani potenzialmente incancellabili nella vita delle persone perché avvengono nella sfera radicale dell’a-tu-per-tu». In fondo lo diceva già Piero Gobetti, e quasi cent’anni prima: «L’insegnante può solo svegliare ciò che c’è nell’alunno, aiutare lo sviluppo; non ha nulla di nuovo da portare».
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