Don Winslow si è conquistato un posto tra i grandi della letteratura poliziesca. In due dei suoi libri in particolare, Il potere del cane e Il cartello (entrambi pubblicati da Einaudi Stile Libero), affronta l’intricato mondo dei cartelli della droga messicani. Sono due opere imponenti sempre in bilico tra fiction e non fiction che solcano il baratro dell’impotenza del mondo nel suo regno dei morti.
Art Keller e Adán Barrera sono i due protagonisti del libro; agente della DEA il primo e capo del cartello della droga più potente del mondo il secondo. Sono due personaggi agli antipodi. Rappresentano rispettivamente, in una estrema semplificazione, il bene e il male. Sono due personalità complesse di cui offri uno scavo psicologico notevole. Cosa è stato per te entrare in empatia con due figure così diverse tra loro?
Come uomo posso avere un’opinione sul bene e sul male, su quello che è giusto e quello che è sbagliato. Posso distinguere gli individui in buoni e cattivi. Ma in quanto scrittore non posso essere obbiettivo, non è il mio mestiere. Il mio lavoro consiste nel portare i lettori nel mondo del personaggio, mostrare la realtà attraverso gli occhi del personaggio, farla sentire attraverso il suo cuore e la sua anima. Nello specifico, mentre scrivo di Art Keller e di Adán Barrera io non sto pensando ad antipodi morali – quello è un privilegio del lettore –, io penso a come possa portare colui che leggerà il mio libro quanto più vicino all’esperienza dei protagonisti.
Naturalmente è più semplice quando ti trovi ad affrontare una personalità che possa definirsi “buona”, ma il mio lavoro è ritrarre il punto di vista del personaggio anche qualora lo trovassi ripugnante e malvagio. È certamente più difficile ma è un mio dovere.
Penso ai libri di James Ellroy e trovo che in due tuoi romanzi in particolare, Il potere del cane e Il cartello, tu sia arrivato a un livello di realtà successivo. Wu Ming 1 a proposito della letteratura di non fiction afferma che un narratore non debba porsi gli stessi problemi di uno storico, e quindi, aggiungo, di un giornalista. Dice che deve essere più spregiudicato. Fuori dai vincoli della pura cronistoria, fino a che punto può spingersi la letteratura?
Uno dei miei difetti in quanto romanziere, almeno nelle prime bozze, è di scrivere troppo come uno storico. Sono stato addestrato al mestiere del giornalista e per questo tendo a restare molto ancorato ai fatti reali, alla cronistoria. A volte questo può risultare dannoso ai fini del romanzo, può capitarmi di perdere di vista oppure non prestare sufficiente attenzione all’evoluzione drammatica della trama.
Nelle successive bozze devo fare uno sforzo: prendere la decisione di accantonare i fatti realmente accaduti e concentrarmi sulla finzione letteraria, pur rimanendo entro i confini del reale. Gli scrittori hanno l’arma dell’immaginazione, quindi la possibilità di entrare nei pensieri profondi e nelle emozioni dei personaggi e la libertà di ordinare gli eventi in funzione della trama. Possono dunque arrivare al cuore di una storia in un modo che ai giornalisti, almeno a quelli etici, non è concesso.
Mi pare di capire che la spirale di violenza collegata ai cartelli della droga in Messico non abbia avuto negli anni alcuna frenata decisiva. E che la guerra alla droga non abbia sortito gli effetti sperati. È così? Qual è lo scenario che immagini per il futuro?
Allora, dopo più di quattro decenni si può dire certamente che la guerra alla droga non ha ottenuto i risultati sperati. A ogni modo, la violenza in Messico ha subito un calo dopo una escalation che ha fatto registrare la sua punta più alta nel duemiladodici. Questa frenata è dovuta al fatto che un cartello, quello di Sinaloa, ha vinto la guerra del narcotraffico e si è imposto come l’organizzazione dominante, causando quella che viene generalmente chiamata pax narcotica.
Ma la situazione sta mutando di nuovo. La spirale di violenza è sul punto di registrare una nuova impennata nell’area di Tijuana perché alcuni gruppi locali stanno principiando a mettere in discussione il dominio del Cartello di Sinaloa sulle rotte principali del narcotraffico. È un ciclo. Abbiamo sempre assistito a una tensione centrifuga e poi centripeta nelle organizzazioni che controllano il traffico di droga. Queste si uniscono e poi si dividono. E questo esatto periodo storico possiamo collocarlo in quest’ultimo stadio, nella sua fase centrifuga.
Ancora oggi la legalizzazione di tutte le droghe appare un’utopia. Credi comunque possa essere una svolta in grado di portare risultati concreti, maggiori di quelli raggiunti con la lotta militare? E quali potrebbero essere le reazioni?
Ne sono assolutamente convinto. È bastato che soli tre Stati legalizzassero la marijuana per fissare una decrescita delle esportazioni dal Messico del quaranta percento. La legalizzazione non è un’utopia, è l’esatto contrario, è un approccio pratico e di buon senso. A essere utopico è il proibizionismo: un piano strategico assolutista, irrealizzabile e che non conduce ai risultati anelati. Rispetto alle reazioni, credimi, l’esercito, ma lo stesso vale anche per la polizia, non vuole giocare la sua parte nella lotta al narcotraffico. Potrebbero non ammetterlo pubblicamente (anche se cresce il numero di quelli che lo fa), ma la maggior parte dei poliziotti auspica una fine della guerra alla droga per tornare al lavoro che più gli compete.
Attualmente il sessanta percento degli stupri e il quaranta percento degli omicidi restano irrisolti, e tutti i poliziotti con cui ho parlato – e parlo spesso con molti di loro – preferirebbero potersi concentrare nel risolvere questi piuttosto che consumare tutte le loro energie ad arrestare gli spacciatori. Soprattutto perché questi cicli di arresti non li hanno portati a raggiungere risultati concreti.
In un articolo uscito sul Daily Beast, in cui evidenzi delle interazioni economiche, legate anche e soprattutto al traffico di armi, tra i cartelli e il terrorismo, dici che i media, loro malgrado, fanno il gioco dell’ISIS e dei narcotrafficanti in quanto offrono loro quella visibilità a cui tanto anelano. La letteratura può andare incontro a un rischio analogo?
Certo. Questo è stato sempre un problema con la letteratura e con i film incentrati sul crimine, e forse ancora di più con il cinema. Questo ci riporta indietro e mi fa pensare a Robin Hood. È un problema con cui combatto, mi chiedo se con i miei libri sto mitizzando i narcotrafficanti, gli assassini, i torturatori. E per alcuni lettori forse la risposta è sì. Mi ritrovo a dover bilanciare due valori contrastanti: è giusto correre il rischio di mitizzare il mondo del narcotraffico pur di fare luce su quello che accade? Ovviamente la risposta che mi sono dato è stata sì.
Allo stesso tempo ho sempre cercato di ritrarre questo mondo nella maniera più realistica possibile, e il realismo non è certamente glorioso e attraente, almeno per la maggior parte delle persone: questa realtà finisce sempre con la galera, la morte e la distruzione dell’anima.
Il cartello è un libro ambizioso, dallo sguardo vasto. Uno di quei romanzi dall’impatto visivo forte. Mentre lo leggevo non ho potuto fare a meno di figurarmi alcune grandi scene di un certo cinema americano. Poi ho scoperto che è già in programma un film la cui regia sarà affidata a Ridley Scott. Come la immagini la sua trasposizione cinematografica? Pensi possa essere ben gestita la mole di fatti narrati? Non ti pare che una serie tv possa prestarsi meglio nel dare alla storia quel respiro che merita?
Si tratta di una grande storia, quindi penso abbia bisogno di un grande format. Uno schermo gigante, un buon sistema audio. Sono convinto che il cinema sia la dimensione adatta. Capisco che le serie televisive siano diventate una ragionevole alternativa, ma io voglio vedere un film importante su una materia importante. Voglio che la gente vada a vederlo con altra gente, e voglio che ci sia una reazione di gruppo, che le persone una volta uscite dalla sala vadano in un bar a discuterne. Sono molto contento che Ridley Scott dirigerà il film e Shane Salerno ne scriverà la sceneggiatura. Entrambi hanno confidenza con le grandi storie e non ne sono spaventati. È una buona cosa.
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