A San Pietro a spasso con Stendhal
Se si pensa a Roma vengono subito alla mente due immagini, il Colosseo e San Pietro. Due lampi che siamo appena in grado di vedere come accade con i lampi e con i simboli. Occorre qualcuno che ci tenga per mano e ci aiuti a capire o, meglio, ad indovinare ciò che gli occhi non sanno più. Giuseppe Tomasi di Lampedusa considerava le Promenades dans Rome di Stendhal «una guida per viaggiatori, redatta con notevole cura archeologica e scritta da un genio». Gli scritti di Stendhal sembrano sempre sfiorati dalla luce, dall’arte e dagli abitanti dell’Italia che amò e capì con grande sottigliezza, talvolta con un sospiro, talvolta con un sorriso.
Passiamo ora a San Pietro. Stendhal non era un fervente cattolico ma avvicinandosi alla Basilica confessa come gli resti impossibile non adorare la religione che aveva creato un tale miracolo. Vi era arrivato accolto dal doppio colonnato del Bernini e dal suono, tranquillo e continuo, dell’acqua delle due fontane. Oggi lo si sente soltanto a notte fonda ma quando io vi andai per la prima volta quel rumore – un battito, un respiro – si udiva ancora bene. Stendhal amava la Piazza ma non la facciata del Maderno più adatta ad un palazzo che ad una chiesa con l’iscrizione a lettere cubitali che sembra lodare Paolo V e non Dio. Maderno forse non aveva capito le idee di Michelangelo (ciò che per Stendhal era blasfemo) e inoltre la facciata, a misura che ci si inoltrava nella Piazza, nascondeva la più bella cupola del mondo.
Si entra in Chiesa e si benedice il papato. Mezzo secolo fa credevo di trovarmi in una foresta di marmo di sovrumano splendore, una bellezza che mi sembrava al di là dei sentimenti, traslucida come un bicchiere d’acqua chiara. Non ero commosso ma perplesso, colpito da quel che mi appariva un prodigio naturale un monte immenso, un lago senza fondo. Stendhal scrive che l’unica cosa che la divinità è in grado di inspirare ai mortali è il terrore. Forse, ma nell’interno di San Pietro, sotto il cielo irraggiungibile della cupola, ho solo provato un senso di estrema pochezza. Le proporzioni architettoniche sono così ben calibrate che non si è subito in grado di intenderne l’immensità. Sotto la cupola trionfa il Baldacchino di Giovan Lorenzo Bernini, uno dei grandi capolavori dell’arte ad onore della Confessione e dell’altare papale. Di questo immenso padiglione di bronzo rutilante d’ori Stendhal, che amava le misure esatte, ricorda come esso fosse più alto di Palazzo Farnese e sorpassasse di una ventina di piedi la facciata del Louvre; erano occorsi per la fusione milleottocento quintali dei bronzi del pronao del Pantheon.
Non è forse un titolo di gloria per il committente che consentì quest’atto vandalico, Urbano VIII. Ma forse, il fine ha giustificato i mezzi.
Stendhal non amava l’arte barocca che egli considerava più jolie, più graziosa che energica. Quasi mai loda il Bernini e ancor meno «i tristi scultori che hanno riempito l’intervallo fra Michelangelo e Canova». La nostra guida ammette la meraviglia del Baldacchino e la serena intelligenza del colonnato che cinge Piazza San Pietro ma per le tombe di Urbano VIII e di Alessandro VII, che oggi consideriamo dei capolavori, non ha alcuna simpatia: concede solo un certo fuoco all’esecuzione che vuole piacere e lusingare lo sguardo plebeo pur sfiorando la volgarità. Si intende così che la Gloria e la Cattedra di San Pietro, che chiudono trionfalmente l’abside della Basilica, non potevano incontrare il suo genio: i quattro santi che sostengono con la punta delle dita un grande trono di bronzo (astuccio di quello ligneo su cui sedeva il primo papa) gli sembrano dei ballerini alla moda anche se raffigurano i Dottori della Chiesa.
Della Gloria, con lo Spirito Santo, gli ori e le trasparenze della finestra rivestita di lastre traslucide, loda soltanto l’effet assez piquant che riscaldava il cuore all’ora del tramonto. Stendhal adorava Rossini ma non il teatro religioso dell’Ecclesia Triumphans e del Bernini. San Pietro è la necropoli dei papi; queste tombe costituiscono un’antologia della scultura dal Rinascimento al secolo XX. Fra le più antiche si sofferma su quello di Innocenzo VIII che è opera di Antonio Pollajuolo: a chi era parziale alla voluttuosità del Correggio non poteva convenire il teorema affilato del grande artista fiorentino, la sua exactitude un peu sèche. Ma il sepolcro che incontra il suo entusiasmo è quello di Paolo III, opera di Giacomo Della Porta che egli dice essere stata eseguita sotto la direzione di Michelangelo: parliamo di un lavoro mirabile non solo per la solenne effige del pontefice ma anche per le statue della Giustizia e della Prudenza.
La prima, magnifica nella sua nudità, lo mandava in sollucchero al punto di farlo dissentire dal suo riverito Canova che riscontrava in quella figura una forza eccessiva. Canova, però, resta, insieme a Rossini e al Correggio, il suo idolo. Stendhal amava innanzitutto l’uomo, la sua perfetta semplicità, il suo carattere virgiliano: era un artigiano, semplice di spirito che aveva avuto dal cielo, assieme alla genialità, una bell’anima. Stendhal diceva quel che pensava: pur apprezzando il monumento di Clemente XIII non manca di riconoscere che in quel capolavoro del Canova il genio della morte diventa un efebo talmente grazioso (joli) da divenire fatuo. E aggiunge: «Canova non aveva un’anima abbastanza oscura e abbastanza forte per inventare la figura della Religione». Più accorato è il suo apprezzamento degli angeli canoviani del Monumento degli ultimi Stuart: sono di una bellezza tenera ed ingenua che resta impossibile descrivere.
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