Paolo Lomellini è laureato in Fisica, con una vita professionale nell’ambito della ricerca applicata a livello industriale. Ha recentemente scritto il volume Tracce, pensieri per il cammino tra luci e ombre della vita con prefazione del monaco di Bose Luciano Manicardi. Impegnato politicamente nel solco del cattolicesimo democratico, è stato anche redattore e direttore del settimanale diocesano mantovano La Cittadella.
- Paolo, quali sono i motivi ispiratori del tuo libro?
La vita mi ha offerto tante opportunità di studio, esperienza e conoscenza di materie, persone e ambiti vari. Ho sempre cercato di condividere la ricchezza degli insegnamenti ricevuti. Ad un certo punto mi è sembrato opportuno – quasi spontaneo e doveroso – farlo attraverso la forma di un libro.
Quest’ultimo, nello specifico, si struttura in sei capitoli principali centrati su alcune parole chiave: la natura, il pensiero, la società, il tempo, il dolore, la fede. Lungi da me, ovviamente, l’idea e la tentazione di costruire un “mio sistema di pensiero” su temi così grandi e impegnativi.
Piuttosto sono partito da citazioni di studiosi, pensatori e scrittori (a volte famosi, a volte meno) per cercare di sviluppare riflessioni aperte, con l’intento non di convincere il lettore di qualche tesi precostituita, bensì di coinvolgerlo in un supplemento di pensiero e riflessione.
- Nelle tue argomentazioni emerge spesso il rapporto tra scienza e tecnologia: puoi parlarne qui?
Scienza è una parola molto ampia e forse non esiste della stessa una definizione semplice ed univoca. Essa ha certamente molti risvolti applicativi che sfociano nelle varie forme di tecnologia che tanto hanno cambiato (spesso migliorando) le nostre vite quotidiane. Io non sono tra quelli che demonizzano la tecnologia, che ha peraltro interessato gran parte della mia attività lavorativa.
Tuttavia, poiché essa è uno strumento e non un fine, deve essere sempre sviluppata e utilizzata con misura. Insomma, necessita di essere guidata da elementi etici e sapienziali. Questi derivano in gran parte dalle scienze umane e dalle tradizioni spirituali.
Ma anche le discipline strettamente scientifiche possono dare un contributo importante, facendo crescere la dimensione contemplativa della stupefacente e meravigliosa complessità della natura. È un aspetto – quello contemplativo – che oggi finisce spesso nel dimenticatoio, ma che ha sempre caratterizzato il lavoro e il pensiero di tantissimi grandi scienziati della storia.
- Esiste il rischio che la scienza possa distorcere la sua libertà asservendosi a qualche ideologia?
Certo che esiste questo rischio, proprio perché spesso la scienza ha grandi e importanti ricadute applicative che entrano, modificandola, nella vita di tutta la società. Ed è allora ovvio che va ad interagire, nel bene o nel male, con i sistemi di potere che regolano la società stessa.
Va detto che questo rischio per la scienza è del tutto analogo a quanto avviene un po’ per tutte le altre sfere della vita umana: la cultura, l’informazione, le attività produttive, la finanza, la religione, la scuola, l’arte, lo spettacolo, lo sport e quant’altro.
Io penso che il problema decisivo (su cui mi soffermo nel capitolo legato alla società) sia la tenuta e il consolidamento della democrazia, delle sue regole e del suo effettivo funzionamento e accettazione nella vita quotidiana da parte del corpo sociale.
In una società sempre più complessa e articolata questo diventa più difficile e si rischia di finire sedotti dalle scorciatoie e dalle semplificazioni spicciole che portano verso nuove forme di autoritarismo. Queste possono manipolare e condizionare la scienza così come tutti gli altri aspetti della nostra vita.
In questo quadro a me preoccupano le possibili derive di strumentalizzazione della scienza e della tecnologia ma ancor di più il crescere di una ideologia, a volte intollerante e aggressiva, che fa della anti-scienza il suo idolo.
All’esempio ovvio dei no-vax se ne potrebbero aggiungere tanti altri, tutti vocati ad un catastrofismo ipertrofico che a me pare spesso ingiustificato, oltre che sicuramente poco produttivo. Con questi schemi di pensiero e di giudizio, a mio avviso, non si farà un grande servizio alla transizione verso modelli di sviluppo più equilibrati, equi e sostenibili.
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- Quali considerazioni emergono, a tuo parere, quindi, circa il rapporto scienza-fede nella cultura odierna?
Non c’è dubbio che scienza e fede coinvolgono il nostro pensiero su piani diversi, anche se non contrapposti. Pensare che la scienza possa dimostrare l’esistenza o la non esistenza di Dio è una tentazione sempre presente ma altrettanto inutile e fuorviante.
Lo è per tutti: scienziati e teologi, credenti e atei o agnostici. Eppure, con un po’ di buona volontà e tolleranza intellettuale questi due piani distinti possono aiutarsi a vicenda. Più si allargano i confini della nostra conoscenza scientifica più si percepisce che si allargano quelli della realtà che a noi rimane ignota. La scienza insomma può indicarci che c’è una porta che continua a rimanere aperta sul trascendente e dovrebbe riconoscere che non può bastare a sé stessa.
La fede, parallelamente, in ascolto della scienza può superare una certa tentazione fatta di sacralità distorta e di miracolismo. La sapienza di Dio, probabilmente, si mostra più e meglio nella meravigliosa struttura e complessità ordinata che governa la natura nei suoi aspetti quotidiani. La scienza, in questa prospettiva, può essere di aiuto alla fede per interloquire con una modernità sempre più sfuggente.
- Nel tuo libro compare un capitolo dedicato al tema del dolore: qual è l’origine di questa tua speciale sensibilità?
L’origine è molteplice, a partire da una sensibilità che mi ha lasciato mia madre, quale eredità, probabilmente, quasi genetica. Il servizio civile svolto nell’assistenza domiciliare agli anziani mi ha fatto confrontare poi, in giovane età, con il problema della malattia, del decadimento fisico e della morte.
Cito quindi la lunga testimonianza del lavoro di mia moglie in mezzo alle fragilità incontrate in un reparto di neuropsichiatria infantile, l’esperienza fatta anni fa come assessore ai servizi sociali del mio Comune o l’impegno, più recente, nell’istituto mantovano di riabilitazione Casa del Sole per bambini e ragazzi con gravi disabilità psico-fisiche. Sperimentare un evento drammatico come il terremoto, sia quando fu vissuto nel nostro territorio del basso mantovano nel 2012, sia vedendone esiti anche più catastrofici in altre zone di Italia, ha avuto in me grande importanza.
Infine, l’aver visitato vari campi di sterminio frutto della follia nazifascista così come altri luoghi altamente simbolici come la casa di Anna Frank ad Amsterdam o il memoriale di Yad-Vashem a Gerusalemme, mi ha toccato in profondità. Occorre lasciarsi toccare da queste realtà, pena una insensibilità che ci porta alla disumanizzazione.
Uno dei pensieri che mi ha più segnato è dello scrittore francese Georges Bernanos che diceva che per conoscere la verità dell’uomo bisogna misurarsi e riuscire ad affrontare la dimensione del suo dolore. Un insegnamento analogo a quello che don Mazzolari trasmetteva ai giovani seminaristi per svolgere in seguito la loro missione di sacerdoti. E infine, come sintesi superiore di tutto, la realtà della incarnazione di Dio che trova il suo compimento, nelle vicende umane, terrene, attraverso la condanna a morte, la passione e la croce di Gesù.
Fin da ragazzo, mi ha sempre ispirato e condotto verso la fede il giorno del Venerdì Santo ancor più che la Domenica di Pasqua. Mi ha confortato, più avanti negli anni, ascoltare riflessioni spirituali – ben più autorevoli delle mie – che vedono il fulcro della salvezza cristiana fondato proprio sulla croce.
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- L’introduzione del tuo libro ha come autore un monaco della comunità di Bose, Luciano Manicardi. Qual è il tuo rapporto con questa realtà spirituale ecclesiale?
Frequento La Comunità di Bose da circa venti anni e questo mi ha fatto crescere molto come persona e come cristiano, attraverso i ritiri, le settimane bibliche e di spiritualità, la lettura e l’ascolto delle riflessioni dei monaci. Ho da subito apprezzato il loro stile sobrio ed essenziale, mai ostentato, oltre che una capacità, direi quasi naturale, di accoglienza, ascolto e dialogo con gli ospiti della Comunità.
Uno stile che mira non a costruire uno dei tanti gruppi ecclesiali chiusi in sé stessi ma ad offrire agli ospiti una pausa di riflessione per poi tornare arricchiti e motivati alla propria vita, vocazione e impegno quotidiano.
Un aspetto che continua ad affascinarmi e stimolarmi è il continuo scavare e approfondire le fonti della fede: da un lato la ricerca e lo studio sui testi delle Scritture nelle lingue originali e le possibili chiavi di lettura che possono emergere per noi, oggi, a distanza di millenni, ormai impregnati di lingue e linguaggi molto diversi; parallelamente la riscoperta, per una nuova valorizzazione, dei padri della chiesa dei primi secoli.
Io penso che, per un felice paradosso – il cristianesimo stesso è un paradosso! – andando in profondità nelle fonti antiche, si trovino le ragioni e i contenuti che ci permetteranno di confrontarci con la modernità e di rendere possibile il dialogo e la crescita, in ogni caso, della fede. Non so ovviamente quando questo avverrà, ma in un qualche tempo futuro sarà così. Sono fiducioso.
- Quale eredità ti ha lasciato il tuo ruolo di giornalista, e quindi di direttore, del settimanale diocesano di Mantova La Cittadella?
Ho iniziato a collaborare con La Cittadella in occasione della morte di Giovanni Paolo II. L’allora direttore, don Benito Regis, mi chiese un pezzo per ricordare quando, nel 1991, portai un saluto al Papa in visita a Mantova. Coincidenza fortuita o disegno imperscrutabile, in questo modo iniziò allora la mia lunga collaborazione – 14 anni – col settimanale diocesano.
Ho imparato che scrivere un pezzo, almeno per me, è come un paziente e preciso lavoro artigianale che sempre comporta verificare le citazioni e i dati utilizzati, evitare ripetizioni o periodi contorti e inutilmente lunghi, rispettare i tempi di consegna e gli spazi (il numero di battute) a disposizione, tenere sempre presente la tipologia media di lettori a cui ci si rivolge.
Questa esperienza ha sviluppato e consolidato il mio interesse per la lettura. Ha allargato il campo delle materie su cui esercitarmi a scrivere, in precedenza era ristretto quasi esclusivamente all’ambito tecnico-scientifico. È stata una esperienza che mi ha arricchito molto, senz’altro una delle basi su cui appoggiarmi per scrivere questo libro.
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