È vero che il suo primo racconto venne pubblicato sul giornalino della scuola? Che tipo di storia era?
Non era il giornalino della scuola, ma una rivista per le scuole, il cui animatore era il mio professore d’italiano al liceo. Tra l’altro, questo professore, “il” Muggia, è stato tra i primi a credere in me: leggeva tutto quello che scrivevo, compresi i fumetti (disegnavo, anche, allora, ma poi, dato il mio grande amore per il disegno, ho preferito smettere), mi dava dei voti in più proprio per queste cosette extrascolastiche, e in quinta liceo è stato un po’ il regista di uno spettacolino dove più che altro si suonavano e cantavano le mie canzoni (altro mio grande sogno, quello di diventare cantautore, ma purtroppo sono stonaterrimo). E appunto il Muggia ha fatto pubblicare quel racconto, che si intitolava Lettere bianche ed era una storia alla Buzzati. Buzzati è stato il mio primo idolo letterario, e ancora una volta il merito è del Muggia, che ci aveva dato da leggere durante le vacanze Il deserto dei Tartari. Io non avrei mai letto “un italiano”, disprezzavo la narrativa italiana (e in gran parte sono ancora d’accordo con me). Leggevo solo inglesi e americani, soprattutto thriller e fantascienza. È buffo: ora che ci penso non sono cambiato poi molto, e sul mio comodino, tranne rare eccezioni, Grisham si alterna a Perez-Reverte, o a Crichton, o a David Leavitt, o a Stephen King.
Che tipo di studi ha fatto?
Liceo classico e qualche anno di università, Lettere moderne. Ma già lavoravo, intendo pagato, e di studiare non avevo più voglia. Ho dato tre o quattro esami, e ho smesso definitivamente quando sono stato assunto dall’Editoriale Corriere della Sera (non ancora Rizzoli), come redattore al Corriere Ragazzi. Con grande dolore di mia madre, non ho preso mai una laurea. E d’altronde nessuno me l’ha mai chiesta. Voglio dire, nel mio mestiere non contano i titoli accademici, non gliene importa niente a nessuno. In circa trent’anni di lavoro, l’unico che mi ha fatto una domanda del genere è stato lei.
Ci racconta le tappe salienti della sua carriera, dagli esordi al successo?
Professionalmente, ho iniziato con articoletti e cose varie per il Messaggero dei Ragazzi di Padova. Poi c’è stato il Corrierino, con racconti e fumetti. I racconti sono stati poi raccolti in volume, con il titolo I misteri di Mystère, dallo scomparso Editore Bietti, ma da tempo la Mondadori ne ha fatto una nuova edizione, che si vende ancora oggi. Adesso è firmata con il mio nome, mentre allora usavo uno pseudonimo, Francesco Argento (omaggio a Guccini e a Dario). Fin dagli inizi non volevo “espormi”, addirittura non usando il mio vero nome. E poi ci sono stati i fumetti: per un bel po’ ho fatto da “ghost writer” ad Alfredo Castelli, sceneggiando molti episodi degli Aristocratici, poi ho inventato dei personaggi miei, tra cui Altai & Jonson. Nel ’76, se non mi sbaglio, sono stato assunto come redattore al Corrierino. Finanziariamente una catastrofe: da free lance guadagnavo più di seicentomila lire al mese, mentre lì lo stipendio era esattamente la metà, trecento. Comunque c’erano la mutua, la pensione e tutto quel genere di cose che servono a consolare una mamma il cui figlio non ha preso una laurea. Verso la fine degli anni ’70 ho cominciato a collaborare con la Bonelli, scrivendo storie di Zagor e di Mister No. Intanto il Corriere era passato alla Rizzoli e c’era stata la faccenda della Pidue. Non mi andava più di stare in quell’ambiente, e così ho chiesto alla Bonelli se volevano dare rifugio politico a un povero redattore profugo, e nell’81 mi hanno assunto. L’atmosfera era familiare, si lavorava bene, con passione, con amore. Qualche anno più tardi è venuta la Bonelli-Dargaud (ovvero una casa editrice metà italiana e metà francese), e mi hanno detto di fare il direttore. È durata quindici mesi: io e Federico Maggioni come art director abbiamo fatto quella che ritengo ancora una bella rivista, “Pilot”. Finita quell’esperienza, Bonelli e Canzio, proprietario e direttore generale della casa editrice, hanno deciso di tornare a dedicarsi completamente agli albi tradizionali, Tex in testa, e magari di creare qualche serie nuova. Io ho proposto la mia, che si chiamava Dylan Dog e che è stata accettata. Era l’85, un anno dopo usciva il primo numero. Nel frattempo ho fatto un sacco di altre cose, tra cui parecchi romanzi, molti dei quali hanno provocato, quando sono stati pubblicati, un’esplosione di indifferenza totale.
Veramente, Dellamorte Dellamore ha avuto un notevole successo, tanto che ne è stato tratto un film diretto da Michele Soavi. Le è piaciuto?
Moltissimo. Secondo me quel film è un piccolo gioiello di umorismo nero e grottesco. Posso dirlo tranquillamente, dato che io ho solo venduto i diritti e non ho fatto altro. La sceneggiatura era dello stesso Michele Soavi e di Giovanni Romoli. Quando l’ho letta ho telefonato a Michele con grande entusiasmo: era molto meglio del mio libro! In un altro caso, quello di Nero. (con il punto, notare), film diretto da Giancarlo Soldi, ho scritto io la sceneggiatura (che poi ho trasformato in romanzo), e quindi non posso esprimere giudizi.
C’è qualche altro suo libro che vorrebbe vedere trasposto sullo schermo?
Be’, gli ultimi due, Le etichette delle camicie e Non è successo niente mi sembrano adatti sia per il cinema sia per il teatro. Tra l’altro sono anche due romanzi che si distaccano dalle atmosfere cupe di quelli precedenti, e li ho scritti solo con l’intenzione di far ridere. O almeno sorridere.
Sta lavorando a un altro libro, in questo periodo? Ci descrive il suo studio e il modo in cui lavora?
In questo periodo non scrivo neanche le parole incrociate. Ho il cosiddetto blocco dello scrittore, sia per i romanzi sia per i fumetti. Anzi, di libri, dopo il risultato sconfortante di vendite di Non è successo niente, ho giurato di non scriverne più. Anche per i fumetti sono stanco (mi avvio al trentennale), ma in questo caso spero proprio che il blocco passi, prima o poi. Attualmente sono in aspettativa e ricevo gli avvisi dello stipendio con scritto “Netto in busta: zero”… Quanto al mio studio sarà così ancora per poco, perché spero di poter traslocare al più presto. Comunque c’è una grande scrivania con due computer: un Macintosh per il lavoro e un Pc per i videogiochi. Sul Macintosh c’è un dito di polvere.
Tornando ai fumetti, le sue, più che sceneggiature, sono racconti. Come nascono? Le è mai capitato di dover correre al computer per mettersi a scrivere dopo aver visto un film o aver letto un romanzo che l’hanno colpita al punto di darle lo spunto per una storia?
Le domande fatidiche, “Come nascono le tue storie?” o “Da dove prendi le idee?”, sono un incubo per tutti quelli che fanno il mio mestiere, dato che presuppongono un ragionamento del genere: “Voglio fare lo scrittore, quindi adesso cerco le idee”. Invece bisognerebbe ribaltare tutto: a me, fin da bambino, venivano delle idee, e così sono diventato uno scrittore e un fumettaro. Insomma, è proprio perché gli vengono da chissà dove delle idee che un ragazzo, invece di andare a giocare, si mette a scrivere (o a dipingere, o a comporre musica). Molto più tardi si forma il cosiddetto “mestiere”, ovvero la capacità di scrivere anche se di idee ne vengono pochine, e anche la capacità di andarle a cercare. Vedendo appunto un film, o leggendo giornali e libri. Non sono mai corso al computer, ma ho sempre preso appunti di battute e idee da copiare (già, copiare, perché no? Nell’antichità era pratica comune, e poi lo dice anche il grande Totò: “Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile!”).
Quanto tempo impiega, di solito, per scrivere la sceneggiatura di un fumetto? E per un libro?
Se tutto va bene, una storia di Dylan Dog la scrivo in un mese circa (se va male come ora, circa mai). Per i libri il discorso è diverso, ed è impossibile fare una media. In Italia difficilmente scrivere libri può diventare una professione, devi sempre avere un lavoro “vero” (per lo più il giornalista) e dedicarti ai romanzi di sera o addirittura di notte, o nel fine settimana. Io impiego di solito moltissimo tempo, anche parecchi anni, a pensare a un libro, e a raccogliere tutto il materiale. Alla fine la stesura vera e propria dura pochi mesi.
Quali libri e videocassette ci sono sugli scaffali della sua libreria?
Nel mio caso, penso che la domanda dovrebbe essere piuttosto “quanti”. Così a spanne direi ventimila libri e due o tremila cassette. In più, qualche migliaio di Cd e qualche centinaio di Cd Rom. È una specie di mini biblioteca di Babele, dove si trova di tutto, dal giallo Mondadori ai “Buddenbrook”, dai film trash a Kubrick, dalla musica techno a Vivaldi e Bach.
Con quali letture e film è cresciuto? Qual è il libro che le ha fatto più paura?
Dico sempre che a sei anni avevo letto tutto Poe, ma forse esagero un poe (ecco, vede? È nata una battuta! È cretina, ma è una battuta). In realtà fin da bambino mi piacevano le storie che facevano paura, prima le fiabe e poi i romanzi e i racconti. Credo di aver letto pochissimi libri “per ragazzi”, e anche pochissimi “classici” (tipo i grandi romanzi russi). Quanto al libro che mi ha fatto più paura, ricordo che forse non ho mai finito il “Giro di vite” di James: leggevo a letto, la sera, e quel libro mi spaventava sul serio. Come del resto tutte le storie di fantasmi. Quanto ai film, si può dire che io sia nato al cinema: fin dai primi mesi, mia madre, grande appassionata, mi portava sempre al cinema, tenendomi in braccio. Anche qui, si è poi sviluppata una preferenza per l’horror e la fantascienza, ma non saprei citare un solo film che mi abbia terrorizzato, e la lista di tutti i titoli sarebbe troppo lunga.
E nella realtà che cosa le fa paura?
Tutto.
Ci sono elementi o situazioni autobiografiche nelle storie che scrive?
Nei romanzi moltissime, nei fumetti un po’ meno. Comunque trovo necessario che ci siano, nel senso che, in ogni caso, qualunque cosa tu scriva, ci devi mettere un po’ di te stesso, altrimenti sarà una storia senz’anima.
Per lei scrivere è un divertimento?
Lo è stato a lungo, un divertimento, come leggere un libro o vedere un film. Poi ho cominciato a sentire la fatica, e adesso che scrivo da trent’anni è quasi tutta fatica. Ma quasi, appunto: un po’ di divertimento resta, altrimenti smetterei e farei un altro lavoro.
Ha sempre voluto fare lo scrittore o da bambino sognava di fare un altro mestiere?
Da piccolo volevo fare il cowboy. E guarda caso il primo “romanzo” che ho scritto era un western. Ero in prima o seconda media, credo. Sono stato anche un grande appassionato dell’Agente 007, e visto che i romanzi di Ian Fleming li avevo letti tutti, me ne sono scritto uno o due da me. Da ragazzo non avevo dubbi, volevo fare lo scrittore, il fumettaro, il cantautore e il regista. Me ne sono andate bene due su quattro, non mi posso lamentare.
Perché ha scelto il nome Dylan Dog? Si dice che il suo cane si chiami Dylan, che lei ami il poeta Dylan Thomas e che Dylan Dog era il nome provvisorio che dava a tutti i suoi personaggi.
Ho avuto tanti cani e gatti, ma mai nessuno di nome Dylan. Il resto è vero. Dylan viene proprio da Dylan Thomas. Dog, invece, viene dal titolo di un libro di Spillane che non ho mai letto, ho solo visto nella vetrina di una libreria: Dog figlio di. E davvero Dylan Dog era sempre stato il mio “XY”, cioè il nome provvisorio che davo ai miei personaggi (e ne ho le prove: esiste una mia breve storia, disegnata da Lorenzo Mattotti, che si intitola proprio “Dylan Dog”, e che risale alla fine degli anni 70). Il classico nome di cui si dice “per ora chiamiamolo così, dopo lo cambiamo”. Ecco, la differenza tra Dylan e tutti i miei personaggi precedenti è che quella volta il nome non l’abbiamo cambiato.
In Raccontare Dylan Dog di Michele Masiero, lei ha dichiarato: “Dylan Dog è un fumetto ribelle, popolato da mostri, da persone diverse. Perché io sono diverso”. In che senso si sente “diverso”?
Non lo so. Ma tutte le volte che sono andato a Parigi e sono entrato a Notre Dame mi sembrava di essere tornato a casa…
Che consigli darebbe a un giovane che vuole intraprendere la carriera di sceneggiatore di fumetti?
Gli direi che questa non è affatto una carriera, ma una passione che risale all’infanzia, il sogno di un bambino. Se anche per lui è così, benvenuto. Ma non speri di diventare ricco. A parte pochissime eccezioni (come me, che ho avuto una fortuna sfacciata), un fumettaro guadagna mediamente come un impiegato di banca, ma senza pensione né mutua.
Come passa il tempo libero?
Nei modi più diversi e normali: leggendo, guardando film, ascoltando musica. Negli ultimi anni ai divertimenti tradizionali si sono aggiunti i videogiochi, i Cd Rom. È capitato spesso, a me e a mia moglie, di fare le tre o le quattro di notte per cercare di risolvere un enigma, e poi, sfiniti, vagare per Internet in cerca di soluzioni.
Sappiamo che sua moglie è un’appassionata lettrice delle sue storie: le ha mai fatto qualche critica negativa?
Pochissime. Ma dato che le temo molto, ho pensato di premunirmi coinvolgendola nel mio lavoro: ha già collaborato al soggetto di alcune storie, e ha provato com’è difficile lavorare e com’è facile criticare.
Dove ama trascorrere le vacanze?
È strano che lei me lo chieda proprio adesso. Da quando avevo diciotto anni non ero più andato in vacanza, e le estati me le passavo in casa, con l’aria condizionata, a scrivere, a leggere e a fare tutte le cose che facevo normalmente. Quest’anno, invece, per la prima volta vado davvero in vacanza, in campagna, quasi al confine svizzero, in una casa immersa in un grande bosco. Di giorno è stupendo,di notte non lo so. E non lo saprò mai.
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