Amen. Memorie di Isacco
Le notti sono ancora tiepide. Qualche folata leggera del vento dell’Ovest fa stormire appena le frasche del tetto che mi ripara dall’umidità. In cielo ci devono essere stelle a migliaia di migliaia, come la discendenza promessa a mio padre Abramo e a me. Tante stelle come le lucciole a fine maggio, quando al calar della notte il profumo delle erbe quasi stordisce, il sangue scorre più veloce nelle vene e la terra tutta con i suoi abitanti è percorsa da fremiti di desiderio.
Non ci sarà un altro maggio per me, le mie ossa gemono per l’affronto dell’estrema vecchiaia, i miei occhi confondono la luce e le tenebre in un crepuscolo nebbioso, dove persone, oggetti, forme colori e distanze si annullano.
E la notte non porta il ristoro del sonno, ma pensieri, pensieri e ricordi, pensieri e domande che non hanno risposte. Di giorno, qui dal mio letto o dalla panca su cui mi aiutano a sedere, posso seguire i richiami dei servi che si avviano ai campi o agli stazzi, le chiacchiere delle ancelle verso il pozzo, il loro affaccendarsi alle tine dei panni da lavare che poi stendono al sole, mentre le tante voci degli animali salutano la luce ritrovata. Di giorno la mente si distrae e immagina e si perde e ricostruisce il colorato piumaggio di galli e galline, la dolcezza degli occhi degli agnelli, l’andatura fiera e regale delle giovani col capo gravato da fascine, il luccichio delle lame delle falci, le nodosità dei bastoni da pastore. Di giorno posso accarezzare il pelo ruvido di Kelev, il mio vecchio vecchissimo cane, e intrecciare con lui un dialogo fatto di parole e di guaiti, di silenzi e musate sulle gambe, di sospiri e uggiolii. Ma di notte rispetto il suo sonno lungo e tranquillo, perché di notte agli animali è concesso il prezioso dono del riposo.
Agli uomini non sempre. Gli uomini di notte sono spesso inquieti, perché le preoccupazioni, o le incertezze, le ambizioni, i desideri, i rimorsi li tormentano con becchi agguzzi di avvoltoi. Si agitano nei letti, né li consola il fiato dolce delle mogli o delle schiave che giacciono vicino, la freschezza delle loro carni, neppure il liquore dell’uva riesce a placare il loro rovello, e con gli occhi sbarrati nel buio non trovano requie sino al mattino.
Nella vecchiaia estrema come la mia, ci si scopre soli, inermi e nudi in attesa della fine. Non importa quanti siano i figli, i nipoti, i parenti e i servi che ci stanno intorno: certo ci parlano, ci nutrono, ci soccorrono nelle tante gravose incombenze quotidiane, ma la loro presenza non ci rincuora, è come un fuoco lontano senza fiamme e senza calore, un fuoco di terra diventata straniera.
I vecchi come me hanno lasciato via via cadere preoccupazioni e incertezze riguardo al futuro, che sia pure come vorrà essere, perché noi non riusciamo più a indirizzarlo lungo i viottoli delle nostre speranze, non ne abbiamo più la forza, mentre l’autorità che ancora ci viene riconosciuta è solo una finzione priva di potere, un’ombra vana. Ma se il futuro non ci appartiene, il passato ci grava sulle spalle, bussa insistente alla nostra memoria, chiede di essere rievocato a sprazzi, lampi, brevi lacerti che a volte si scontrano tra loro. Rievocato e spesso risofferto, non certo con l’intensità di allora, ma con una specie di malinconia che scava dentro, paziente e instancabile come un tarlo nel legno dolce. E con la malinconia si affaccia il rimpianto o la vergogna per le decisioni sbagliate, per i silenzi colpevoli, per le viltà che non abbiamo mai osato confessare a noi stessi ma che ora ci appaiono con abbacinante chiarezza. Insieme a loro, anche i torti ingiustamente patiti.
«Padrone, l’aria della notte non ti giova» mi sussurra Efer con gentilezza.
«Però è tanto dolce, ed è per questo che voglio restare qui.»
«Se resti, puoi ammalarti.»
«Sono già ammalato, Efer, perché la vecchiaia è una malattia da cui non si può guarire.»
«Sia come vuoi, ma quando la luna sarà alta nel cielo, tornerò per condurti dentro la tenda. O preferisci che rimanga qui accanto a te?»
«Torna più tardi, ora lasciami qui coi miei ricordi.»
Non parlava molto mio padre: le parole degli uomini, disse una volta, hanno più facce, nascondono inganni, hanno sensi volubili e si piegano alle attese di chi le ascolta; quelle di Dio invece no, il Suo sì è sì, il Suo no è no, e i Suoi comandi non si interpretano né si discutono.
In quei tre giorni di viaggio, quei giorni indimenticabili, scolpiti nella mia memoria come in una stele, mio padre fu quasi muto. Camminava assorto, di buon passo, chiuso in sé, e ogni tanto spronava l’asino perché accelerasse, come se avesse una gran fretta di arrivare alla meta. Il suo travaglio l’ho capito dopo e adesso mi accora, ma allora pensavo che qualche momento di sosta avrebbe potuto concederlo a noi e a se stesso, che la fretta imperiosa fosse solo una manifestazione di potere, una specie di voluta arroganza.
Tre giorni che nella memoria si sono dilatati, sono diventati settimane, mesi, anni e hanno gettato un’ombra cupa su tutta la mia vita.
Allora io ero un ragazzo e nel cammino mi svariavo con pensieri da ragazzo, ma quando, giunti in vista del luogo sulla montagna, mio padre congedò i servi e l’asino, mi affardellò della legna per il sacrificio e prese con sé il fuoco e il coltello, il mio cuore cominciò a tremare, e le sue parole di risposta alla mia domanda (Figliuol mio, Iddio se lo provvederà l’agnello per l’olocausto!) per la prima volta mi parvero intrise di doppiezza.
Il pendio era ripido, le mie gambe si erano fatte di pietra, un sudore di paura quasi mi accecava: padre, imploravo in silenzio, dimmi che non è vero quello che temo, sciogli la mia angoscia, tu che mi hai generato non puoi darmi la morte! Ma quelle parole non mi riuscì di articolarle, perché il terrore si scontrava con l’incredulità, e il rispetto mi faceva groppo in gola.
Continuai a restare murato nel silenzio, e quando lui, dopo avermi legato e posto sull’altare che aveva eretto, impugnò il coltello per scannarmi, qualcosa di me morì, la ferita da cui avrebbe dovuto sgorgare il mio sangue non si rimarginò mai e il suo pus infetto si è trasformato in domande senza risposta, domande che hanno avvelenato la mia vita e avvelenano questa vigilia di morte.
Abramo, padre mio, quanto mi amavi? Non abbastanza per implorare da Dio una prova più mite?
E tu, Signore mio, che il Tuo nome sia sempre benedetto, perché ci hai creati a Tua immagine e somiglianza, ma non ci hai concesso di capirTi?
Testi biblici di riferimento: Genesi 25,29-34; 26,6-11; 27,1-33.
La parola del biblista: estratto dall’introduzione firmata da don Gian Luca Carrega
Uno che porta il nome di “Risata” dovrebbe aspettarselo che la sua vita sarà per buona parte lacrime e sangue. Isacco appartiene a buon diritto alla categoria dei figli desiderati, nato quando suo padre aveva varcato il secolo di età e sua madre aveva appena dieci anni di meno. Chi porta il peso dell’eredità deve fare i conti con tutto quello che essa comporta. La nascita di Isacco è gioia per Abramo e Sara, molto meno per la schiava Agar. In tempi in cui le tecniche di fecondazione artificiale erano ancora di là da venire, il rimedio più pratico per la mancanza di prole del capofamiglia era la maternità surrogata, affidando alla servitù il compito di mettere al mondo un erede che sarebbe stato ufficialmente riconosciuto. Ma le cose nella realtà sono sempre più complicate di come si possono immaginare astrattamente. Se un destino beffardo o la Provvidenza aprono il grembo della moglie del padrone, cosa ne sarà dell’erede vicario? Per il buon Ismaele, fratellastro di Isacco e di lui poco più anziano, c’è poco da ridere: la gelosia di Sara, madre iperprotettiva, richiede l’allontanamento dall’accampamento di lui e di sua madre. Nella mente di Sara, Isacco deve crescere tranquillo, senza la minaccia di un fratello che un giorno, chi sa mai, potrebbe pensare di soppiantarlo e magari approfittare di una maggiore prestanza fisica per sopprimerlo. Caino e Abele erano un precedente pericoloso. Meglio non correre rischi, meglio mettere una distanza tra i due, così che l’avvenire di Isacco possa procedere sicuro senza ombra alcuna sul suo cammino. E non immagina, la poveretta, che ben altre nubi incombono sul destino di quel ragazzo e che il Signore possa apparire al suo sposo chiedendogli di sacrificare in olocausto quel figlio desiderato su un monte che gli avrebbe indicato. E Abramo, come sempre, obbedisce. Partono in quattro, Abramo, Isacco e due servi. Poi l’ultimo tratto la fanno insieme soltanto padre e figlio. Cosa pensa il padre, cosa pensa il figlio, la Scrittura non lo dice. Solo un breve dialogo in cui Isacco appare preoccupato non vedendo la materia prima per il sacrificio e il padre lo rassicura. Ha intuito? Pensa di scappare? I bambini sanno bene quando non è più il caso di fare domande. Si fida di suo padre, come suo padre si fida del Signore. Paul Beauchamp commenta magistralmente questo episodio: “Tutti e due superano la paura di essere ingannati, il primo dal suo Dio, il secondo da suo padre”. Quando esci illeso da una situazione come quella, c’è ancora qualcosa che ti può spaventare?
Le immagini che corredano gli articoli del Pensare i/n Libri sono immagini già pubblicate su internet. Qualora si riscontrasse l'utilizzo di immagini protette da copyright o aventi diritti di proprietà vi invitiamo a comunicarlo a info@rebeccalibri.it, provvederemo immediatamente alla rimozione.