Rebecca libri

Io e noi, Luigi Bettazzi, edizioni la meridiana, 2022

di Luigi Bettazzi

Introduzione

Nel 1995 scrivevo un piccolo libro su La sinistra di Dio. Mentre tentavo di rielaborarlo, tenendo conto dei tanti sviluppi del mondo umano e di quello religioso, mi rendevo conto che quelle riflessioni basate sulla contrapposizione “destra-sinistra”, allora emergente anche sul piano politico, oggi non godevano di alcuna evidenza, e che l’antitesi è piuttosto tra una mentalità incentrata sull’io e una che parte invece dal noi.
Dobbiamo ammettere che il mondo del noi ha un’origine religiosa, un mondo creato da Dio, padre comune di tutti gli esseri umani. Ma la riflessione, pur sostenuta da principi religiosi, ha un suo sviluppo autonomo, tant’è vero che la Carta dei diritti umani dell’ONU, promulgata in USA (a San Francisco) nel 1948, pure occultando le sue radici religiose (qualcuno l’ha definita il vangelo secondo l’ONU), si sviluppa laicamente, cioè si svolge in modo indipendente, tanto che la stragrande maggioranza delle nazioni (salvo alcune arabe, che non volevano accettare l’uguaglianza di diritti tra uomini e donne, e l’Unione sovietica che si astenne) la accettò e la sottoscrisse. Per questo, riflettendo su quella alternativa, parto dalla riflessione puramente umana (“laica”, non “laicista” che escluderebbe poi ogni riflessione di carattere religioso), a cui faccio seguire la considerazione religiosa, soprattutto quella cristiana
.

Io

Sembra che ogni seria riflessione debba partire dall’io, cioè dall’essere pensante che si rende conto che sta riflettendo sulla sua stessa conoscenza come privilegio dell’essere umano, anzi proprio di lui che sta pensando.
L’io, prima ancora, emerge come il bisognoso di aiuto (di mangiare, di muoversi) e di esigenze ulteriori (mangiare dolci, muoversi giocando). Poi si accorge che sta pensando, esprime il suo pensiero con le parole e si rende conto che non se la cava da solo, ma che deve rivolgersi ad altri perché lo aiutino o rispondano ai “perché” che gli nascono spontanei.
Anche i filosofi, nel corso della storia, hanno privilegiato questo inizio della vita del pensiero, allargando l’io dal piano individuale a quello del gruppo (o dei gruppi, di varia dimensione) a cui si appartiene. Tutto il resto è secondario e di carattere inferiore, subordinato al primato del conoscere personale. Storicamente questa concezione ha consolidato il suo primato esclusivo quando Cartesio (Renè Descartes 1596-1650) ha fissato la pienezza della conoscenza nelle “idee chiare e distinte”, come sono prioritariamente quelle di carattere matematico e geometrico, da cui ha origine la scienza, e si sviluppano poi nelle tecnologie. È lì che l’essere umano – l’io – si sente conoscitore e dominatore del mondo, escludendo quanti non hanno le stesse idee e gli stessi interessi, e sono quindi da accantonare. Di qui, in radice, l’origine delle chiusure in sé dei singoli popoli e delle nazioni, con violenze nei confronti degli altri popoli (e talora all’interno di un popolo, delle maggioranze e di piccoli gruppi intorno ad un dittatore), fino alle guerre.
Sembra dunque ovvio che si concluda: prima io con i miei interessi, prima il mio gruppo, i membri della mia nazione o quanti condividono il colore della mia pelle. Il “prima” potrebbe far supporre che c’è un “dopo”, mentre troppo spesso non c’è il dopo, o questo è il “nulla”: quanti non partecipano dell’io non hanno diritto di esistere, o quantomeno dovranno esistere ma subordinati all’io nelle sue varie dimensioni.
Alle volte questo orientamento passa anche alle religioni, identificate come caratteristiche o legami di un popolo; avveniva presso i popoli antichi, di cui ciascuno aveva il suo “Dio”, è avvenuto per il cristianesimo quando, nel 381, Teodosio I lo costituì religione di Stato (è continuato anche in Italia, fino al 1848) e sembra venir considerato in Paesi a maggioranza musulmana, e forse in alcuni Paesi con prevalenza cristiano-ortodossa.
Ho parlato di un io da cui partirebbe ogni ragionamento o pensiero umano. Ma in realtà quando l’essere umano entra nel mondo – il neonato – non ragiona, ma intuisce che si trova in un mondo più grande di lui, un mondo di persone che lo guardano, lo vezzeggiano, hanno cura di lui, il mondo del noi. In questo mondo egli cresce, circondato da noi, mentre emerge anche l’io, nel confronto con quanti non lo vezzeggiano ma in qualche modo lo contrastano. Direi che il momento più evidente di questa scoperta o affermazione dell’io è l’adolescenza, in cui la scoperta sempre più ampia della libertà porta alla distinzione (poi contrapposizione) nei confronti dei genitori, degli insegnanti, ma che include gli amici (o alcuni amici) e soprattutto i mezzi di comunicazione (in primo luogo il cellulare, che, essendo a totale disposizione del singolo e spaziando su tutte le conoscenze possibili, finisce col diventare “la mia ragione”). Ci si dimentica che, per una conoscenza completa della realtà, il mondo della ragione deve rimanere inserito nel mondo più ampio e profondo delle intuizioni.
Pare addirittura che l’uomo al maschile sia più propenso al mondo della ragione (si parla addirittura di conformazione del cervello), mentre la donna sarebbe particolarmente fatta per l’intuizione, che allora l’uomo al maschile deprezza come “sentimento”, anche se è vero che di fronte alla fredda ragione l’intuizione (o intelligenza) coinvolge pur il calore dell’emotività. È perciò che una conoscenza piena ed esaustiva della realtà deve coinvolgere ambedue le dimensioni del pensare, per evitare le durezze della sola ragione o le indeterminatezze della sola intuizione. L’io deve sempre tener conto del noi, da cui è nato e senza del quale è incompleto. Credo che si debba insistere su questa necessaria completezza contro l’arroganza della ragione, che ha creato nella società la prevalenza del maschile.
Questo vale tanto più se consideriamo la politica, la vita della polis o città, la vita sociale. La ragione ha portato i governanti ad assumere la prospettiva offerta alla fine del XVIII secolo dalla rivoluzione francese, che lanciò, come programma della vita sociale, i tre grandi ideali (pur senza riconoscerne la radice cristiana) della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità. Ad essi ci si è ispirati per orientare e valutare la vita della società.
Fu ovvio, per i governanti, esaltare la libertà, senza avvertire che la libertà di chi emerge per le doti culturali o per i beni materiali finisce con avere per antitesi la mancanza di libertà di chi è costretto, per le proprie condizioni di lavoro o di subordinazione, a compiere quanto gli viene imposto, quindi a mancare di libertà. E poiché la normalità degli esseri umani mette al primo posto i propri interessi, chi sa e chi può finisce col garantire la propria libertà con l’attenuazione della libertà degli altri.
Compito della politica dovrebbe essere quello di assicurare la libertà per tutti, di condizionare quindi la libertà di chi sa e di chi può alla libertà di chi sa e può di meno. Sul piano mondiale (ma poi anche all’interno delle singole nazioni) i limiti di una politica ispirata alla libertà ed esplosa nel capitalismo assoluto, mettendo i dipendenti alla mercé di chi gode del capitale, ha provocato la reazione della rivendicazione di una società più equa, del socialismo, sfociato poi nel comunismo, che mira cioè ad una situazione “comune”, all’uguaglianza, al secondo ideale della rivoluzione francese; ma l’ha fatto infine imponendo tale cosiddetta uguaglianza (in realtà rimanevano i privilegi per i capi del comunismo) in modo da togliere la libertà dei singoli. La caduta del dominio comunista in Russia e nei paesi da questa dominati o ispirati, evidenziata dalla caduta del muro di Berlino (che divideva la città in due parti, una comunista ed una liberista), dando in tal modo la vittoria al mondo della libertà, non ha portato all’affermazione del terzo ideale, bensì a un consolidamento del primo, quello della libertà, non più nel modo assoluto, quello antecedente, ma pur sempre in modo parziale, portando le nazioni più ricche ed evolute a consolidare la propria egemonia a spese delle più dipendenti e più povere: nel mondo attuale da una parte ci si può arricchire senza limiti e dall’altra si finisce col diventare sempre più poveri (e più numerosi); e quindi non vi è fraternità, ma nemmeno giustizia. La vocazione della politica sarebbe quella di portare le nazioni ad un rapporto di fraternità, rapporto difficile perché contrasta con la tendenza dei singoli Stati ad assicurare i propri interessi particolari (i populismi vogliono tutelare i singoli popoli al loro interno, non la loro solidarietà all’esterno).
Anche l’ONU, nata per garantire l’uguaglianza di diritti fra le nazioni, non può assolvere il suo compito perché cinque nazioni, vincitrici della seconda guerra mondiale (1939-45, USA, Inghilterra e Francia, Russia e Cina) che sono membri stabili nel Consiglio di sicurezza, si sono riservate il diritto di veto, così che basta essere amico di una di esse per salvaguardare le proprie pretese (lo si è visto, ad esempio con l’USA che ha permesso a Israele di costruire villaggi nei territori palestinesi rendendo praticamente impossibile la creazione di due stati, o la Russia che ha tutelato la politica aggressiva della Siria e oggi di se stessa nei confronti dell’Ucraina).
Penso che sia un dovere di lealtà saper leggere e presentare la verità piena di una realtà nella quale, dietro le evidenze finanziarie che giustificano movimenti politici e guerre, si nascondono retroscena antiumani, presentati come inevitabili conseguenze di politiche che ignorano una verità intuitiva, che cioè ogni essere umano che viene al mondo ha per ciò stesso il diritto di vivere in maniera umana dignitosa, in un mondo che è fatto per tutti. Se nella realtà ci sono divergenze, sorte per la diversità dei territori e delle culture di coloro che le abitano, questo non può giustificare le enormi disparità di chi può sovrabbondare nelle comodità a spese di chi non riesce a sopravvivere. Purtroppo la mentalità comune dà per scontato quanto è stato confezionato da chi ha in mano la gestione della vita dell’umanità e della sua cultura.
Eppure continua ad esserci la tendenza ad una maggiore uguaglianza di partenza e alla fraternità, ispirata spesso da convinzioni religiose, ma operante sul piano civile. Potremmo citare politici come Giorgio La Pira, sindaco illuminato di Firenze, ma anche De Gasperi, con gli altri due co-fondatori dell’Europa, il francese Schuman e il tedesco Adenauer (è singolare che tutti e tre abbiano iniziato la loro vita politica parlando il tedesco, per motivi storico-geografici). Di recente si è ripresentato con Davide Maria Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, alla cui morte tutto il mondo (o quasi) si è commosso, rendendosi conto che si può far politica ispirandosi alla fraternità. È un impegno non facile, ma necessario e perseverante, illuminato dall’intuizione delle esigenze profonde dell’umanità, a cui si dedicano anime nobili e politici illuminati, pur rispettosi della libertà dei singoli, ma capaci di incoraggiare in vista di conclusioni di fraternità e di pace.
Penso che l’ambito di ogni forma di educazione – da quella famigliare a quella scolastica e istituzionale – dovrebbe essere questa onestà di valutazione e di incoraggiamento, nel vaglio delle prospettive e nell’orientamento delle grandi opzioni e della vita quotidiana.

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