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Roald Dahl e i diritti dei bambini lettori

di Giovanna Zoboli

La questione degli interventi operati sui testi di Roald Dahl presenta diversi spunti di riflessione interessanti.

Antefatto: come ha divulgato una inchiesta del “Telegraph” pubblicata giorni fa, dal 2017 la società Roald Dahl Story Company, costituita dagli eredi dello scrittore in partnership con Netflix, gestisce i diritti d’autore di opere, traduzioni, adattamenti cinematografici e televisivi dell’opera dello scrittore. Dal 2021, la società è diventata esclusiva proprietà di Netflix che, quindi, decide della forma in cui viene divulgata l’opera di Roald Dahl. Le edizioni dei romanzi di Dahl, pubblicate di recente dalla casa editrice Puffin, di proprietà di Penguin Random House, sono state oggetto di alcuni rimaneggiamenti, secondo il “Telegraph” centinaia, che hanno comportato modifiche di parole e frasi allo scopo di «andare incontro alla sensibilità contemporanea» e rendere più accettabili i romanzi di Dahl (che pure hanno venduto nel mondo oltre 250 milioni di copie e continuano a venderne a centinaia di migliaia). Tali modifiche sono state operate dalla casa editrice in collaborazione con i sensitivity reader dell’organizzazione Inclusive Minds che si occupa di inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini. 

Nel corso della polemica sorta anche in Italia intorno alla notizia, si è particolarmente insistito sull’eliminazione degli aggettivi grasso e brutto, in quanto utilizzati dallo scrittore in modi potenzialmente offensivi; si è parlato della calvizie a proposito di Le streghe e della misoginia di Dahl; e anche delle letture di Matilde dalle quali sarebbe scomparso Kipling (se siete interessati ad approfondire c’è un articolo su “Il Post” che riporta gli interventi più eclatanti). Lo spettro della cancel culture è stato evocato, ma molti hanno fatto notare che nella letteratura per ragazzi questo tipo di operazioni è sempre avvenuto (quindi, di cosa ci lamentiamo?). E se questo, da una parte, è vero, dall’altra c’è una differenza sostanziale che non può essere ignorata.

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Se i Grimm, per esempio, furono insofferenti verso il perbenismo del pubblico borghese della loro gloriosa raccolta di fiabe che pure li portò a emendare e ad alterare, nel corso di sette edizioni, diversi testi per adattarli a forme di narrazione ritenute più conformi alla sensibilità corrente, chiunque è in grado di capire che questi interventi furono decisi dagli autori stessi. Così come il parallelo con la pratica di ridurre, riscrivere o adattare grandi opere della letteratura per renderle leggibili a un pubblico di lettori inesperti, nel caso di ciò che è stato fatto ai testi Dahl non si applica.

Walt Disney, per esempio, si appropriava di grandi capolavori della letteratura infantile e li manipolava per adattarli alla propria estetica e al gusto del suo pubblico (che era composto più di adulti che di bambini, come lui sapeva benissimo e desiderava): ma lo dichiarava. Non erano più Pinocchio e Biancaneve, quelli che i cartoni animati raccontavano, erano Disney, al punto che oggi milioni di persone sono convinte che le storie originali siano opera del brand. Provate a chiedervi chi sia l’autore di Pocahontas, e vi sarà chiaro di cosa sto parlando. 

È interessante che la questione sorga nell’ambito della letteratura per l’infanzia, dove la qualità autoriale è sempre stata ritenuta secondaria; difatti questa letteratura è considerata di seconda scelta, in quanto al servizio di finalità educative che, per il gusto dei lettori adulti, ne rendono banale lo spirito e la natura. Nessuno oserebbe cambiare intere frasi di Faulkner o di Camus in base alla possibilità che, leggendole, qualcuno possa offendersi. Insomma, l’integrità autoriale, che poi significa rispetto dell’autore, del testo, ma anche del lettore, ha funzionato, finora, da confine non oltrepassabile. Si potrà polemizzare, discutere, opinare (sulla poetica e la scrittura), ma non alterare la verità letteraria e storica del testo, la cui natura potrà risultare sorpassata, ma che deve essere tutelata (nel nome della diversità) e, per essere compresa, contestualizzata, compito educativo, questo sì irrinunciabile. Curioso che i principi dell’inclusione non lo prevedano.

L’operazione di Netflix e di Puffin ha sollevato clamore per una ragione, a mio avviso, molto precisa: non solo assevera un’idea corrente di letteratura per l’infanzia (ma, da oggi, tout court di letteratura) modificabile in base alle culture, opinioni, posizioni ideologiche, politiche e religiose di un ipotetico pubblico, ma asserisce che chi ha licenza di farlo è chi detiene i diritti dell’opera, per esempio una multinazionale dell’intrattenimento. Al di là della questione dell’integrità dell’opera, che è enorme, non si può non essere sfiorati dal sospetto che le decisioni di Netflix possano essere finalizzate soprattutto a tutelare un interesse economico, più che nuove sensibilità.

Lo dico da editore: muoversi nel campo della letteratura per ragazzi impone scelte etiche ed estetiche quotidiane, soprattutto in relazione alla vendibilità dei prodotti. È facilissimo risultare scomodi, non graditi, essere percepiti come difficili, impopolari, incomprensibili. Banalizzare forme e contenuti è una prassi costante in un mercato che porta in palmo di mano i mediatori adulti, le loro esigenze e la loro scarsa conoscenza e attenzione verso i libri per ragazzi, e che tende a considerare i lettori bambini come una lucrosa fascia di consumatori a cui puntare nel modo più facile e sicuro.

Netflix sferra un colpo non da poco a chi – scrittori, illustratori, fumettisti, registi, editori – fa un complesso lavoro di ricerca nel campo della cultura per ragazzi, proponendo testi e immagini che hanno quelle caratteristiche sovversive meravigliosamente messe in luce da Alison Lurie, nella raccolta di saggi Non ditelo ai grandi. Libri per bambini. Tutto ciò che gli adulti (non) devono sapere: opere che portano alla ribalta lo sguardo infantile, il suo punto di vista perfettamente alieno rispetto alla società adulta, contro ogni tipo di conformismo e di stereotipo. Una letteratura che sovverte l’ordine delle cose, profondamente rivoluzionaria e poco addomesticata. 

Credo sia sufficiente rileggere l’incipit di Matilde per rendersi conto di cosa Lurie intenda: «I padri e le madri sono tipi strani: anche se il figlio è il più orribile moccioso che si possa immaginare, sono convinti che si tratti di un bambino stupendo. Niente di male: il mondo è fatto così. Ma quando dei genitori cominciano a spiegarci che il loro orrendo pargolo è un autentico genio, viene proprio da urlare: “Presto, una bacinella, ho una nausea tremenda!”». Suppongo che molti genitori si siano sentiti offesi dalla violenza di questo attacco frontale. 

Se qualcuno di recente ha letto Matilde, cosa che personalmente ho fatto in questa occasione, la prima cosa di cui si rende conto è che le parole incriminate non sono tessere che si possono sostituire senza alterare il senso complessivo del romanzo. Il lessico di Dahl è forte, diretto, acceso, finalizzato alla creazione di personaggi e situazioni che descrivono un precisissimo ordine di relazioni: quelle di potere. Isolarle, tacciarle di razzismo ed espungerle, significa non vederle come parte dell’economia del romanzo. L’enorme signora Spezzindue e la grassa madre di Matilde sono due colossi dominati dall’avidità e dalla stupidità, che con la loro imponenza fisica mettono in scacco la piccolezza e la fragilità dei bambini, una tribù di esseri piccoli e spaventati. È così che i bambini vedono i malvagi e Roald Dahl ce lo ricorda senza incertezze.

Se, infatti, nei romanzi di Dahl esiste una metafora ossessiva è quella del potere, della condizione di chi non ne ha a fronte di un mondo adulto in cui il potere è tutto.

Un punto di vista certamente infantile, selvatico, allucinato, che predilige, come arma di difesa, la caricatura, e dove la deformazione fisica è sempre attributo, non generico, di un mondo adulto violento e incomprensibile. I personaggi malvagissimi di Dahl sono enormi perché torreggiano, godendo del loro potere anche fisico sugli inermi, sono metafore dell’ingiustizia e dell’abuso. I bambini lo sanno leggere, questo. Sono rimasti loro, temo, a distinguere i piani della rappresentazione, della finzione e della realtà, che gli adulti stanno a poco a poco distruggendo, alterando, in una cieca smania di controllo anche della dimensione infantile, tutto ciò che racconta la realtà attraverso gli strumenti della trasfigurazione poetica e letteraria. I bambini sanno leggere e muoversi con destrezza nella dimensione fantastica di racconti, fiabe e romanzi (Sendak lo ricordava e per questo negli Stati Uniti fu sempre considerato con diffidenza); sanno che a parlare è il linguaggio dei simboli che racconta la verità, ma non è mai da interpretare in modo letterale. È attraverso questo che possiamo sperimentare l’alterità che rimuoviamo dalla nostra vita quotidiana e che la finzione pervicacemente ci mostra, permettendoci di avvicinarla alla nostra sfera di esperienza, e di conoscerla. L’arte serve a questo.

In tutta questa polemica su Roald Dahl si è sentito parlare di moltissime cose, sicuramente interessanti per gli adulti che sull’educazione e i suoi contenuti hanno sempre condotto accanite battaglie, ma dei diritti dei bambini come lettori si è sentito parlare pochissimo. Non stupisce.  

«Secondo me la scuola perfetta è quella dove i bambini non ci sono», afferma l’aguzzina Spezzindue, durante una delle sue visite alla classe di Matilde. «Un giorno aprirò un istituto del genere. Penso che avrebbe un grande successo».

Le immagini presenti in questo articolo sono illustrazioni realizzate da Quentin Blake per Matilde.

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