Door into the Dark (foto, la copertina della prima edizione inglese), la seconda raccolta poetica di Seamus Heaney, si apre su un Notturno e termina in una torbiera, Bogland, dove «il centro d’acqua non ha fondo». Una terra ricca dove il seme può attecchire generandosi. E generando il futuro, tramandando un’eredità che deve essere poi raccolta. Così ha fatto Mariadonata Villa, la cui poesia è stata felicemente nutrita da quella di Heaney. Lo racconta tracciando il suo viaggio tra le parole-chiave di una geografia comune.
Mariadonata Villa vive e insegna a Modena. Ha scritto e tradotto di poesia, arte, teatro per varie riviste e siti letterari, oltre che su quotidiani locali e nazionali. Dopo essere stata membro del CdA di Fondazione Fotografia Modena (oggi Fmav), ha iniziato a occuparsi della commistione tra fotografia e parola poetica, che l’ha portata, tra l’altro, a elaborare il progetto online “L’anno della betulla/The year of the birch”. Ha pubblicato le raccolte L’assedio (Raffaelli, 2012) e Verso Fogland (Minerva, 2020). Fire/flies, il suo primo libro di immagini e testi in lingua inglese, uscirà nella primavera del 2024 per Bored Wolves Press.
Se dovessi pensare all’inizio del mio viaggio con Seamus Heaney, devo tornare alla fine degli anni Novanta, a Bologna, quando alla Feltrinelli sotto le Torri mi imbattei in un libretto tascabile, con una copertina blu carta da zucchero spento, che non mi diceva molto; il titolo, Una porta sul buio, mi rese però impossibile passare oltre, come per una forma di attrazione geografica.
Qualche anno dopo, poco distante da lì, avrei brevemente incontrato il suo autore. Non ricordo dov’ero quando poi, qualche ora dopo, l’ho aperto, ma ricordo quell’ultimo verso, perfetto: The wet centre is bottomless, «il centro d’acqua non ha fondo».
Non so se sia stato l’inglese, o il suono dell’italiano che ne restituiva la musica in due emistichi cristallini. So che mi sentii assolutamente compresa. Nel buio c’è sempre una porta, e dove si apre la porta c’è un abitare, uno stringersi intorno al fuoco, un mangiare insieme, sapere che il gelo non è l’ultima parola dell’inverno, che il tempo non è qualcosa che corrode o marcisce, ma ridà volto alle cose, come per una nuova nascita. Non sapevo ancora quanto questo pugno di parole avesse una qualità di seme.
L’ultimo verso di Bogland è anche l’ultimo verso di Door into the dark. Tutta la poesia è per me un inno all’essere, la torbiera, una macchina del tempo, qualcosa che restituisce intatto l’intero scheletro del Grande Alce Irlandese, così come il sapore del burro di due secoli prima, e non si sa quale delle due cose susciti maggiore meraviglia.
L’ho capito molti anni dopo, quando, lottando per trovare un titolo al libro che stava nascendo, è affiorato in me, come quel burro ancora commestibile, un nome. Ho capito, lì, che quella prodigiosa macchina della memoria che per Heaney è la torbiera, per me è la nebbia. E così è nato, prima in lingua inglese e poi in autotraduzione italiana, Fogland – a song of dirt and water, il testo centrale di Verso Fogland, una raccolta poi edita da Minerva nel 2020. Se Heaney, per andare in profondità verso un centro d’acqua, aveva la torbiera, io avevo la nebbia. Lui gigante, io più minuscola che mai, ma arresa a mettere i piedi nelle sue orme, zittendo nella testa la sproporzione.
Fogland è un dialogo diretto non solo con Bogland, ma anche con Anahorish (in Traversare l’inverno). Anche qui, nel centro della pianura, ritrovavo «il mio posto di acqua chiara», il luogo natale del piccolo Seamus, la parola che si fa collina e paesaggio (se non la conoscete, cercate la meravigliosa versione acustica di Lisa Hannigan).
Sotto l’incanto del nome gaelico, mentre chiudevo la scrittura, l’ho digitato cercandolo su Google Maps. Ho trovato struggente ma anche, per certi versi, consolante la scoperta che Anahorish resti come toponimo solo nella denominazione della scuola elementare del posto. Che quel nome si salvasse dal totalitarismo cartografico mi è sembrato un altro modo di «dar credito alla poesia», per usare una formula heaneyana.
Scavare con la penna
Avevo letto Digging, qualche tempo prima, su una rivista. Mi entusiasmava pensare che qualcuno potesse scavare con la penna. Era quello che volevo per me. Capivo che il fatto che quella penna fosse «comoda come una pistola», snug as a gun, era intraducibile, nel suo tessuto fonico. Il gesto però restava: scavare. Fu qui che mi rimase per la prima volta impresso il suono rotondo della parola bog, torbiera. Ma Bogland era di più: era una terra intera, un reame di memoria sotterranea, eppure penetrabile, scavando.
La stessa esperienza che feci leggendo Mossbawn, il primo saggio di Attenzioni. Omphalos. Il suono dell’inizio, della prima parola a cui Heaney ci (e si) metteva davanti. Prima di accedere al senso, l’accesso al suono. Il significante, ancor prima del significato. Dopo tutto, i neuroscienziati e i filosofi della percezione sembrano sempre più certi del dato che la nostra prima sensazione extracorporea in senso stretto, già dall’utero, è quella del suono, dell’essere chiamati. La parola greca, l’ombelico, era la pompa d’acqua del cortile. Un altro centro d’acqua senza fondo, questa volta pompato dalle profondità della terra per essere bevuto, in una sorta di equorea e primigenia comunione.
Lo dice in altro modo, così, in Dalla sensazione alle parole:
La fase cruciale è preverbale, l’essere in grado di lasciare che lo stato di allerta, percepito in modo annebbiato o incompleto, si ampli e accosti come pensiero, o argomento, o espressione.
Forse è nell’allerta che risiede un’altra parte del viaggio comune: il pensare guidando fuori dai centri urbani.
C’è qualcosa, nel paesaggio padano, che mi riporta al Nord insulare. Alcuni verdi e alcuni grigi che mi ricordano la Scozia e l’Irlanda. La nebbia, il sole improvviso, la sensazione perpetua, in inverno, di trovarsi su un terreno precariamente sottratto all’acqua da un tempo profondo, preumano e preverbale. Molto di Verso Fogland è nato da un occhio che viaggia in macchina nell’aperto.
Tornare a casa
In The peninsula, quando le parole finiscono, siamo messi di fronte a questo movimento nel reale, che altro non è se non un ritorno a casa, dopo essersi imbevuti di un paesaggio, senza mai arrivare, ma spostando l’orizzonte. A pensarci bene, un orizzonte non è mai un assoluto, benché cartografia dello sconfinato: dipende sempre da dove ci troviamo. Ghirri, un grande pensatore per immagini che ha molto vissuto l’immersione nei luoghi, in un saggio spiega la sua nostalgia per l’omino sull’orizzonte nelle vecchie cartoline, che dava una misura al paesaggio. Qui la misura diventa l’andare e il tornare (inwards and downwards, all’interno e verso il basso, era il movimento in Bogland).
Lo stesso movimento, in qualche modo, che troviamo anni dopo, per esempio, in Postscript. Trova il tempo, dice il poeta, di guidare verso ovest. Inutile pensare che fermandosi, parcheggiando, si potrà catturare la visione more thoroughly, in maniera esaustiva. L’uomo che guarda, passando, non è né qui né là, ma solo una hurry, una urgenza attraverso cui passano le cose conosciute ed estranee, come se il corpo fosse una nave. La stessa nave, forse, che, in Illuminazioni, VII (Vedere le cose), si trova, la carena sovrastante i monaci di Clonmacnoise in preghiera, impigliata alla balaustra dell’altare. L’uomo che scende a liberarla annegherà, dice la poesia, perché non può sopportare la nostra vita. E allora, in un rovesciamento vertiginoso che tiene insieme acqua e cielo, meraviglia e apparizione, dev’essere aiutato a districare la nave e andarsene, «out of the marvellous as he had known it», uscendo dal meraviglioso come l’aveva conosciuto lui.
Torno a Postscriptum per aprire un’altra porta. Il primo e l’ultimo verso si aprono con and, «e», in spregio alla ferrea regola, in vigore sin dalle elementari, del “mai iniziare una frase con e”. Non è la paratassi, di per sé, ad attirarmi, ma quell’implicito sottinteso che ci sia, prima e dopo il testo, qualcosa di preverbale, vivente, in movimento. Dopotutto, l’orecchio italiano reca incisa nel timpano la traccia della doppia congiunzione dell’Infinito leopardiano: «E sovrumani silenzi, e profondissima quiete» (un tessuto fonico perfetto, e anche qui, dal pozzo dei secoli, un orizzonte, di cui una siepe «il guardo esclude»).
Anche St Kevin and the blackbird (Traversare l’inverno), si apre e chiude con una “e”: E poi c’era san Kevin, e la merla. Questa volta il viaggio è solo inwards, all’interno, per tramite della merla che fa l’uovo nella mano di Kevin, e lo costringe a farsi albero, preghiera nel corpo, a dimenticare sé stesso, a dimenticare addirittura il nome del gesto che compie. Spesso, in nome di quel gesto, mi sono fermata ad ascoltare i merli sotto casa; alcune volte li ho registrati col cellulare, per poi inviarli a un caro amico che vive agli antipodi e che ne ama le voci forse proprio per colpa di quella poesia. Quando quel cellulare mi si ruppe, inabissando con sé immagini e memo vocali senza backup, l’amico mi rimandò indietro, dall’altra parte del mondo, la voce del merlo che gli avevo inviato, come correlato oggettivo. Mi colpì il pensiero del viaggio di questa voce da una immagine a un suono che percorre più miglia di quanto non possano fare i corpi.
Un suono di luce. In Esposizione (da Scuola di canto, in North) Heaney parla di corpi celesti nel cielo di dicembre, parlando di una cometa che si era persa ed era poi visibile al tramonto, e dicendo che desidererebbe un meteorite, piuttosto che una cometa. Scopro che nella primavera del 1969, pochi mesi prima, un grosso meteorite aveva attraversato il cielo del Nord Irlanda creando un boato sonico e rompendosi in un grosso lampo arancione su County Derry. Mi piace pensare che questo fatto, ricordato lungamente nelle cronache del tempo, gli sia rimasto dentro, creandogli per così dire un’allerta immaginifica che l’ha portato a dirsi colui «che, mentre soffia su queste scintille / per il loro povero calore, ha perduto / il portento di una volta nella vita, / la rosa pulsante della cometa». (Chi ha visto come me nel 1997 passare sull’Europa la grande Cometa di Hale-Bopp sa di che parlo). Un grosso pezzo di pietra del meteorite è tuttora conservato all’Armagh Observatory.
Sulla scrivania, davanti a me, ci sono altre pietre. Un occhio fossile che certo era il cuore di un’ammonite. Un frammento di pavimento oceanico tropicale della Lessinia, dove si perdono tante piccole spirali bianche. Una scultura tascabile di Jo Sweeting su pietra del Devon, intitolata Horizon, fatta per essere portata con sé in viaggio. Ancora una volta, la memoria, attraverso la poesia, si fa macchina del tempo. E noi, sulle tracce di Heaney, cerchiamo, come possiamo, di dare credito alla poesia, di tornare cacciatori e raccoglitori di valori. Di vedere, nel buio, la rosa pulsante della cometa.
Riferimenti essenziali
– Seamus Heaney, Attenzioni, trad. M. Bacigalupo, Fazi, Roma 1996.
– Seamus Heaney, Una porta sul buio, trad. R. Mussapi, Tea, Milano 1998.
– Seamus Heaney, Poesie, a cura di M. Sonzogni, Meridiani Mondadori, Milano 2016.
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