Nel saggio intitolato Writing short story, Flannery O’Connor scrive: «Forse la questione fondamentale da prendere in considerazione in ogni discorso riguardante il racconto breve è cosa intendiamo con l’espressione “breve”. “Breve” non significa “insignificante”, “esile”. Un racconto breve deve essere lungo in profondità e deve farci misurare con un senso». E in quello stesso saggio la O’Connor fa due altre considerazioni che hanno molto a che vedere con il modo in cui Hemingway ha narrato la vicenda apparentemente minima di Colline come elefanti bianchi. «Per uno scrittore d’invenzione – scrive la O’Connor – il giudizio comincia con i dettagli che coglie e con il modo in cui li coglie». E aggiunge: «Nelle opere di finzione due più due fa sempre più di quattro».
Accostarsi a un racconto criptico e minimale come Colline come elefanti bianchi senza tener presente questo genere di considerazioni può lasciarci delusi o farci provare la sensazione frustrante di esser come rimasti dietro a una porta che non siamo riusciti ad aprire o su una soglia che non siamo stati in grado di attraversare.
Personalmente mi ci sono volute diverse riletture per trovare quella che mi sembra la chiave di accesso a questo racconto «lungo in profondità» di cui intuivo la bellezza, la misura, la maestria, ma il cui senso a lungo ho sentito sfuggente. E questo perché Colline come elefanti bianchi è probabilmente il racconto in cui più di ogni altro Hemingway ha lavorato secondo quello che lui stesso definisce «il principio dell’iceberg». «I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi, – dice in un’intervista a George Plimpton. – Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre solido. L’importante è quel che non si vede».
Dell’origine di Colline come elefanti bianchi Hemingway, proprio in quella stessa intervista a George Plimpton, dice poche parole. «A Prunier, dov’ero andato a mangiare le ostriche prima di pranzo, ho incontrato una ragazza che sapevo aveva abortito. Mi sono avvicinato e abbiamo cominciato a parlare, certo non di quello che era successo, ma poi, tornando, pensavo alla sua storia, e quando sono arrivato a casa ho saltato il pranzo e ho lavorato tutto il pomeriggio».
Per scrittori come Hemingway, «lavorare» a una storia significa assumere una postura che l’autore stesso definisce in questi termini: «Con quel che ci è accaduto, quel che succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva, e il risultato è buono, diventa immortale».
Di quell’incontro a Prunier tra Hemingway e la ragazza, in Colline come elefanti bianchi, rimane pochissimo. E, in generale, il racconto stesso sembra fatto di pochissimo, come accade e più di quanto accada in certi racconti minimalisti di Carver. Pochissimi elementi descrittivi, pochissime didascalie, pochissime parole tutt’altro che esplicite, anzi spesso allusive, pochissimo tempo narrativo. Ma è proprio nella natura di quell’esiguità ed essenzialità che è innestato «il seme in cui dorme – per dirla con lo scrittore argentino Julio Cortázar – l’albero gigantesco», quel seme che rende memorabile questo racconto.
L’unica cosa da fare, dunque, per chi voglia intravedere quell’albero gigantesco, è mettersi in ascolto di ogni dettaglio e sussulto narrativo per coglierne le radici profonde.
Le colline che attraversano la valle dell’Ebro erano lunghe e bianche. Di qua non c’era ombra né alberi, e la stazione era tra due file di binari sotto il sole. Contro il fianco della stazione c’era l’ombra calda dell’edificio e una tenda, fatta di filze di tubetti di bambù, appesa davanti alla porta aperta del bar, per tener fuori le mosche. L’americano e la ragazza che era con lui sedevano a un tavolo all’ombra, fuori dall’edificio. Faceva molto caldo e il direttissimo da Barcellona doveva arrivare di lì a quaranta minuti. Si fermava due minuti in quella stazione e proseguiva per Madrid.
Il racconto comincia con la descrizione puntuale per quanto essenziale di un luogo.
La voce narrante è atona, come se a narrare fosse una voce disincarnata che ha piuttosto la qualità di uno sguardo, di una macchina da presa, ecco. La scena è dunque come ripresa da una distanza fissa che permette di vedere l’insieme e di sentire con chiarezza il dialogo tra i due personaggi.
Il luogo in cui si svolge il dialogo non è un posto qualunque. È una stazione, con tutte le allusioni alla dimensione del viaggio, e di un viaggio imminente, che un’ambientazione del genere implica. Anche il paesaggio ha dei tratti precisi, ineludibili: in lontananza si staglia il profilo delle colline «lunghe e bianche» e in un imprecisato «di qua», che coincide con i binari e l’edificio della stazione, c’è una zona su cui picchia inesorabile il sole. L’americano e la ragazza sono «di qua» rispetto alle colline e si trovano proprio tra quei binari che segnano una cesura netta nel paesaggio. Non sono «sotto il sole» come i binari, ma in una zona d’ombra precaria.
Con pochissimi tratti il narratore istituisce dunque una geografia esatta che allude al viaggio (il treno in arrivo), a una cesura in un paesaggio assolato (i binari sotto il sole) e a una lontananza fatta di colline morbide, eteree, di un bianco intatto. È in questo contesto che accade il dialogo tra i due. Un dialogo che comincia in modo evasivo, ordinario.
«Cosa prendiamo?» chiese la ragazza. Si era tolta il cappello e lo aveva messo sul tavolo.
«Fa piuttosto caldo» disse l’uomo. «Beviamo una birra».
«Dos cervezas», disse l’uomo verso la tenda.
«Grandi?» chiese una donna dalla soglia. «Sì. Due grandi».
La donna portò due bicchieri di birra e due sottocoppe di feltro. Mise sul tavolo le sottocoppe di feltro e i bicchieri di birra e guardò l’uomo e la ragazza. La ragazza stava guardando verso la fila lontana di colline. Sotto il sole erano bianche, e i campi erano bruni e riarsi.
«Sembrano elefanti bianchi», disse.
«Non ne ho mai visto uno», disse l’uomo bevendo la sua birra.
«No, non potresti averlo fatto».
«Potrei sì», disse l’uomo. «Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla».
La ragazza guardò la tenda di bambù. «Ci hanno dipinto qualcosa sopra», disse. «Cosa dice?»
«Anis del Toro. È una bibita».
«Perché non l’assaggiamo?»
L’uomo gridò: «Senta» attraverso la tenda.
La donna uscì dal bar. «Quattro reales».
«Vogliamo due Anis del Toro».
«Con acqua?»
«Lo vuoi con l’acqua?»
«Non so», disse la ragazza. «È buono con l’acqua?»
«Buonissimo».
«Li volete con l’acqua?» chiese la donna.
«Sì, con l’acqua».
Dei due personaggi non si sa nulla, né si potrebbe, vista la scelta fatta dal narratore di assumere appunto la postura di uno sguardo fisso e tutto oggettivo su una situazione, ma il modo stesso in cui vengono nominati i due interlocutori ci dice qualcosa di rilevante per la storia che Hemingway ci sta raccontando, suggerisce intanto una differenza d’età, che ha un che di esemplare, come sembra alludere l’uso dell’articolo determinativo (anche nell’originale americano). Fin dalle prime battute, poi, si suggerisce qualcosa riguardo al loro rapporto. La ragazza ha modi interlocutori, chiede conferma all’uomo anche sulle più piccole decisioni, mentre l’uomo ha modi asseverativi, come chi sa, chi conosce le cose perché ha esperienza. Tanto più che, a differenza della ragazza, padroneggia anche lo spagnolo e può interloquire con la donna che serve ai tavoli. Così quell’espressione, «l’americano», scelta dall’autore per nominarlo, dice qualcosa che ha anche a che vedere con un modo familiare spiccio di muoversi nel mondo e di mettersi in relazione con esso.
Già in queste prime battute affiora però anche qualcos’altro che rende più complessa la natura della distanza tra i due. La ragazza guarda in lontananza verso le colline in fondo. Tra lei e le colline ci sono quei campi «bruni e riarsi». L’uomo si limita invece a bere la sua birra. Non allunga lo sguardo verso quella lontananza quando lei gli dice che le colline «sembrano elefanti bianchi». Allo sguardo fantasioso, forse ingenuo, o comunque trasfigurante di lei risponde risoluto con una battuta tutta permeata di un principio di realtà che si fa forte dell’esperienza appunto, della vita vissuta: «Non ne ho mai visto uno». Ed è proprio sulla qualità di quell’esperienza che considera le cose così come sono che affiora la tensione tra i due, quando la ragazza dice: «No, non potresti averlo fatto», e non lo dice con modi interlocutori, come accade per il resto, lo dice con inaspettata determinazione e con una punta di ostilità, o forse di sarcasmo. Anche in questo caso l’uomo, un po’ irritato, risponde evocando il principio di realtà («Potrei sì»), alludendo alla portata delle sue esperienze e all’autorevolezza che ne deriva («Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla»).
«Sa di liquirizia», disse la ragazza, e depose il bicchiere.
«È così per tutto».
«Sì», disse la ragazza. «Tutto sa di liquirizia. Tutte le cose, in particolare, che si sono aspettate tanto. Come l’assenzio».
«Oh, smettila.»
«Hai cominciato tu», disse la ragazza. «lo mi divertivo. Me la spassavo».
«Be’, cerchiamo di spassarcela».
«Ci stavo provando. Dicevo che i monti sembravano elefanti bianchi. Non è stata un’osservazione intelligente?»
«È stata un’osservazione intelligente».
«Volevo assaggiare questa nuova bibita. È tutto quello che facciamo, no? Guardare cose e assaggiare nuove bibite».
«Credo di sì».
La ragazza guardò le colline.
«Sono belle», disse. «Veramente non sembrano elefanti bianchi. Alludevo solo al colore della pelle tra gli alberi».
«Un altro bicchiere?»
«D’accordo».
Potrebbe leggersi come una battuta ovvia, una semplice constatazione di un dato di fatto, la considerazione della ragazza sul sapore di liquirizia dell’Anis del toro, e così deve sembrare anche all’uomo quando anche lui allude al fatto che tutto sa di qualcosa. Bastano poche altre battute però per intuire che la ragazza sta parlando di qualcos’altro che le sta molto a cuore. Non lo dice in modo esplicito, ma per passaggi allusivi che man mano amplificano il senso di quella battuta iniziale mettendo in relazione cose che per lei, non per l’uomo, hanno una risonanza interiore fortissima: la liquirizia; tutte le cose che si sono aspettate tanto; l’assenzio; e infine quelle colline che sembrano elefanti bianchi.
Se la liquirizia evoca un orizzonte che ha a che vedere con l’infanzia, l’assenzio allude invece a un mondo adulto, fatto di quelle cose proibite (nei primi del ‘900 l’assenzio fu tra le bevande alcoliche proibite per legge) che «si sono aspettate tanto». È come se la ragazza insomma si ponesse su una soglia dove in lontananza c’è la liquirizia, un modo di aderire alla vita pieno di aspettative, soprattutto nei confronti del mondo adulto (il mondo «di qua») visto con gli occhi di chi si protende verso di esso e lo immagina come un frutto proibito, pieno di sensualità, di esperienze che allargano gli orizzonti stessi della vita. È questo sentimento che sembra essersi improvvisamente spezzato adesso che tra lei e quel mondo di là ci sono quei campi riarsi e quei binari. «Io mi divertivo, me la spassavo» commenta, evocando con quell’imperfetto l’idea che qualcosa si è rotto.
Non si dice ancora nulla di che cosa abbia determinato quest’intima amarezza che non rende più possibile spassarsela.
Di tutto questo all’uomo arriva solo il senso letterale delle parole. Per lui «spassarcela» vuol dire fare quello che probabilmente hanno fatto finora «guardare cose e assaggiare nuove bibite», fare esperienze in giro per il mondo. Non sente l’ironia amara sottesa nella battuta «È tutto quello che facciamo, no?», né coglie il significato, certo non immediato, di una considerazione che suona assurda se intesa nella sua letteralità: «Ci stavo provando. Dicevo che i monti sembravano elefanti bianchi. Non è stata un’osservazione intelligente?»
Adesso che è lì dunque, in attesa del treno in arrivo, all’ombra precaria di un paesaggio brullo, dove in lontananza si allungano quelle colline bianche ed eteree da cui la divide inesorabilmente la cesura dei binari, per la ragazza «spassarsela» ha assunto un significato che investe il sentimento stesso della vita e che affonda la sua dimensione in quel tempo in cui poteva ancora trasfigurare le cose e aderirvi piena di aspettative. È quel sentimento che adesso sta cercando di rievocare nella sua integrità e felicità.
Su questo chiede il consenso dell’uomo, tradendo tutta la sua fragilità e ricevendo in cambio solo un paternalistico e distratto assenso («È stata una battuta intelligente»), che non muta neanche quando lei cerca di rendere condivisibile, «sperimentabile» quella sua immagine iniziale («veramente non sembrano elefanti bianchi. Alludevo solo al colore della pelle tra gli alberi»), senza di fatto riuscirci, anzi rendendo ancora più incongrua (e forse anche più malinconica) l’immagine.
Il vento caldo spinse contro il tavolo la tenda di bambù.
«La birra è bella fresca», disse l’uomo.
«Deliziosa» disse la ragazza.
«È davvero un’operazione semplicissima, Jig», disse l’uomo. «Veramente non la si può neanche chiamare un’operazione».
La ragazza guardò il terreno sul quale poggiavano le gambe del tavolo.
«So che non ci faresti neanche caso, Jig. È una cosa da nulla, veramente. Serve solo a far passare l’aria».
La ragazza non disse niente.
«Verrò con te e starò sempre con te. Fanno solo entrare l’aria e poi è tutto perfettamente naturale».
«E cosa faremo, dopo?»
«Staremo benissimo, dopo. Come stavamo prima».
«Cosa te lo fa credere?»
«È l’unica cosa che ci preoccupa. È l’unica cosa che ci ha reso infelici».
La ragazza guardò la tenda di bambù, tese la mano e s’impadronì di due filze di tubetti.
«E tu pensi che dopo staremo bene e saremo felici?»
«Lo so. Non devi aver paura. Conosco un sacco di gente che l’ha fatto».
«Anch’io», disse la ragazza. «E dopo erano tutte così felici!»
«Be’», disse l’uomo, «se non vuoi, nessuno ti obbliga. Non vorrei che lo facessi, se non vuoi. Ma so che è semplicissimo».
«E tu lo vuoi davvero?»
«Credo che sia la cosa migliore. Ma non voglio che tu lo faccia, se davvero non vuoi».
«E se lo faccio tu sarai felice e le cose torneranno come prima e tu mi vorrai bene?»
«Ti voglio bene anche adesso. Lo sai che ti voglio bene».
«Lo so. Ma se lo faccio, poi sarà di nuovo bello se dico che le cose sono come elefanti bianchi, e ti farà piacere?»
«Mi farà molto piacere. Anche adesso mi fa piacere, ma non riesco a pensarci, tutto qui. Sai come divento quando sono preoccupato».
«Se lo faccio, non sarai più preoccupato?»
«Non sarò preoccupato per questo perché è una cosa semplicissima».
«Allora lo farò. Perché di me non m’importa nulla».
«Come sarebbe?»
«Di me non m’importa nulla».
«Be’, importa a me».
«Oh, sì. Ma a me no. E lo farò e poi tutto andrà bene».
È con uno scatto narrativo inaspettato che, per la prima volta nel racconto, si allude all’evento che ha portato quest’uomo e questa ragazza, Jig, a fermarsi in quella stazione per attendere quel treno diretto verso una destinazione che avrà ricadute sull’esistenza di lei sicuramente, e su quel loro modo di stare insieme.
È l’uomo che prende l’argomento senza mai chiamare con il proprio nome quella che definisce «un’operazione semplicissima». Si capisce benissimo però di cosa parlano e anche i protagonisti non si nascondono reciprocamente la natura dell’intervento, né eludono la verità come accade ad esempio ai personaggi dei racconti di Carver, che dissimulano sempre il disagio, sfuggendo puntualmente il confronto con se stessi e con gli altri.
Se si legge con attenzione il dialogo, ci si accorge che a parlare dell’intervento che dovrà subire la ragazza è l’uomo. Ne parla in modo circostanziato con quel pragmatismo che lo caratterizza («So che non ci faresti neanche caso, Jig. È una cosa da nulla, veramente. Serve solo a far passare l’aria»), con la sicurezza di chi ha sufficiente esperienza per prendere la parola e dire la sua: un’esperienza indiretta, in questo caso, certo («conosco un sacco di gente che l’ha fatto»), ma pur sempre esperienza. Il suo, d’altro canto, è sempre un sapere che si fa forte della maturità propria di chi ha vissuto abbastanza. Soltanto per un momento la ragazza gli ribatte con un sarcasmo amarissimo «Anch’io. E dopo erano tutte così felici». Per il resto, le sue battute, sempre interlocutorie, sempre poste a mo’ di domande che attendono risposte dall’uomo maturo che conosce la vita, vertono ossessivamente su un altro ordine di cose che hanno a che vedere con un «prima» e con un «dopo» («E cosa faremo, dopo?», «E tu pensi che dopo staremo bene e saremo felici?», «E se lo faccio tu sarai felice e le cose torneranno come prima e tu mi vorrai bene?»…)
La tensione che serpeggia non è dovuta dunque a un non-detto che pesa sulla relazione tra i due, né è dovuta a un affetto venuto meno. Quel che compromette la comprensione tra di loro è piuttosto il modo in cui ciascuno dei protagonisti vive e percepisce la portata di quell’evento, il rilievo che ciascuno dà a quell’operazione e alle conseguenze che ne derivano.
«È l’unica cosa che ci preoccupa. È l’unica cosa che ci ha reso infelici», dice infatti l’uomo a un certo punto. Per lui quell’operazione è «una cosa semplicissima», un evento circostanziato, episodico, un incidente di percorso che, una volta rimosso, non lascerà traccia. Non contempla nemmeno l’idea che si possa pensare a quella circostanza in termini di un «prima» e di un «dopo». Per lui esiste solo il tempo che sta vivendo insieme a lei, quella maturità in cui nessuno può impedire loro di continuare a godere dei piaceri della vita, vedere e fare esperienza delle cose. Per questo probabilmente risponde con paterna condiscendenza quando lei dice: «Ma se lo faccio, poi sarà di nuovo bello se dico che le cose sono come elefanti bianchi, e ti farà piacere?». Non intuisce minimamente a cosa alluda la domanda della ragazza che potrebbe sembrare bizzarra, la manifestazione di un’ostinazione infantile, se non fosse che sta proprio in quelle parole il dubbio che arrovella Jig.
Quell’operazione «semplicissima», quel fuori programma che preoccupa l’uomo segnerà una frattura insanabile tra un tempo in cui lei si poteva ancora permettere di trasfigurare le cose, di aderire piena di aspettative alla vita e un altro tempo in cui non potrà che fare i conti con il principio di realtà di cui sono permeate le parole dell’uomo? È questo che Jig vorrebbe capire. Ciò che la sconcerta è il modo in cui adesso le si profila la vita adulta oltre quella soglia che dovrà attraversare. È il sentore della fine di quel suo personalissimo modo immaginoso di stare al mondo, è il sospetto di poter perdere irrimediabilmente quel sentimento della vita e con esso un pezzo di sé che la porta a pronunciare parole dure e tassative: «Allora lo farò. Perché di me non m’importa più nulla», amarissime. Il fatto che l’uomo non la costringa a compiere quel gesto ma cerchi piuttosto di farla ragionare sull’opportunità della scelta, facendo ricorso a quella sua saggezza adulta, rende ancora più definitiva quell’improvvisa consapevolezza che ancora non trova le parole esatte per esprimersi.
La ragazza si alzò in piedi e camminò fino in fondo alla stazione. Dall’altra parte, di là dai binari, c’erano dei campi di grano e degli alberi sulle rive dell’Ebro. Lontano, oltre il fiume, c’erano delle montagne. L’ombra di una nuvola passava sul campo di grano e tra gli alberi si vedeva il fiume.
Ancora una volta lo sguardo disincarnato, oggettivo del narratore ritorna sul paesaggio, anzi, su un altro spaccato di paesaggio, ma il modo in cui ne restituisce l’immagine suggerisce una cesura ancora più profonda tra il mondo «di là dai binari», il mondo delle colline, e la stazione, la soglia dove si trova la ragazza.
L’attenzione non è più rivolta verso le colline «lunghe e bianche», ma verso le montagne sull’altro lato: montagne lontane come un miraggio, oltre i campi di grano, gli alberi e il fiume. Il fatto che nessun aspetto di questo paesaggio sia qualificato in alcun modo dice qualcosa che va ben al di là del dato descrittivo. Il linguaggio così referenziale, che non si concede nemmeno la risonanza di un aggettivo qualificativo suona come un’allusione a una condizione interiore di disincanto. Quella lontananza delle montagne spinta così in là sembra suggerire non un semplice dato topografico ma una distanza incolmabile, definitiva, rispetto a un tempo della vita, il tempo in cui delle colline potevano immaginarsi come elefanti bianchi in uno slancio affettivo, spensierato, forse ingenuo, ma attraversato da un’intima integrità interiore. C’è come una proiezione della vita che attende la ragazza in quel modo di percepire il paesaggio. L’intera geografia insomma ha l’aspetto di una geografia interiore su cui domina quell’ombra malinconica di una nuvola.
«E potremmo avere tutto questo», disse la ragazza. «E potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo più impossibile».
«Che hai detto?»
«Ho detto che potremmo avere tutto».
«Possiamo avere tutto».
«No che non possiamo».
«Possiamo avere il mondo intero».
«No che non possiamo».
«Possiamo andare dappertutto».
«No che non possiamo. Non è più nostro».
« È nostro».
«No, non lo è. E quando te l’hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più».
«Ma non ce l’hanno portato via».
«Aspettiamo e vedremo».
«Vieni all’ombra», disse lui. «Non devi sentirti così».
«Non mi sento in nessun modo», disse la ragazza. «So come stanno le cose, tutto qui».
«Non voglio che tu faccia nulla che tu non voglia fare…»
«E che non mi faccia bene», disse lei. «Lo so. Non potremmo ordinare un’altra birra?»
«Certo. Ma tu devi capire … »
«Capisco. Non potremmo stare zitti per un po’?»
È questo forse uno dei dialoghi più drammatici che personalmente abbia mai letto. Adesso i rapporti di forza tra l’uomo e la ragazza si sono completamente capovolti. Jig ha perduto quei suoi modi interlocutori, incerti, propri di chi si apre per la prima volta al mondo adulto e cerca conferme da chi ha esperienza. Non c’è più traccia della dipendenza psicologica con cui è iniziato il dialogo. Il suo tono è fermo, asseverativo. Le sue parole suonano eccessive, spiazzanti, incomprensibile per l’uomo che si ostina a farla ragionare sull’evidenza delle cose: il mondo è lì, davanti a loro, basta andare e prendersi quel che si desidera, continuando a fare quel che hanno fatto fino a quel momento. Non intuisce nemmeno quello di cui sta parlando la ragazza. Sembra un dialogo tra sordi, destinato a una disperante incomprensione.
Tutte le volte che lo rileggo mi viene in mente il canto XIII dell’inferno, il girone dei suicidi dove Dante incontra Pier Delle Vigne con quell’aberrante incipit dominato dalla ostinata negazione della vita («Non fronda verde, ma di color fosco/ non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti/ non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco»). È un paesaggio interiore desolato quello da cui emergono le parole di Jig con quel loro ossessivo ripetere l’impossibilità di aderire pienamente alla vita. Il mondo è lì certo ma è lei che non è più in grado di prenderselo. E lo dice con una lucidità e determinazione schiaccianti.
A questo punto del racconto però la ragazza aggiunge qualcosa riguardo al «mondo» che amplifica vertiginosamente il senso delle sue parole: «E quando te l’hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più». Esprime questo concetto in una forma impersonale, che nell’originale suona ancora più evidente unita com’è all’uso di un tempo presente che suggerisce una durata indefinita, un dato di fatto che non ha nulla a che vedere con la contingenza di un accadimento. È come se Jig dicesse insomma: «nella vita c’è un momento in cui accade esattamente quel che sta accadendo a me, ti portano via quel modo immaginoso e pieno di aspettative con cui si guarda dalla soglia dell’adolescenza il mondo, e con esso ti portano via il mondo intero». Per questo alla goffa risposta dell’uomo: «Ma non ce l’hanno portato via», lei risponde «Aspettiamo e vedremo».
Jig ora non ha più nulla della ragazzina fragile e insicura dell’inizio, è un personaggio titanico che sta fronteggiando una verità inesorabile, che non riguarda solo lei e la sua contingenza. E compie questa agnizione sotto quel sole che rende il paesaggio intorno riarso («”Vieni all’ombra”, disse lui»).
Se quell’uomo e quella ragazza non si intendono, se il dialogo si fa sempre più disperato è proprio perché l’uomo è come inchiodato a ragionare su un fatto contingente: l’operazione, il senso di frustrazione e malessere che ne deriva. E infatti non fa che ritornare come un disco rotto su frasi che tradiscono un’incapacità di cogliere la dimensione allusiva, analogica delle considerazioni di lei: «Non devi sentirti così»; «Non voglio che tu faccia nulla che tu non voglia fare…», mentre Jig ha appena compreso qualcosa di gigantesco, e cioè come va la vita: «So come stanno le cose, tutto qui».
Adesso è lei a prendersi gioco delle banalità piene di buon senso con cui l’uomo cerca di rassicurarla («Non voglio che tu faccia nulla che tu non voglia fare…» «E che non mi faccia bene», disse lei. «Lo so. Non potremmo ordinare un’altra birra?»).
A questo punto, nella storia, s’insinua ancora un altro motivo affidato a un paio di battute spietate: «Certo. Ma tu devi capire…» «Capisco. Non potremmo stare zitti per un po’?»
Il livello di incomunicabilità tra quelli che ormai si profilano come due universi, due modi incompatibili di stare al mondo raggiunge il culmine proprio nella portata diversa che ha per l’uomo e per la ragazza quella stessa espressione che ha a che vedere con la dimensione del «capire». Da una parte c’è quel «dover capire» cui l’uomo vorrebbe portare la ragazza, un capire piccino, occasionale, dall’altra c’è la comprensione di una verità che investe il significato stesso della vita e che nessuna parola può mitigare. Da lì, quel tono accondiscendente, liquidatorio di Jig sugellato dalla richiesta di far silenzio.
Si sedettero al tavolo e la ragazza guardò verso la collina dalla parte riarsa della valle e l’uomo guardava lei e il tavolo.
La distanza abissale che ormai separa l’uomo e la ragazza è resa ancora più evidente con pochissimi tratti descrittivi. Per l’ultima volta Jig volge lo sguardo verso le colline, che sono colline e basta, come in un estremo congedo forse. Quel che è certo invece è come l’uomo sia tutto immerso in quel loro essere lì in quel preciso momento, guarda l’evidenza di quel che ha davanti: lei e il tavolo. È come conficcato in quel suo tempo di uomo adulto che non ha più nemmeno il sentore che possa esistere un altro modo di stare al mondo.
«Devi capire», disse «che non voglio che tu lo faccia, se non vuoi. Sono prontissimo ad andare fino in fondo, se per te significa qualcosa».
«E per te significa qualcosa? Ce la potremmo cavare».
«Certo che significa qualcosa. Ma io voglio solo te. Non voglio nessun altro. E so che è una cosa semplicissima».
«Sì, tu sai che è semplicissima».
«Hai ragione di parlare così, ma lo so».
«Adesso faresti qualcosa per me?»
«Per te farei qualunque cosa».
«Vorresti per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere smettere di parlare?»
Lui non disse nulla ma guardò le valigie contro il muro della stazione. C’erano attaccate le etichette di tutti gli alberghi dove avevano passato la notte.
«Ma io non voglio che tu lo faccia», disse «non me ne importa niente».
«Adesso grido», disse la ragazza.
La donna uscì dal bar con due bicchieri di birra e li depose sui sottocoppa di feltro umido. «Il treno arriva fra cinque minuti» disse.
«Cos’ha detto?» chiese la ragazza.
«Che il treno arriva fra cinque minuti».
La ragazza rivolse alla donna un sorriso raggiante, per ringraziarla.
C’è un’ironia amara, sottile e spietata, direi, nel modo in cui il narratore fa continuare l’uomo a rivendicare in maniera sterile e ripetitiva quel suo modesto, contingente sapere. Non può che suscitare irritazione adesso nella ragazza quella sua attenzione e disponibilità ad aiutarla, per affrontare quel che Jig ha già compreso. Ora che è lì sul punto di attraversare definitivamente la «linea d’ombra», non è l’operazione in sé il suo problema, è la vita, il modo in cui mettersi in relazione con essa da quel momento in poi. Quell’ottuso principio di realtà incarnato dall’uomo, quella sua gretta concezione dell’esperienza devono sembrarle asfissianti se, come accade, accoglie con un sorriso raggiante («brightly» dice l’originale) la donna che annuncia l’imminente arrivo del treno.
«Sarà meglio che io porti le valigie dall’altra parte della stazione», disse l’uomo. La ragazza sorrise anche a lui.
«D’accordo. Poi torna qui e finiamo la birra».
Lui raccolse le due pesanti borse e girando intorno alla stazione le portò sugli altri binari. Guardò in fondo ai binari ma non riuscì a scorgere il treno. Tornando indietro passò attraverso il bar, dove stavano bevendo i passeggeri in attesa del treno. Bevve un Anis al bar e guardò i passeggeri. Aspettavano tranquillamente il treno. L’uomo uscì attraverso la tenda di bambù. La ragazza era seduta al tavolo e gli sorrise.
«Ti senti meglio? » domandò lui.
«Mi sento bene», disse lei. «Non ho niente. Mi sento bene».
È spiazzante quel sorriso finale che la ragazza rivolge all’uomo quando lui si decide a prenderle le valigie e portarle dall’altra parte della stazione. È spiazzante la spassionata tranquillità con cui dice: «D’accordo. Poi torna qui e finiamo la birra».
Per intuirne il senso forse bisognerebbe ricorrere al significato che il sorriso ha in versi come questi: «Pianger ti lascerei di ciò che sparve; / indi sorrideremmo anche alle pietre / bianche, là, tra cipressi e sicomori (Colloquio di Giovanni Pascoli). Non perché quel colloquio querulo tra il poeta e la madre morta abbia qualcosa a che vedere con questo racconto, ma per quel senso di dolce-amara rassegnazione dinanzi a qualcosa di irreparabilmente perduto che qualifica il verbo «sorridere» in questi versi, o forse anche di dolce-amara consapevolezza, che è pur sempre una forma di elaborazione di un qualche lutto, di una qualche esperienza di perdita.
C’è un quadro di Magritte (uno dei pittori che più ha saputo dar forma ed espressione al trauma della perdita di complicità con il mondo, all’elaborazione di un lutto che ha travolto l’infanzia) in cui una locomotiva gelida, lanciata nel vuoto, irrompe da un camino in una stanza come un’improvvisa e straziante apparizione in un luogo domestico (La durée poignardèe 1938). Nel momento in cui si svela, con la sua metallica evidenza, lacera lo spazio. Ecco, in questo racconto di Hemingway la locomotiva, in un certo senso, per Jig è già arrivata, se non altro in termini di consapevolezza.
Di quel treno che sta per giungere nel binario vuoto si racconta l’attesa, un’attesa cui non si accompagna più nessuna tensione, ma di cui si evoca in modo ripetitivo l’incombere, come accade appunto alle cose che si sa ineludibili. Il fatto che l’uomo non riesca a scorgere il treno non dice, ancora una volta, solo un dato di fatto, ma sembra piuttosto un’ultima allusione a quella sua connaturata incapacità di cogliere le ragioni più profonde che stanno irreparabilmente allontanando da lui quella ragazza nel suo confronto con la vita.
Non sappiamo nulla di cosa accadrà a Jig una volta che sarà salita sul treno, in che modo riassesterà il suo rapporto col mondo e con se stessa. Quel che trapela in tutta la narrazione, però, è che sicuramente il suo modo di abitare il mondo adulto sarà diverso da quello dell’uomo di questa storia, e di chi, in generale (poco importa se uomo o donna), non riesce a contemplare, nemmeno in modo problematico, quell’orizzonte si trasfigurazione scelto, tra l’altro, proprio come titolo del racconto.
Una cosa è perdere quella spensierata complicità col mondo da cui Jig è costretta a congedarsi perché adesso «sa come vanno le cose» tutt’altra è rinunciare a quello sguardo trasfigurante che è quanto di più vicino alla postura di chi, come il narratore, sa ricreare con l’invenzione i dati dell’esperienza per farne cose del tutto nuove: creature quantomai simili a quegli elefanti bianchi vagheggiati da Jig, il solo personaggio a cui, non a caso, il narratore concede un nome proprio in un gesto non trascurabile di intimità.
Per tutto questo universo di senso e di umanità che fa di questo racconto un albero gigantesco sarebbe profondamente ingiusto, fuorviante, leggere Elefanti bianchi come la storia di un uomo, di una ragazza e di una decisione da prendere riguardo a un aborto. Sarebbe il modo perfetto per tradire una storia che è memorabile, appunto, perché capace di trasfigurare un evento occasionale e farne il seme in cui dorme l’albero gigantesco.
A corredo del testo pubblichiamo un commento di Paolo Cognetti, scrittore.
Personalmente non amo questo racconto di Hemingway.
Certo che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, perché non c’è un esempio altrettanto efficace per spiegare la teoria dell’iceberg, né come uno scrittore possa usarla per fare il furbo. Carver diceva “niente trucchi” e io ho proprio l’impressione che qui dentro ci sia un trucco bello e buono. Il problema è poi che in qualunque scuola di scrittura si studia questo testo, e gli aspiranti scrittori cominciano a pensare che un buon racconto si scriva così: nascondendo al lettore il nocciolo della questione e giocando con lui al gatto col topo. Il che produce soltanto racconti che assomigliano a indovinelli o barzellette, e che raramente hanno qualche valore, nel senso di qualche verità.
Ai miei occhi il difetto principale sta proprio nel fatto che il “non detto” del racconto sia così facile da dire. Sarebbe un racconto altrettanto buono se nelle prime righe il narratore scrivesse: “La ragazza stava andando ad abortire”? Secondo la lettura di Evelina Santangelo, sì. Secondo lei il valore del racconto sta altrove, e cioè nella psicologia dei personaggi e nel modo in cui evolve durante la storia; inoltre, nel fatto che il narratore usa il solo dialogo per rappresentare questa evoluzione. A me pare un’ottima analisi, però il racconto non è famoso per questo. E non staremmo qui a parlarne, preferendolo ad altri racconti di Hemingway altrettanto raffinati. Viene letto, spiegato e studiato come “il racconto che parla di un aborto senza mai pronunciare la parola aborto”. Questo trucchetto lo capisce chiunque ed è in grado di apprezzarlo anche chi non abbia mai letto un racconto in vita sua. Il che a mio parere è la sua rovina.
Il non detto di un racconto non può essere semplicemente qualcosa che lo scrittore sa e sceglie di non svelare, una soluzione che ci viene tenuta nascosta. Il non detto vale qualcosa, in termini di verità, soltanto se è oscuro, misterioso, non del tutto comprensibile anche per chi scrive. Ed è il motivo per cui Colline come elefanti bianchi mi sembra un esercizio di stile, e preferisco di gran lunga un altro classico di Hemingway, Un posto pulito, illuminato bene: un racconto che non contiene enigmi da risolvere, oppure ne contiene uno gigantesco, ma senza soluzione; un racconto difficile da spiegare e impossibile da copiare, dove non c’è affatto bisogno di tenere nascosta la parola “suicidio”. Il suicidio è lì, al centro del racconto, scritto a chiare lettere, eppure l’oscurità del racconto è inalterata.Colline come elefanti bianchi è probabilmente il racconto in cui più di ogni altro Hemingway ha lavorato secondo quello che lui stesso definisce «il principio dell’iceberg».
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