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Lunario dei giorni di quiete

di Mariapia Veladiano

Tutti gli anni, tutti, verso Natale a chi lo conosce già viene in mente il Lunario dei giorni di quiete (a cura di Guido Davico Bonino, Einaudi, Torino 1997). Con gratitudine lo si prende in mano e lo si spilucca, come un dolce opulento, di quelli natalizi appunto, a cui attingere per un candito, un pezzetto furtivo di glassa, una montagnola di briciole goduriose accumulate negli angoli.

In realtà è una coltissima raccolta di testi di autori che hanno avuto a cuore il senso delle cose, della vita e soprattutto si sono interrogati su Dio. Pagani e cristiani, più cristiani. Conosciuti e no. Un testo al giorno per 365 giorni. Pochi pochissimi possono sinceramente vantare di conoscerne la maggior parte. La bellezza è proprio la scoperta. Chi è costui? Com’è possibile che non lo si conosca se ha detto e scritto questo? Ma non importa davvero.

Infine è un gioco trovare un testo per ogni giorno dell’anno. E i giochi sono cose serissime. E quale anno, poi? Quello in cui è stata scritta la raccolta oppure quello in cui è stata ripubblicata o infine in cui è stata letta o riletta? Qui si tocca con mano l’assoluto della scrittura, della Parola.

Visto il periodo, partiamo da dicembre. Il 25. Troviamo una poesia deliziosa, profonda, meravigliosamente antiretorica: Il Natale delle zitelle, di Marie Noël, nom de plume di Marie Rouget, poetessa francese morta nel 1967. «Tre zitelle, tre, eccoci arrivate qui,/ portando tre vecchie lampade,/ per adorare il Bambino…/ O Vergine, eccoci qua, le ultime di tutti:/ d’un tal ritardo, eccoci qua, umiliate/ ma il fatto è che gli altri, partendo;/ ci hanno dimenticato./ Tutto il paese in festa, senza di noi,/ a mezzanotte se n’andò (…) Siam noi, Gesù Bambino, siam noi, tre zitelle,/ tre, così povere e brutte,/ che nessuno ha mai voluto prenderci in sposa./ Un marito, passi! È un figlio/ che manca al nostro cuore» (518).

Lo toccheranno infine il piccolo Gesù, lo sfioreranno con la punta delle dita «tiepide», e in questo aggettivo timidissimo sta tutto il fuoco del cuore di tre zitelle senza figli che desiderano il Bambino. 

Ancora a dicembre il Lunario offre una poesia leggerissima di Carlo Betocchi, collocata in un giorno d’inverno forse a Bordighera dove spesso risiedeva. In un momento indefinito, «non alba né tramonto» i suoi pensieri si sono alzati in volo come farfalle, farfalle senza pretese, quelle degli orti, bianche e gialle, e forse il poeta si stava perdendo ma «una tremolante luce/ d’un altro mondo invadeva quella valle/ dove io fuggivo, e con la sua voce eterna/ cantava l’angelo che a Te mi conduce» (500).

Sono molti gli angeli fra queste pagine, ed è ovvio che sia così. Forse meno scontato è trovare tanti… asini. C’è lo straordinario asino pasquale di Chesterton: «Testa mostruosa e voce lacerante/ E orecchie come ali vagabonde;/ Diabolica parodia ambulante/ Di tutti gli animali a quattro zampe./ Miserabile paria della terra (…) Sciocchi! Perché ebbi anch’io la mia ora,/ Un’ora del passato dolce e fiera:/ Clamore intorno alle mie orecchie,/ E palme davanti ai miei piedi!» (136). Splendido.

Come gli asini di Francis Jammes, poeta francese che ritrova Dio dopo anni di lontananza e che scrive una Preghiera per andare in paradiso con gli asini in cui alla fine asini e angeli s’incontrano nel Paradiso di Dio: «Quando tempo sarà di ritornare a Voi, mio Dio (…) Col mio bastone andrò lungo la via maestra/ E agli asini dirò, miei grandi amici:/ Io sono Francis Jammes e vado in Paradiso,/ Che non c’è inferno nel paese di Dio./ Dirò: Del cielo azzurro/ Soavi amici, venite, accompagnatemi,
/ Povere bestie che girando il muso/ O con colpi d’orecchie vi schermite/ Da fruste, e mosche, e api (…) Con questi asini, Dio, fate che a voi ritorni./ E che in pace profonda angeli ci conducano/ Verso ruscelli ombrosi, / e ridano ciliegie/ Più lisce della guancia alle fanciulle,/ Fate che in quel reame delle anime, / Curvo sull’acqua sacra io stia come gli asini/ A contemplare l’umile, la dolce povertà/ Nell’amoroso specchio della vostra eternità» (526s).

Certo ci sono altre immagini del Paradiso, in attesa d’arrivarci, possiamo immaginare sul modello della nostra perfetta felicità. Per Virgilio Schönbeck, poeta dialettale triestino morto alla metà del secolo scorso, il paradiso è più domestico e francamente assai gioioso e godurioso: si sta con la «mia molge giòvine,/ e i mii fioi grandi, e anca, / sì, putei; (…) E stemo insieme; e tuti/ insieme spassegiemo; / e se metemo in tola/ e magnemo e bevemo» (70).

Infine, per l’anno nuovo che ci aspetta, il Lunario offre il dono di una lettera che il bambino Pillus Vogel, di Wuppertal, ha scritto su sollecitazione della maestra.
Un compito per casa, scrivere i desideri per l’anno che viene, è il 1976, e lui ne scrive due. Il primo è un desiderio «contro» e questo gli spiace un poco, ma infine lo formula bello chiaro: è «contro i ricchi, che mi sembra siano davvero i peggiori di tutti noi: tra quelli che ho conosciuto non ce n’è uno che non sia avaro, pigro, superbo: e anche se non ti parlano, senti che sono egoisti lontano un chilometro (…) Io non sono perché debbano essere perseguitati o puniti, sennò che cristiano sarei? Ma mi piacerebbe che il Borgomastro della nostra città (…) gli appioppasse una tassa speciale, solo per loro, con la quale costruire una scuola: sì, la Scuola per la Rieducazione dei Ricchi ad essere più Buoni» (524). L’eterno bisogno di giustizia.

E poi però c’è un secondo desiderio, del quale si vergogna un poco perché è pretenzioso: «Arrivare a veder Nostro Signore Gesù Cristo in faccia» (525).

Pillus Vogel è morto a 19 anni di leucemia. Stringe il cuore. Davvero assai presto doveva avverarsi questo desiderio di ogni cristiano.

Lunario dei giorni di quiete | a cura di Guido Davico Bonino | Einaudi | 1997

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