Strumento dell’arte spirituale, la regola di vita ha caratteristiche che la differenziano radicalmente da ogni altra regola che si elabori in ambiti convenzionali (il gioco, le scienze matematiche, la lingua), è opera d’arte, segno che connota la singolarità di un’esistenza umana. In questo libro se ne ricerca il sorgere, la si rintraccia della narrazione evangelica e nell’esperienza cristiana originaria, la si colloca entro polarità significative. E, infine, si propone un itinerario per scoprire, creare, la propria regola di vita.
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Se io non sono per me, chi sarà per me?
E se io sono per me, chi sono io?
E se non ora, quando?
Rabbi Hillel
Dammi un cuore che ascolta
(1 Re 3, 9)
Perché una regola di vita?
Che senso ha parlare di “regola di vita” quando – se teniamo il cuore in ascolto – ci rendiamo conto di quel che accade attorno a noi, in quest’ora così severa, inquietante e frantumata della storia umana? In tale stretta così insensatamente devastante, perché aprire un tema così inusuale?
Ho scelto di vivere come monaca «sotto una regola», come san Benedetto chiede ai monaci cenobiti, e perciò, in un certo senso, “gioco in casa”, ma, sotto la mia forma di vita “regolare”, sono tuttavia in una situazione di pura “marginalità”, sia dal punto di vista dello sguardo comune, che dal punto di vista della luce di verità del Vangelo.
In realtà, ritengo che la scelta monastica – come lo stesso Benedetto da Norcia verosimilmente pensava quando ha iniziato questa forma di vita –, nella Chiesa e per la Chiesa, evidenzi il segreto che riguarda il cristiano come tale, il battezzato, il quale assume pienamente nella storia la propria responsabilità: essere discepolo di Gesù, sulla sua stessa via di incarnazione. Prima di essere missione, il legame con Gesù dà forma alla cura dell’anima, alla propria interiorità, a una regola di vita.
È un’evidenza che oggi deve più che mai aprirsi la strada, trovandoci, tutti noi, in mezzo a una cultura del tutto estranea. Una regola di vita è infatti un genere assolutamente desueto nell’epoca dominata dall’imporsi del virtuale, l’epoca cosiddetta “post”: post-moderna, post-cristiana, post-religiosa, post-industriale, post-ideologica… Siamo post-tutto (oggi si parla addirittura del post-umano, con la cyber-technology e l’elaborazione della catena del DNA) e ci riteniamo ormai avveduti e pertanto emancipati da regole. Tuttavia, abbiamo ancora aperte domande radicali: dopo tutti questi oltrepassamenti, che cosa c’è? Non temiamo l’orizzonte assolutamente aperto e indeterminato dell’uomo – come diceva Musil – «senza qualità»? Nonostante tutto e attraverso tutto, vogliamo cercare una possibilità per l’uomo contemporaneo, che con la sua stessa indeterminatezza sollecita la libertà, e per noi stessi, di scoprire una misura, un ritmo, uno stile – un senso.
L’epoca moderna poneva l’uomo al centro dell’universo e ne indicava una conseguente paideia, l’arte di far maturare il soggetto come ragione sovrana e alimentatrice di inarrestabile progresso; nella contemporaneità, invece, ci troviamo a muoverci in una cultura profondamente segnata da molteplici oltrepassamenti e dalla conseguente liquidità del soggetto; sappiamo come, anche per l’espressione massima della cultura decostruzionista – cioè di quelle filosofie che intendono l’uomo non più come centro ma come una regione a sé, buttata in un orizzonte di complessità irriducibile –, l’uomo, non essendo più al centro, rischia di ridursi a una passione inutile.
Ebbene, la sapienza monastica – pure nata in epoca di crisi di civiltà – sostiene la bellezza di una strada di umanizzazione fondata sull’invenzione di una misura, di una regola, di un passo, di uno stile, di un metodo: un’arte di vivere, a partire dalla custodia del cuore, dalla cura della propria interiorità. Non è forse nata, la cultura europea, dai monasteri dell’Alto Medioevo?
Vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco: la regola non è una stampella per persone fragili o un comodo prontuario tecnico per persone che non hanno tempo da perdere, così che la mattina non devono fare alcun programma perché tutto è già regolato. San Benedetto dice che vivere secondo una regola, sotto e insieme a un abate, è propriamente un orizzonte dinamico, un inizio, ogni giorno rinnovato, per maturare in bellezza la vicenda della propria esistenza, avendo la percezione di una partenza, di punti di riferimento, di un senso – in un’avventura che di per sé è spericolata, imprevedibile. L’avventura di credere, a partire dal cuore e dentro una storia concreta in cui Dio parla.
Per far intuire la prospettiva, vorrei proporre un piccolo detto di rabbi Hillel, rabbino del I secolo, perché proprio la sua domanda molteplice e aperta può orientarci su questo percorso:
Se io non sono per me, chi sarà per me?
E se io sono per me, chi sono io?
E se non ora, quando?
Sono tre domande strane, sconcertanti, incalzanti nell’aprire un orizzonte inedito.
Da una parte, l’importanza di prendersi cura di sé, di cercare un ordine per la propria vita, di porsi la domanda fondamentale: Se io non sono per me, chi sarà per me? «Cura dell’anima» si chiamava anticamente questa pratica.
E però, mentre si formula questa domanda, se ne insinua un’altra, dirompente, inquietante: E se io sono per me, chi sono io? Posso partire da me? Mi areno subito. Io sono un tu rispetto ad altri, una presenza rispetto a un cosmo, a un universo, e nel prendermi cura di me non posso isolarmi, sarebbe un’astrazione: devo contestualizzarmi in questa realtà più grande, perché se io sono per me, è la fine. Il mio esserci invoca un Tu che dia nome e perciò senso alla mia finitudine.
E se non ora, quando? Questa terza articolazione della domanda fondamentale dice che non si possono rimandare le domande più serie dell’esistenza a un momento più opportuno, a una situazione più adeguata. Di fatto, in ogni momento, in ogni realtà, in ogni qui e adesso, rendiamo ragione della nostra vita: rispondiamo di noi stessi in qualsiasi situazione della vita.
Viviamo, oggi, nella cultura – se così si può dire – del “divertimento” sempre e comunque, della distrazione, dell’evasione: cosa ben diversa dall’ironia e dal gioco. Ancor più, è diffusa la logica cosiddetta dello “sballo”, cioè la possibilità di assentarsi, di darsi un tempo in cui non rendere conto a nessuno di quello che si fa di sé; una logica totalmente avulsa dalla prospettiva della fede, che è: accettarsi e comprendersi come domanda fondamentale, domanda lanciata non nel vuoto ma ad altri e posta a un Tu che in principio ci ha fatto esistere, ci ha pensato secondo un disegno d’amore, e non ci perde mai.
Ebbene, questa condizione fondamentale di “responsabilità” in quanto persona umana nella fede – così efficacemente allusa dal triplice interrogativo di Hillel –, ha a che fare con la questione di una regola di vita.
Nel Primo libro dei Re (cf. 1 Re 3, 5.7-12) si racconta un sogno, il sogno di Salomone che viene interpellato da Dio con una domanda: «Dimmi quello che vuoi». Una domanda imprevista, sconcertante per il giovane. «Dimmi quello che vuoi»: implica che Dio attende di conoscerci attraverso la nostra risposta. Salomone, che si preparava a diventare re, rispose: «Dammi un cuore che ascolta». La traduzione della CEI 2008 dice «docile», ma il testo originale è: «in ascolto». La capacità di essere re, di essere signore, di essere nella vita in posizione di libertà, la capacità di cogliere e sintonizzarsi con le voci che interpellano, che giungono sempre come domanda, come chiamata all’esistenza, che definiscono la vera signoria umana, estranea ad ogni prepotenza, dipende dalla cura del cuore. Umanità regale è di chi veglia sul proprio cuore e sa custodire il luogo dell’interiorità da cui sgorga la vita. Ebbene: l’invenzione di una propria regola di vita è funzionale alla maturazione di un cuore che ascolta.
Intendersi così, ci consente di affrontare la questione di una regola di vita come un’avventura che ci sfida non marginalmente: al cuore dell’essere adulti nella fede.
L’etimologia parla
“Regola” è una parola che evoca nella sua radice, nel suo significato originario latino, un’assicella di legno (regula) utilizzata per tirare le righe dritte; il termine greco corrispondente è kanon, derivato da kanna, il cui significato, “canna”, indicava allo stesso modo il regolo utilizzato dagli artigiani. Regola è dunque, nel suo significato traslato, una norma dell’agire che prescrive il modo in cui comportarsi in determinate circostanze, in nome di un ordine costante, ripetutamente verificato in una serie di eventi. Mantiene comunque un tratto di normatività, ma alimentato dalla pratica e affidato alla libertà. Quindi è decisivo, quando parliamo di regola di vita, il riferimento all’esperienza, il carattere sapienziale e non puramente regionale e tecnico.
Si tratta di una parola carica di risonanze a tutti i livelli del vissuto e dell’attività umana. Dall’umiltà del fine lavoro artigiano e dalla sua regola composta di attente misure, scaturisce attraverso i secoli una parola che arriva a toccare le più alte sfere della vita: le regole della logica e delle discipline scientifiche; le regole che determinano l’uso di un sistema linguistico; le regole del gioco, indispensabili per condurre qualsiasi attività ludica da bambini o da adulti, così da stabilire un contesto, un orizzonte e un obiettivo anche per la più gratuita delle attività; le regole dell’arte, in particolare della musica dove il canone dà addirittura nome a un preciso tipo di componimento musicale nato nel XV secolo fatto di contrappunti e voci che si imitano, componimento che indoviniamo necessiti di misurazioni di precisione e complessità matematica; le regole del diritto e della religione: se infatti il canone agli inizi dell’epoca cristiana indica la norma religiosa della fede dei riti e dei costumi, presto si allarga a significare anche il tributo dovuto ai poteri dominanti, amministrativi o politici.
Troviamo infine tracce della regola anche nella sfera della vita quotidiana, quando indica una sorta di ciclicità (regolarità) della vita, una sua propria misura che ciascuno – personalmente o come gruppo – deve trovare a sé appropriata, un ritmo di tempi e spazi.
Si tratta dunque di una parola densa, complessa, magnifica, che riguarda esplicitamente la persona umana; gli altri viventi, invece, o hanno scritta dentro di sé una regola, oppure sono addomesticati, cioè ricevono regole dall’uomo. Nella sua storia il plesso tematico della regola si mostra polisemico, e variabile come i più complessi fuochi d’artificio, ma mantenendo sempre alla base quell’immagine archetipa del paziente artigiano che nel silenzio della concentrazione osserva e misura i pezzi sciolti che nel suo lavoro assemblerà e modellerà in un’armonia prima e altrimenti sconosciuta.
ra regole e modelli il passo è breve, tanto quanto tra artigianato e arte. Solo che tra artigianato e arte c’è una differenza: l’artigiano fa degli oggetti che gli vengono richiesti e ha le sue regole per procedere; l’arte anche ha le sue regole per procedere, però ciò che nasce dall’arte è un unicum. La regola di vita del cristiano è collocabile più nell’orizzonte della regola d’arte che in quello della regola tecnica dell’artigiano.
Se questo è il senso etimologico, originario della parola “regola”, nella tradizione cristiana però, fin dalle prime generazioni, il termine è venuto a indicare quel complesso di indicazioni e misure (nell’ambito della parola e del silenzio, della preghiera e del lavoro, del rito e del pensiero, delle relazioni e delle passività) con le quali è ordinata, per il raggiungimento di una pienezza spirituale, la vita individuale e collettiva di una comunità di cristiani che si sono chiamati inizialmente monaci, o anche monotropoi, viventi cioè secondo un solo e medesimo ordine, stile di vita. Ha cioè indicato un modo di esistere umanamente, un modo di essere in relazione, un modo di stare al mondo. Distinguendosi, in tal senso, come testo squisitamente spirituale e non tecnico né giuridico.
Letture contemporanee
Regola di vita, dunque: un genere desueto in quest’epoca postmoderna, segnata cioè dall’oltrepassamento di un certo modello di umanesimo che poneva l’uomo al centro e coltivava una conseguente paideia, intesa quale arte di maturare il soggetto? Dobbiamo essere consapevoli di muoverci, oggi, in una cultura nella quale la cura della persona, come quella proposta dalla prospettiva cristiana (ma non solo, la stessa cultura classica va in tal senso), si pone con un certo carattere di alternatività, di marginalità – speriamo profetica e non settaria, elitaria. Cosa intendo dire con “marginalità profetica”? Intendo dire che, poiché anche la cultura postmoderna con la sua decostruzione del soggetto mostra tutte le sue falle, il carattere non ovvio della paideia cristiana, dello stile educativo legato alla visione dell’umano (che pure presenta modelli diversi), è tale da aprire orizzonti per un nuovo umanesimo, sulla base della convinzione profonda, di fede, che in Gesù l’umano si rivela compiutamente nella sua verità originaria, rimasta lungamente beante in una sofferta ricerca del proprio volto.
Partiamo dall’assunto che darsi una regola di vita, nel contesto dell’esistere umanamente, è un’opera bella, un valore. Ma tale assunto può essere formulato in molti modi.
Cosa significa infatti “darsi una regola”? È una pratica riconosciuta come valida, anzi decisiva, in molteplici ambiti, come abbiamo visto. Ci si dà una regola in vista di un gioco, di un’impresa, dell’acquisizione di una capacità operativa, in vista di maturare una capacità professionale, sportiva, e – ancor più – artistica. O – ed è il nostro ambito – semplicemente in vista di vivere con uno stile. Di mettere ordine nella propria concreta esistenza. E in tal caso si tratta di “regola”, appunto, “di vita”.
Perché la vita deve essere ordinata, perché una regola di vita? Perché sempre più spesso capita di sentir dire che non solo preti e suore ma anche manager e politici si ritirano per fare i loro “esercizi” in vista di darsi una regola?
È in atto – non da ieri ma a partire dagli anni Ottanta, dopo il sommovimento decostruzionista conseguente alla rivoluzione culturale del ’68 – un movimento nella cultura occidentale, soprattutto francese, alla ricerca di una “cura di sé” che pone nuovamente l’attenzione sul soggetto e sull’ordine interiore come requisito indispensabile per orientarsi in una società complessa.
Ma questo filone si trova poi come sommerso dal sopravvento della “società liquida”, globale e frammentaria al tempo stesso, che riconosce solo ordini regionali tra loro irrelati: regole del gioco, o regole tecniche di costruzione, o di procedure – nient’altro. Vedremo che le regole della cura di sé, se intese in tale prospettiva, assomigliano tanto alla moda dell’“autoscatto”, dei selfie. È il tentativo di costruirsi in funzione di un’immagine da produrre, dalla regola del fitness agli esercizi di meditazione…
Il piano di ricerca e riflessione su cui vogliamo muoverci è decisamente altro. Parlando di regola di vita ci riferiamo, infatti, a un livello di conoscenza di sé e di scoperta di un ordine nell’ambito della fede, perciò nell’orizzonte della vita scoperta e liberamente accolta, compresa, come risposta a una chiamata.
Come si esprimeva in una lettera pastorale alla fine degli anni Novanta il card. C.M. Martini, cercando di delineare una propria regola di vita il cristiano intende esprimere la consapevolezza di un’origine e di una direzione alla propria vita, nell’ordine della chiamata. Riconoscere una chiamata nella propria vita impegna radicalmente la libertà a proporzionare ogni propria espressione esistenziale come risposta personale. Impegna perciò a darsi un “metodo” e a identificare mezzi e pratiche coerenti. Non a partire dal sé ma dalla relazione fondamentale di alleanza, e da un contesto comunitario che ne porta il riflesso, in cui la chiamata divina introduce.
Per contestualizzare il nostro argomento nell’orizzonte della cultura contemporanea, rileggiamo un testo di G. Friedmann, sociologo e umanista di matrice marxista che, alla fine del XX secolo, si è occupato della questione della società industrializzata e dei suoi riflessi in ambito culturale. Ebbene, anche costui percepisce l’esigenza di un lavoro spirituale della persona su di sé, di una cura dell’anima che in certo modo allude al tema di una regola di vita:
Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento – che può essere breve, ma intenso. Ogni giorno un esercizio spirituale, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi dalle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prende come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi…
Qui il lavoro spirituale appare come un’applicazione piena di senso, ma senza che gli si diano coordinate precise, senza un ancoraggio a una visione dell’umano, limitandosi a un appello a valori umanistici vagamente definiti. Il che esce comunque dall’ambito della società industrializzata per avventurarsi nei “paesaggi dell’anima”, ricollegandosi così a filoni di antichissima data.
Si entra, parlando di regola di vita, nell’orizzonte di uno stile di ricerca spirituale che risale fino all’antica tradizione spirituale filosofica stoica, coeva agli inizi del cristianesimo. Ebbene, un altro filosofo francese della fine del secolo scorso, Michel Foucault, nell’ambito della ben nota contestazione degli anni Settanta, che ha comportato un processo di transizione rispetto alla comprensione dell’umano e di dissoluzione di una certa cultura sociale, ha lungamente studiato le corrispondenze e divergenze tra le pratiche della cura di sé nelle scuole filosofiche greche e le coeve esperienze cristiane. Se ne occupa in particolare nel corso tenuto al Collège de France – dove occupava la cattedra di storia dei sistemi di pensiero – all’inizio degli anni Ottanta, proprio al compimento della sua lunga carriera filosofica (muore nel 1984). Evidentemente le riteneva d’interesse per la ricerca di uno statuto per la coscienza dell’uomo postmoderno: ma in quali termini?
Non occorre qui richiamare le posizioni di fondo del filosofo, per lo più legate alla contestazione francese successiva al ’68. Al di là della sua consistenza fondamentalmente ideologica, la polemica del pensiero del ’68 contro le istituzioni, e contro ogni forma di pensiero umanistico, è riflesso di un disagio obiettivo. Per venire a parola, tale disagio avrebbe bisogno di un altro linguaggio e di un altro genere di argomenti, rispetto a quello adottato dalla contestazione quando si limita a denunciare le forme indebite che assume il potere delle istituzioni. Il disagio nasce dalla crescente difficoltà che le istituzioni convenzionali incontrano a realizzare il compito, che per altro è loro proprio, di dare figura praticabile a una verità che appare innegabile e che potremmo schematizzare in questi termini: la vita del figlio è possibile unicamente perché anticipata dalle attese dei genitori, rispettivamente dalle attese della generazione adulta in genere, e addirittura delle generazioni precedenti.
A fronte di tale difficoltà, il codice culturale è, da questo filone di pensiero, semplicemente negato; è negato cioè che sussista un codice dei significati elementari della vita oggettivamente iscritto alla radice dell’alleanza sociale, dunque anche alla radice del rapporto tra le generazioni.
Preciso la consistenza di questa “negazione del codice dei significati”. Negato è, per un primo lato, l’aspetto di coerenza sistemica del complesso dei simboli ai quali si affida la vita immediata; questo aspetto di coerenza sistemica costituisce una prima determinazione del senso dell’affermazione secondo la quale la cultura è, appunto, un codice. A tale coerenza sistemica il pensiero critico oppone l’opera della decostruzione: per ogni settore del vissuto umano si adotta un codice a sé. Negata è anche, per altro lato e più fondamentale, l’autorità del codice. I singoli elementi simbolici di quello che un tempo era un codice – e che fino ad oggi appare obiettivamente ancora un codice – divengono inevitabilmente oggetto di ripresa ad opera del soggetto individuale, ma si tratta di una ripresa “trasgressiva”. La trasgressione assume, più precisamente, questa figura di fondo: i singoli elementi simbolici della tradizione culturale sono messi a frutto per una configurazione del desiderio individuale, che è pregiudizialmente rappresentato quasi fosse l’istanza di valore suprema. È nella prospettiva in tal modo sinteticamente indicata che occorre interpretare l’antiumanesimo del pensiero di Foucault.
Nella stagione postmoderna la decisa crisi dell’ideale umanistico, anche se certo non la sua fine, alimenta la negazione perentoria, da parte del pensiero riflesso, che l’uomo stesso possa e debba essere inteso quale irrinunciabile ideale.
Molto rumore ha fatto il proclama della morte dell’uomo proposto da Foucault. Proprio per questo sorprende la situazione che segue al fallimento del progetto umanistico: di fare cioè dell’uomo il soggetto del sapere. Tale svolta è accostata da Foucault nei suoi ultimi scritti alla situazione che sussisteva in precedenza. Si tornerebbe, più precisamente, alla figura di un sapere quale “rappresentazione”, di contro alla figura che pensa il sapere a partire dalla centralità demiurgica del cogito. La rappresentazione avrebbe la forma dell’invenzione estetica, connessa al compito della creazione estetica dell’esistenza individuale.
Il ritorno alla Grecia avrebbe, sotto tale profilo, il significato di un superamento della visione morale del mondo. Per questo aspetto la ricostruzione di Foucault appare decisamente poco convincente. Quello da lui descritto non è infatti in alcun modo un ritorno alla situazione dell’uomo della tarda modernità alla prospettiva antica; la situazione spirituale presente dell’uomo occidentale appare assai lontana rispetto a quella precedente l’epopea del moderno pensiero critico.
Osserviamo per altro come la molteplicità delle operazioni compiute dal soggetto costituisca, per il soggetto stesso, non un mero dato di fatto che si possa semplicemente constatare, ma una dinamica che sembra produrre in apparenza una frammentazione, quando invece può e deve essere ricomposta a unità del soggetto: qualità formale imprescindibile della soggettività del soggetto è infatti l’identità, intesa appunto come identità con se stessi, unità, al di là della molteplicità diacronica e sincronica delle operazioni.
A tale compito del soggetto pare riferirsi lo stesso Foucault, mediante il riferimento all’etica della libertà descritta in termini socratici e intesa come compito proprio della filosofia: «Questa funzione critica della filosofia viene fino a un certo punto dall’imperativo socratico: Conosci te stesso, ossia fòndati in libertà, mediante il dominio di te stesso». Proprio espressioni come queste paiono autorizzare l’attribuzione al tardo pensiero di Foucault di un ritorno al soggetto. «Non il potere bensì il soggetto costituisce il tema principale delle mie ricerche», dichiara egli espressamente.
Il ritorno al pensiero del soggetto è esplicito nel corso che Foucault tenne al Collège de France nel 1981-1982.
Partendo dalla considerazione di alcuni testi platonici, Foucault propone una rilettura innovativa e di stampo nettamente anti-idealistico della filosofia antica e della sua storia. Il celebre detto socratico «Conosci te stesso» è distratto dalla sua consueta interpretazione gnoseologica e riconsiderato come parte del più generale progetto di “cura del sé”, che è comune a gran parte della filosofia antica; essa è una serie di pratiche teoretiche, psichiche e somatiche volte alla trasformazione attiva del soggetto; su questo sfondo comune sono perseguiti obiettivi vari a seconda dei tempi e dei luoghi, rivolti ora alla formazione politica del cittadino ideale, ora a proteggere l’individuo da una realtà sociale ostile, ora al raggiungimento di una realtà trascendente. Sono da segnalare le affinità con le ricerche condotte nei precedenti decenni da Pierre Hadot.
Sotto tale profilo, la figura dell’etica alla quale Foucault pensa assume tratti simili a quelli che l’etica aveva nella tradizione greca e nel pensiero di Aristotele in specie; l’etica infatti per Aristotele coincide con la politica, con la considerazione della vita buona così come definita dalle forme della polis.
Ebbene, in un’intervista rilasciata nel 1983 Foucault afferma:
Ciò che mi colpisce è il fatto che nell’etica greca ci si preoccupava della propria condotta morale, della propria etica, delle proprie relazioni con se stessi e con gli altri, molto più di quanto ci si interessasse ai problemi religiosi. […] Ciò di cui i greci erano preoccupati consisteva nella costituzione di un tipo di etica che fosse un’estetica dell’esistenza.
Appunto alla figura greca (socratica) della cura di sé Foucault riconduce il proprio interesse per l’etica, che è un aspetto del suo più generale ritrovamento del tema della cura del soggetto. Tale cura trova la sua espressione più precisa (è il motivo dell’interesse che ha per noi questa emblematica ultima evoluzione del pensiero di Foucault) nel corso del 1981-1982.
L’interesse per il soggetto e per l’etica non costituirebbe, dunque, un mutamento di rotta dell’originario progetto teorico di Foucault, iniziato con la proclamazione dell’obsolescenza dell’uomo e del tramonto degli ideali umanistici; sarebbe invece lo sviluppo conseguente di quel programma. La rappresentazione dell’etica qui proposta presuppone una definizione dei problemi posti dai comportamenti verso se stessi e verso gli altri, definizione che sarebbe possibile a prescindere da ogni riferimento ai “problemi religiosi”, a quei problemi dunque che sono proposti dal rapporto dell’uomo con Dio, o più genericamente dal rapporto dell’uomo con il sacro. La separazione tra etica e religione è caratteristica di tutto il pensiero secolare moderno, ostinatamente rivolto all’obiettivo dell’autonomia.
L’etica alla quale Foucault pensa non può essere intesa, tuttavia, come un ritorno all’etica antica. Nell’intervista già citata egli afferma espressamente che non è possibile trovare la soluzione del problema presente nell’etica di un’altra epoca. L’etica alla quale pensa sembra assumere piuttosto i tratti di un’estetica dell’esistenza che deve realizzare il compito di dare figura al soggetto. Il soggetto deve operare su di sé un lavoro di configurazione, che è descritto ricorrendo all’analogia con il lavoro dell’artista. La necessità di tale compito è da intendere in rapporto all’esigenza di autonomia del soggetto; l’autonomia appare infatti a rischio nella società dei consumi.
L’etica di Foucault non ha certo la forma di un discorso sulle norme dell’agire che proceda dal riconoscimento del necessario destino morale dell’uomo; ha invece i tratti di un’arte mediante la quale realizzare l’invenzione della propria vita, il capolavoro di un’esistenza bella, di stile.
Senza essere libero (nozione insensata, soprattutto per uno storico), il soggetto per Foucault è nondimeno capace «di immaginazione e di progetto».
Qualcuno ha definito “paradossale” il percorso di Foucault: egli prima decostruisce il soggetto (inteso come soggetto trascendentale) e poi tenta di delineare nuove possibili forme di soggettività. La figura del soggetto proposta dall’ultimo pensiero di Foucault è quella di un soggetto che mediante le proprie pratiche edifica se stesso. Quando sia abbandonata ogni irrealistica pretesa metafisica, il soggetto empirico e singolare non diventa affatto irreale, assume invece la forma dell’incessante immaginazione di sé.
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