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Persone che devi conoscere (Michela Murgia, EMP, 2018)

di Persone che devi conoscere (Michela Murgia, EMP, 2018)
Fonte: EMP

INTRODUZIONE

Questo non è un libro di storie esemplari, se non altro perché io le storie esemplari le detesto. Ogni volta che sfogliando un giornale mi capita di trovarmi davanti a una vicenda presentata come esempio a cui tendere scatta in me una resistenza preventiva talmente forte che spesso mi impedisce di andare oltre le prime righe. Troppo radicale è la diffidenza verso la retorica dell’eccezione e peggio ancora quella verso l’eccellenza, categorie enfatiche che mirano in fondo a trasmettere l’idea che viviamo in un mondo di mediocri dove di quando in quando capita che qualcuno riesca miracolosamente a emergere per qualche sua specialità personale, indisponibile però a tutti gli altri. Le storie esemplari sono un po’ come le vincite alla lotteria: perché uno azzecchi il biglietto che porta a casa la super vincita occorre che milioni di persone giochino per perdere. Io non ho mai comprato il biglietto di una lotteria e la causa è proprio quel capogiro che ti dicono essere annesso automaticamente al montepremi; è segno che non c’è da temere il quasi certo rischio di perdere, ma c’è di sicuro da avere orrore della pur piccola probabilità di vincere, finendo per trovarsi in mano immeritatamente una quantità grottesca di denaro, ingiustificabile con le proprie capacità personali e senz’altro imperdonabile in un’ottica di giustizia. Infatti molti non se la perdonano, tanto che non sono affatto rare le cronache di rovina tra i vincitori di lotterie. Il modello narrativo della storia esemplare segue il medesimo schema: c’è sempre qualcuno che in un contesto ostile riesce a superare gli ostacoli e vincere contro tutte le avversità, realizzando un esempio di umanità migliore e “aspirazionale” per tutti quelli davanti ai quali viene ostenso. È la parabola dell’eroe epico e del santo agiografato, ma anche del self made man del sogno americano o del concorrente dei giochi televisivi che mirano a scovare il cosiddetto “X Factor”, quel misterioso quid interiore che solo pochi eletti possiedono e che li destina a brillare presto o tardi alla vista di tutti. In quel meccanismo retorico nessuno ti dice che è una condanna essere l’eccezione che conferma la regola della mediocrità altrui. Nessuno ti rivela che il prezzo da pagare per essere l’eccellenza è restare per sempre quello che ce l’ha fatta nonostante gli altri. Forse il motivo per cui non mi piacciono le storie esemplari è che farcela nonostante gli altri è esattamente la mia idea di inferno.

E dunque no, questo libro non è un catalogo di storie esemplari. È invece una sequenza di vicende che più normali di così non potrebbero essere, al punto che se avessi voluto parafrasare un bel titolo di J.K. Rowling – che con Harry Potter ci ha regalato l’eroe quotidiano più convincente degli ultimi quarant’anni – l’avrei intitolato Normalità assolute e dove trovarle. Dentro queste pagine ci sono persone che dovreste e potreste conoscere perché camminano per le stesse strade dove camminiamo tutti e tutte, fanno le stesse cose che facciamo noi e a qualunque sguardo superficiale apparirebbero del tutto prive di quella misteriosa luce di predestinazione che dovrebbe distinguere una persona speciale dalla massa di chi speciale non è. Troverete Francesco, a cui hanno trapiantato il fegato e lui ne ha fatto una storia di rinascita condivisa. Ci troverete Monica, che ha una clinica veterinaria dove cura gratis pure i randagi feriti. Troverete Matteo, che fa il prete in Veneto ed è riuscito a creare dinamiche di comunità tra i suoi parrocchiani e i musulmani. Ci troverete Marina, che pensa che si possa parlare di morte per godersi meglio anche la vita. Troverete anche Antonello, che ha lasciato un lavoro stressante e pagatissimo per ricominciare a cinquant’anni ed essere finalmente felice. Sono tutte storie così, semplici al punto che brillano solo se qualcuno se ne accorge e le racconta, e hanno protagonisti con nomi comuni come Silvia, Francesca, Antonio, Alessandro, Pino, Veronica e tutti gli altri e le altre che in questi anni di collaborazione felice con il «Messaggero di Sant’Antonio» hanno segnato il mio tempo e qualche volta le mie scelte. Nessuno di loro è speciale nel senso elitario ed esclusivo del termine; tutti però lo sono nel modo in cui chiunque può diventarlo, se sceglie di non accettare la mediocrità come un destino. Quando ho scelto le loro storie non è stata l’eccezionalità a colpirmi, né la quota di successo personale che ciascuna di queste persone ha raggiunto con gli obiettivi che si era posta. A fare da criterio è stata sempre la capacità di ognuno di loro di fare la differenza per altri, di trasferire la propria visione sulla vita di una comunità, piccola o grande non importa, ma comunque mai per sé soli. I loro nomi, tutti veri, sono idealmente sempre nomi collettivi, perché ciascuno di loro ha riconosciuto come spinta per le sue scelte la responsabilità verso qualcun altro. A nessuno si attagliano le frasi «si è fatto da sé» o «non deve niente a nessuno». Neppure uno tra loro direbbe che ha costruito qualcosa nonostante gli altri, mentre tutti direbbero che hanno agito sempre con e per gli altri. In un mondo enfatico e competitivo che vuole solo storie detonanti, le loro vicende appaiono come eroismi gentili, santità tascabili, tutte uniche eppure nessuna al punto tale da renderla più facile da ammirare che da rifare. Ciascuna di queste voci ha segnato un mese della rivista di Sant’Antonio, ma ora che sono diventate così tante da non poter più essere trattate da eccezioni, è più bello vederle in un coro dove forse si perderà un po’ la distinguibilità del solismo, ma sarà più forte la certezza che la meraviglia della vita piena sia alla portata di tutti, perché il paradiso, se c’è, è una cosa plurale.

FARE ANCHE DELLA MORTE UNO SPAZIO DI RELAZIONE

Marina Sozzi è una tanatologa, ovvero una persona che studia e ragiona sul tema difficilissimo della morte. Per dirla con le sue stesse parole, si occupa di capire come gli uomini si rappresentano, temono, sfidano o accettano il proprio morire; e come piangono, seppelliscono, ricordano e onorano i propri morti. Questa donna, convinta che studiare la morte sia un modo eccellente per guardare alle nostre società contemporanee e a quelle del passato, mi è capitato di incontrarla come docente diversi anni fa a Torino, probabilmente l’unica città d’Italia dove può sembrare una cosa normale non solo che esista un corso di preparazione alla morte, ma che qualcuno ci si possa iscrivere anche se non sta morendo.

Le persone che si trovavano con me nella sala dove Marina teneva lezione erano lì in particolare per sentir parlare di rituali di commiato, i cosiddetti funerali laici richiesti dalle persone senza fede religiosa. Marina ha infatti costruito, tra le altre cose, anche il rito civile per le inumazioni che attualmente è in uso nella città di Torino. In questi anni il suo straordinario percorso di studiosa e di pedagoga della fine umana l’ha portata a scrivere molti testi divulgativi sul tema dell’addio, ma nessuno di essi è efficace come una chiacchierata con questa radiosa cinquantenne. Nei suoi occhi azzurri non brilla alcuna luce ideologica ed è per questo che con lei ci si ritrova a parlare serenamente anche di temi scottanti come il lutto, la malattia terminale, la soglia accettabile del dolore e il testamento biologico, al di là di ogni convinzione etica o religiosa. «In aree urbane e secolarizzate» – e mentre me lo dice io so che è vero anche in molte piccole realtà rurali – «spesso ai riti funebri ci sono persone che non frequentano la messa e non si riconoscono nel rito cattolico. Occorrono alternative, ma chi le predispone? Dovrebbe essere accessibile a tutti la celebrazione di un rito laico, che metta al centro la vita del defunto e il suo lascito affettivo, culturale, etico».

Grazie al lavoro di persone come Marina in tutta Italia stanno sorgendo sale del commiato multiculturali, adatte a ospitare funerali laici o di altre religioni, ma non basta approntare uno spazio. Il dolore della morte ci interroga tutti e anche a chi non ha il dono della fede serve un linguaggio simbolico che permetta di onorare il defunto, consolare i vivi e riaffermare che la vita della comunità continua nonostante la ferita inferta dalla morte.

Marina non ha cominciato a occuparsi di morte per caso. Le è stato diagnosticato un tumore giovanile e il periodo della sua cura si è rivelato per lei un tempo preziosissimo per indagare in prima persona e provare a comprendere quello che resta ancora il tabù più forte della nostra modernità. Ne è nata la consapevolezza dell’assenza pressoché completa di spazi dove le persone possano vivere la morte e il lutto con dignità, tornando a dargli un senso alto. L’interesse intorno al tema è molto più diffuso di quanto si possa credere. Il blog di Marina – che si chiama «Si può dire morte» e tratta di tutte le sfumature dell’argomento – è frequentatissimo e i suoi incontri territoriali sui temi collegati alla fine della vita lo sono altrettanto. Molte di queste riflessioni sono confluite nel suo libro Sia fatta la mia volontà (Chiarelettere), tra le cui pagine si prova a immaginare di spiegare la morte ai bambini, analizzare il ruolo che possono avere la musica e l’arte nell’accompagnare la fine della vita, investigare il ritardo italiano nelle cure palliative, osservare come le altre culture amministrano il dolore per l’assenza dei loro cari e soprattutto affrontare la paura più profonda dell’essere umano: che se non si riesce a dare senso alla fine della vita, possa essere la vita stessa, alla fine, a non avere avuto senso. Marina è ben consapevole di questa paura, identica nel tempo e in tutte le culture. «Ogni società ha studiato le sue strategie per reagire alla ferita inferta dalla morte. Però quella occidentale moderna, volta all’oblio e alla dilazione, è perdente e inefficace: non abbiamo forse mai avuto così paura della morte. Pensa ai bambini di oggi: non vengono più portati a vedere i nonni morenti o morti, con la convinzione che ne rimarrebbero sconvolti. Il risultato è che i nostri figli crescono con la convinzione che la morte succeda sempre agli altri, totalmente impreparati ad affrontarla».

L’idea di prepararsi ad affrontare la morte mi ricorda una preghiera che spesso sentivo fare dagli anziani del mio paese e di cui non avevo mai compreso il significato: chiedevano a Dio di risparmiarli dalla morte improvvisa o inconsapevole. Da giovanissima quella mi sembrava una richiesta assurda: quale migliore morte ci si poteva augurare di quella nel sonno o comunque il più possibile rapida e indolore? La saggezza dei vecchi però spesso la si capisce dopo e solo oggi, grazie anche al lavoro di persone come Marina, ho imparato che avevano ragione loro: anche l’addio tra vivi ha bisogno dei suoi rituali e le morti improvvise ce li negano, lasciandoci traumatizzati dalla perdita e incapaci di darle significato. Il tempo della morte vigile è benedetto perché ci insegna a ritessere i legami forti e permette di preparare noi stessi e i nostri cari all’ultimo commiato, arrivando alla fine con dignità e valore. L’abisso della morte, come ci insegnano gli addii dei patriarchi biblici, smette di fare paura solo quando diventa spazio di relazione.

«SONO VIVO PER I MIEI SOGNI»

Immaginatevi di conoscere un giovane manager di una grande multinazionale, stimato e pagatissimo, ai massimi livelli della sua professionalità, che all’improvviso realizza di non essere felice e cambia radicalmente vita, tra lo sbalordimento di colleghi e amici. Sembra la trama di un film americano a lieto fine con Nicolas Cage, invece è la storia vera di Antonello Pranteddu, manager di un colosso dell’informatica fino a pochi anni fa e oggi soddisfatto padrone di casa di un piccolo ristorante nel cuore della Mitteleuropa.

Incontrarlo è un tuffo dentro quella speciale qualità della maturità maschile che si incontra solitamente in uomini molto più anziani di lui: Antonello a cinquant’anni è un uomo pacificato e risolto. Mi accoglie tra i tavoli raffinati del bistrò che ha appena aperto nel cuore della città di Praga, e prima di cominciare a parlare mi dà tutto il tempo di notare la cura dei particolari, la scelta dei materiali tradizionali della Barbagia da cui proviene, la selezione di vini e l’atmosfera cameratesca e complice tra i camerieri, tutti molto giovani.

«Il cambiamento per me è cominciato nel modo peggiore: una diagnosi dura. Il medico mi ha trovato qualcosa che mi ha costretto a mettere fortemente in discussione il mio stile di vita molto competitivo, sempre in tensione, indispensabile per stare in cima a quei livelli». Antonello mi guarda dritto in faccia con i suoi occhi neri e parla di quegli anni come uno che li ricordi appena, abbandonati a un passato nebuloso e vago. «Fino a quel momento non mi ero reso conto di quanto stessi chiedendo a me stesso, al mio fisico e alla mia anima. Quella patologia, che in un primo momento sembrava la peggiore sventura, è stata un momento propizio: mi ha costretto a prendermi il tempo per guardarmi allo specchio, per vedere l’uomo che ero diventato, e chiedermi se davvero era quello che avevo sempre desiderato per me stesso».

La decisione di cambiare vita non è stata immediata, non lo è mai quando guardi in faccia quello che tutti gli altri chiamano «successo» e che tu stesso sei stato educato a desiderare per tutta la vita. Così Antonello, che non aveva mai preso nemmeno le ferie da contratto, per smontare l’impalcatura della sua vita è andato per gradi: ha chiesto prima tre mesi per riposare, poi un intero anno sabbatico che lo ha portato a girare le capitali d’Europa e fermarsi a Praga, dove si è sentito a casa dopo molto tempo. Ha trovato degli amici, si è guardato intorno, ha visto una città a misura d’uomo dove la spinta a competere non divorava ancora gli animi dei suoi abitanti, e ne è rimasto affascinato.

Quando l’anno sabbatico è finito Antonello si è rimesso la giacca e la cravatta ed è tornato nel suo ufficio alla multinazionale, in quel palazzo di vetro e acciaio da cui si vede mezza Milano, ma non era più la stessa persona. La sua segretaria lo sorprendeva spesso a fissare nel vuoto, oltre le trasparenze delle pareti, con lo sguardo perso e l’anima altrove. «Dottor Pranteddu, va tutto bene?». Andava bene, certo, ma non lì; non nello stesso mondo in cui aveva vissuto per tutti quegli anni, inconsapevole. Il desiderio di andare via e darsi un’altra possibilità era talmente forte che al momento di prendere la decisione di uscire dall’azienda Antonello non ha nemmeno negoziato la buonuscita: «fatemi l’offerta che ritenere giusta, l’accetterò». Mentre lasciava per l’ultima volta il parcheggio dell’azienda, a quarantacinque anni, tra l’incredulità dei colleghi e con una macchina molto più modesta di quella con cui ci era entrato, si è sentito felice e rinato, per la prima volta se stesso dopo tanti anni di corsa.

Da quel giorno ogni cosa è andata in un’altra direzione, molto più lenta e relazionale. Gli amici conosciuti nella Repubblica Ceca sono diventati i soci di una piccola impresa di ristorazione vicino al parco di Kampa, dando vita all’unico locale di cucina sarda a Praga, chiamato Ichnusa in onore alla sua isola. L’attitudine manageriale che Antonello aveva sviluppato non solo non si è persa, ma ha trovato altre declinazioni: ha selezionato i produttori locali uno per uno, li ha organizzati perché potessero spedire in gruppo i loro prodotti riducendo i costi, ha formato il cuoco ceco con attenti stage sull’isola e ha lanciato anche una linea di prodotti con il marchio del ristorante. Sono bastati pochi anni per diventare locale di culto in una città in pieno risveglio culturale, vivace e attenta alle novità e alla qualità. «Non mi unisco al coro degli italiani che criticano i cechi: a me questo popolo piace molto, ha sofferto tanto e nonostante questo ha saputo rialzarsi: io gli sono grato. Praga è un luogo unico, aperto e creativo, pieno di storia e accogliente per l’impresa: chi ha una buona idea qui ha davvero la possibilità di realizzarla».

Oggi Antonello dà lavoro a una decina di persone e la sua passione per il bello e il ben fatto lo ha ripagato al punto che dopo pochi anni si è potuto permettere di aprire un altro locale, più piccolo e specializzato, inaugurato pochi mesi fa nel quartiere dell’università di ingegneria. Si chiama Bisos, che in sardo significa sogni, e quando gli chiedo se non ha paura di essere giudicato poco concreto mi sorride con ironia: «Chi ha detto che nelle scelte conta solo la concretezza? A volte è proprio il sogno da cui ti fai guidare la medicina segreta che finisce per salvarti la vita. Guarda me: sono vivo per i miei sogni».

«CERCO BELLE STORIE E LE RACCONTO»

Quando Simonetta ferma la sua bicicletta accanto a me e sorride, sembra uscita da uno scatto degli anni ‘70. I vestiti che indossa provengono da un tempo trascorso – una lunga gonna a ruota, la montatura spessa degli occhiali, una camicetta di seta color crema con un ricamo delicato – ma sono così accuratamente abbinati da non lasciare dubbi sul fatto che quell’aria da ragazza di campagna sia studiata nei minimi dettagli. Rassicurante: è questa l’impressione che forse vuole dare, ma basta uno sguardo attento oltre le lenti degli occhiali per scorgerle negli occhi scuri un lampo vivace che annuncia sovversioni e rivolte, solo un po’ nascoste dal suo piglio da maestrina timida. E chi altro se non una sovversiva potrebbe fare la lettrice ambulante?
Simonetta Bitasi a quarant’anni si guadagna da vivere con un mestiere che in Italia è probabilmente l’unica a fare. Istituzioni come comuni e biblioteche, ma anche festival letterari, case editrici e associazioni di lettori, la pagano proprio per questo: leggere libri e raccontarli. Lei però è un lettore un po’ speciale: non le interessano i libri da classifica, i best seller molto pubblicizzati che può leggere chiunque. Per quelli non serve un lettore, li leggeremo comunque. Simonetta legge e racconta gli altri libri, quelli che magari sono bellissimi, ma non hanno alle spalle una casa editrice forte e difficilmente riusciranno a raggiungere tutti i lettori che meriterebbero di leggerli. «È una questione di democrazia» – mi spiega convintamente. «In Italia escono sessanta libri al giorno, un numero impressionante, e la maggior parte non arriva a raggiungere nemmeno trenta lettori. Pensa a quante storie bellissime si perdono! Migliaia di persone sono private della possibilità di conoscerle perché il mercato editoriale si muove troppo rapidamente, e ogni titolo resta sugli scaffali delle librerie al massimo per due settimane. Per questo finiamo tutti per leggere solo i primi dieci libri in classifica. Invece io quelle storie le ritrovo e le porto in giro, permettendo a chi si occupa di promuovere la lettura di non dimenticarle, proponendole ai lettori».
Ma come si diventa lettore ambulante? A Simonetta i libri sono sempre piaciuti; si è laureata in lettere e ha iniziato a lavorare come libraia a Mantova, dove si è accorta quasi subito che chi gestisce una libreria è il primo a non fare in tempo a leggere tutto quel che esce. «Però non è vero che escono troppi libri, la bibliodiversità è una ricchezza. Non vorrei vivere in un mondo dove escono solo venti libri all’anno». Molte persone pensano in effetti che sarebbe meglio se uscissero meno titoli, ma è una pretesa senza senso: a nessuno verrebbe in mente di dire che non si devono incidere più canzoni perché ne dobbiamo ancora ascoltare tante. Il problema non è quanti libri escono, ma attraverso quali circuiti possono raggiungere i lettori. La libreria è quello più immediato, però le librerie sono anche esercizi commerciali con costi e ricavi; nessuna di loro si può permettere di impegnare i suoi scaffali per ospitare titoli che restano fermi per mesi, perché ogni metro di esposizione ha un indice di rotazione sotto il quale il libraio non riesce più a pagare l’affitto.
Per fortuna ci sono le biblioteche, che nascono proprio per ospitare il maggior numero di titoli, dando la possibilità ai lettori di ritrovarli lì anche dopo molti anni. «Io presento ai bibliotecari titoli bellissimi e poco conosciuti, perché sui loro scaffali non manchino. Lavoro con le scuole che devono adottare testi di lettura per i ragazzi, indicando loro quali storie sono più adatte, anche se sono state edite da case editrici minori. Collaboro con il festival di Mantova per inserire nel programma libri e autori che negli spazi tradizionali delle recensioni o delle trasmissioni televisive non troverebbero mai posto. Accompagno soprattutto gruppi di lettura spontanei, lettori appassionati che vogliono condividere il piacere personale della lettura attraverso lo scambio collettivo con altri lettori. È un lavoro appassionante, che mi da tante soddisfazioni».
Simonetta parla con semplicità di quello che fa ed è convinta che in fondo non sia niente di speciale, ma nel mondo editoriale è una vera autorità, perché il suo intuito ha condotto nelle mani di migliaia di lettori titoli che in seguito sarebbero diventati famosi, arrivando poi a farsi leggere anche da chi compra solo i best seller da classifica. È stato il caso della sconosciuta Herta Müller e del suo Il paese delle prugne verdi, invitata al Festivaletteratura di Mantova su indicazione di Simonetta e poi vincitrice del premio Nobel. «Io consiglio i libri che mi piacciono», commenta serena, ma trovare buone storie nella catasta di carta che esce ogni giorno è tutt’altro che facile. In casa sua c’è una poltrona davanti a una vetrata da dove si vede il giardino – «qui è dove lavoro», sorride placida. Ha ricevuto tante offerte dai giornali per scrivere recensioni, ma le ha rifiutate tutte. «Detesto scrivere. Le storie che ho amato mi piace raccontarle, perché le persone si appassionano di più a una storia attraverso gli occhi e il cuore di chi l’ha già attraversata: è un po’ come tornare bambini e rientrare nelle fiabe narrate dai nonni o dai genitori prima di dormire. I libri costruiscono relazioni. Guarda me: cerco belle storie e alla fine trovo sempre belle persone!». Se ne va così, inforcando la sua bici per le strade di Mantova e oscillando appena sulla ruota, come un rabdomante che senta la vena carsica dell’acqua.

Fonte: EMP
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